CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 402

L’angolo della Poesia di Gian Giacomo Della Porta

La Linea Maginot

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,

fra te e me ci sarà sempre l’Ombra delle Disgrazie Passate,

il Cielo dei Caduti ci sarà,

e le mie poesie piú amorose scritte per te ti faranno ricordare la polvere da sparo,

la polvere da sparo, le trincee, il fronte affumicato.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,

fra te e me,

fra ogni nostro aprile e noi,

fra ogni nostro novembre e noi,

l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot,

e mai, davvero mai riusciremo tu e io a occuparci soltanto delle tende nuove

necessarie a far cinguettare il nostro appartamentino,

necessarie per sottrarci alla vista di tutti quando beviamo

i dolci vini del nostro amore,

per non farci vedere da nessuno quando torniamo dalle nostre

inutili fughe stanchi,

per non far scoprire a nessuno le tacite ragioni per cui viviamo.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,

fra te e me, fra noi, fra tutti noi,

per dirci quanto siano insignificanti le tende nuove nel nostro appartamento

quanto sarebbe comicamente irrilevante anche chi potesse vederci quando ci amiamo,

qualcuno che potesse lamentarsi di noi quando ci amiamo.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,

l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot.

I treni ci porteranno nelle nostalgiche primavere dei nostri aprili novembrini

perché il nostro tetro carico urbano di pensieri

si arricchisca di verde cosí necessario per vivere,

cosí necessario per amare,

cosí necessario per andarsene umanamente,

ma sappi:

noi non riusciremo mai a raccogliere le margherite solo come margherite,

perché fra i fiori e noi, fra te e me,

ci sarà sempre la Linea Maginot.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot.

Fra te e me,

fra ogni nostro desiderio e noi,

fra ogni nostra partenza e noi,

fra ogni nostro ricordo e noi

ci saranno sempre

l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot.

Izet Sarajlić

 

Izet Sarajlic, nato a Doboi, Bosnia settentrionale, nel 1930, scomparso a Sarajevo nel 2002, è considerato uno dei più grandi poeti del Novecento.

Pioniere di nuove correnti poetiche in Bosnia-Erzegovina, è il poeta più tradotto dalla lingua serbo-croata, testimone e protagonista della guerra di Bosnia e dell’assedio di Sarajevo, quella Sarajevo da cui si è rifiutato di fuggire e di cui è diventato la voce più importante, una luce nelle notti più buie.

Nella drammaticità di quei momenti, nella sua Sarajevo bombardata e dolorante, Sarajlic ha avuto la forza di scrivere versi d’amore tra i più belli, di riaffermare la vita, di urlarla contro quel muro nero che era diventato il futuro, fino a farla rimbalzare di casa in casa, di cuore in cuore, a sostegno dei propri concittadini.

“Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”.

“A Parigi come potrei chiamare il pronto soccorso

se non ha risposto neppure agli appelli di Villon?

Qui, se chiamo persino i pioppi, miei concittadini,

anch’essi sapranno ciò che mi fa soffrire.

Perchè questa è la città dove forse non sono stato troppo felice,

ma dove anche la pioggia

quando cade

non è solo pioggia”.

Così scriveva Izet Sarajilic, un poeta che vi invito a scoprire.

Propongo qui una sua poesia, nella speranza che possa piacervi ed emozionarvi.

Gian Giacomo Della Porta

Filarmonica Trt: il ricavato del “concerto a sorpresa” destinato alla pace in Ucraina

/

FILARMONICA TRT DEVOLVE IL RICAVATO DEL CONCERTO PER LA PACE IN UCRAINA

CONCERTO A SORPRESA

dirige il maestro Gianandrea Noseda

Giovedì 17 marzo 2022 ore 20.30 | Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto

Da sempre simbolo di pace e aggregazione tra persone, popoli e culture, la musica può diventare anche strumento concreto di solidarietà. Da questa convinzione nasce la volontà della Filarmonica TRT di devolvere l’intero ricavato di “Concerto a sorpresa” alla Fondazione La Stampa – Specchio dei Tempi Onlus che sostiene il popolo ucraino, duramente colpito dagli scontri delle ultime settimane.

Il concerto della Filarmonica TRT di giovedì 17 marzo, diretto dal maestro Gianandrea Noseda, vuole diventare così una vivida testimonianza di pace, un gesto concreto a sostegno di chi sta vivendo una situazione di precarietà e paura.

Concerto a sorpresa è un format molto amato che da sempre coinvolge ed emoziona il pubblico. Il programma rimane segreto e si svela solo durante la serata attraverso un’avvincente e divertente interazione con la sala. Il direttore emerito Noseda, in prossimità dell’esecuzione dei brani, fornisce agli ascoltatori alcuni suggerimenti quali un inquadramento storico o territoriale, nozioni tecniche o semplicemente una breve descrizione del brano per poi, dopo l’ascolto, svelarne o confermarne autore e titolo. Ogni concerto a sorpresa rappresenta un viaggio di carattere culturale, geografico e soprattutto emozionale, un modo per allargare gli orizzonti, accantonare gli eventuali pregiudizi, trovare il bello nell’inaspettato e lo stupore nella scoperta. L’elenco dei brani eseguiti è distribuito in uscita dalla sala, alla fine della serata.

“In queste settimane è impossibile rimanere indifferenti di fronte all’atroce dramma umanitario causato dalla guerra in Ucraina – dichiara il presidente della Filarmonica TRT Giuseppe Lavazza. La Filarmonica TRT che da sempre ha a cuore i valori di pace, fratellanza e assoluto rispetto per la persona si unisce al suo pubblico per trasformare la musica in un messaggio di unione, speranza e profonda solidarietà”.

“Al fragore della guerra rispondiamo con il suono dei nostri strumenti – dichiara il maestro Gianandrea Noseda. Il concerto del 17 marzo vuole essere il nostro contributo e il nostro messaggio di vicinanza alla popolazione ucraina e a tutti coloro che stanno pagando un prezzo carissimo per difendere la libertà e la pace”.

Il museo “Gallerie d’Italia” apre a maggio in piazza San Carlo

Martedì 17 maggio 2022 a Torino in Piazza San Carlo a Palazzo Turinetti, sede legale e storica di Intesa Sanpaolo, la Banca inaugura il quarto museo, diecimila metri di percorso espositivo su cinque piani, di cui tre ipogei.

Il progetto architettonico trasforma gli spazi di Palazzo Turinetti, in un luogo unico dove fotografia e video arte documenteranno e conserveranno immagini, avvenimenti, riflessioni per promuovere i temi legati all’evoluzione della sostenibilità ESG (Environmental, Social, Governance). Le “Gallerie d’Italia – Torino” saranno sede dell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo – con circa 7 milioni di scatti realizzati dagli anni Trenta agli anni Novanta da una delle principali agenzie di fotogiornalismo italiane – ed esporranno una selezione di opere dalle collezioni del Gruppo tra cui il ciclo pittorico dell’antico Oratorio della Compagnia di San Paolo di proprietà della Banca.

L’apertura dei due musei costituisce un fondamentale passo di Intesa Sanpaolo nella promozione della cultura in Italia e nella valorizzazione del proprio patrimonio artistico formato da oltre 35 mila opere d’arte di proprietà, il cui valore economico è inserito a fair value nel bilancio dal 2017.

I quattro musei delle Gallerie d’Italia – Milano, Napoli, Torino e Vicenza – richiamano i tratti distintivi comuni consolidando il sistema museale di Intesa Sanpaolo gestito dal Progetto Cultura della Banca, nato per valorizzare il patrimonio storico artistico confluito negli anni nel Gruppo. Le sedi sono palazzi storici già uffici della Banca che, nell’opera di ristrutturazione guidata dalle nuove esigenze – tra cui l’apertura al pubblico, la tutela e conservazione delle opere d’arte, la sostenibilità, la piena accessibilità –, mantengono evidente il ricordo delle loro passate funzioni.

Il Piano d’Impresa 2022-2025 presentato di recente dal Consigliere delegato e CEO Carlo Messina rafforza l’impegno di Intesa Sanpaolo nella cultura con l’ampliamento degli altri due musei della Banca a Milano e Vicenza, portando entro il 2025 al raddoppio degli spazi espositivi complessivi delle Gallerie d’Italia – da 14.200 metri quadri a 30.000 metri quadri – e consolidando la posizione del Gruppo tra i primi operatori culturali privati a livello internazionale per reputazione, impegno e per dimensioni, qualità e valore finanziario della collezione, impegno che si inserisce nelle attività ESG del Gruppo.

Entrambi i musei realizzeranno numerose attività tra cui mostre temporanee originali, didattica per le scuole, ricerca scientifica, iniziative per l’inclusione sociale. Alcuni degli spazi saranno a disposizione per eventi e iniziative cittadine.

 

Le Gallerie d’Italia – Torino

L’ingresso alle nuove Gallerie d’Italia – Torino avverrà dall’attuale accesso al cortile della Banca, piazza San Carlo 156, attraverso un grande scalone che diventerà anche luogo di socialità e porterà i visitatori verso gli spazi espositivi ipogei destinati alle mostre.

Al primo piano sotterraneo, il progetto prevede la presenza di aule didattiche con spazi modulari caratterizzati da una grande vetrata che si affaccia sulla “Sala dei 300”, la storica sala dove si svolgevano le Assemblee dell’Istituto Bancario Sanpaolo-IMI prima della costruzione del grattacielo torinese. Qui saranno ospitate le mostre temporanee.

Il secondo piano ipogeo, dove si troverà la biglietteria, sarà un luogo di comunicazione e di incontro, anche per le scolaresche in visita, punto di snodo del museo da cui il pubblico potrà decidere come muoversi attraverso molteplici percorsi secondo le scelte e gli interessi. Una “manica lunga” pensata per la fotografia classica condurrà ai locali al terzo piano sotterraneo dove troverà sede l’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo, visibile da parte dei visitatori attraverso una grande vetrata. Un pannello touchscreen di grande dimensione permetterà di consultare le immagini digitalizzate dell’Archivio, reso così accessibile alla fruizione collettiva.  In questo piano si troverà uno dei maggiori elementi caratterizzanti delle Gallerie torinesi: una sala multimediale (40 x 14 m), vero gioiello di tecnologia e di innovazione, dotata di 17 proiettori 4K in grado di offrire al visitatore la sensazione di essere letteralmente immersi nelle immagini e nei video.

Il percorso di visita non si limita agli spazi ipogei. Risalendo fino al piano terra il pubblico troverà un chiostro all’aperto delimitato da Piazza San Carlo, via XX Settembre e via Santa Teresa, dove apriranno anche una nuova libreria, il caffè e il ristorante.

Al piano nobile del Palazzo, nell’infilata di sale che affacciano su Piazza San Carlo, il percorso museale curato da Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti e Gelsomina Spione esporrà circa cinquanta opere – dipinti, sculture, arazzi, arredi – dal XIV al XVIII secolo, allestiti in dialogo con gli apparati decorativi tardobarocchi (sovrapporte, boiseries, specchi) del palazzo; un ambiente dedicato ospiterà inoltre le nove grandi tele di proprietà della Banca realizzate nella seconda metà del Seicento per decorare l’antico Oratorio della Compagnia di San Paolo, oggi distrutto. Nello stesso piano la storica “Sala Turinetti” sarà destinata a eventi e iniziative cittadine.

La Direzione del museo torinese è affidata a Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici e Direttore delle Gallerie d’Italia, affiancato dal Vicedirettore Antonio Carloni, già direttore del Festival internazionale Cortona On The Move.

Le due mostre inaugurali

L’inaugurazione degli spazi espositivi avverrà con la mostra “La fragile meraviglia. Un viaggio nella natura che cambia” di Paolo Pellegrin, un reportage fotografico d’autore dedicato al tema del cambiamento climatico con la curatela di Walter Guadagnini e il contributo di Mario Calabresi. Il lavoro rappresenta una committenza originale che ha visto impegnato il fotografo in Paesi come Namibia, Islanda, Costa Rica, Italia per fornire una personale lettura per immagini del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente naturale, tema cruciale della contemporaneità. La riflessione per immagini di Pellegrin dialogherà con la mostra “Dalla guerra alla luna. 1945-1969”, una selezione di immagini storiche dell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo a cura di Giovanna Calvenzi e Aldo Grasso che documenta il miracolo economico fino alla più grande conquista dell’uomo moderno, lo sbarco sulla luna.

Alla Palazzina di Caccia di Stupinigi passeggiate guidate al Parco Storico

/

“Leggere il giardino”. Il parco ospitò anche l’elefante Fritz

Da sabato 19 marzo

Progettato sul modello francese nel 1740 da Michel Bénard, direttore dei “Reali Giardini”, che riuscì perfettamente ad elaborare il pensiero juvarriano di “spazio aulico dinamicamente collegato con l’ambiente venatorio circostante”, il giardino della Palazzina di Caccia di Stupinigi aprirà eccezionalmente i cancelli al pubblico, da marzo ad ottobre, una volta al mese, il sabato mattinadalle 10,30 alle 12,30. Muniti di caschetto di protezione, i visitatori potranno addentrarsi nei giardini, dal cortile d’onore, al padiglione centrale, al giardino di levante, alla scoperta delle evoluzioni del parco interno alla Palazzina. Attraverso mappe e documenti storici le passeggiate ripercorreranno le fasi e gli stili del giardino, dal gusto alla francese del Settecento all’evoluzione del gusto romantico, fino ad arrivare al giardino Novecentesco risalente al periodo delle villeggiature della regina Margherita. L’iniziativa, titolata “Leggere il giardino” e promossa dalla “Fondazione Ordine Mauriziano” (ente governativo dedicato alla conservazione e valorizzazione della “Residenza Sabauda per la Caccia e le Feste” edificata a partire dal 1729 su progetto di Filippo Juvarra) prenderà il via sabato prossimo 19 marzo. Per proseguire il 2 aprile, il 21 maggio, il 18 giugno, il 17 settembre e l’8 ottobre. La Palazzina di Caccia di Stupinigi, con il suo parco, rappresenta un sistema integrato tra l’attività venatoria e il loisir della corte. Occupa una superficie di circa dieci ettari lungo l’asse longitudinale che attraversa Stupinigi in direzione nord-sud: arrivando da Torino si trovano i grandi prati semicircolari che introducono ai parterres fino al cortile d’onore, con una serie di viali trasversali a collegare le scuderie e i diversi appartamenti reali. Nella concezione progettuale dell’architetto messinese Filippo Juvarra, l’area verde era strettamente connessa alle linee, straordinariamente innovative per il tempo, della Palazzina di Caccia. Nel 1740 iniziarono i lavori, per terminare verso la fine del secolo, sotto la direzione dell’Architetto Reale Tommaso Prunotto e portati avanti da Ludovico Bo e dal Direttore dei Reali Giardini Michel Bénard che seppero elaborare e mantenere l’idea originaria juvarriana di simmetria e prospettiva. Durante l’occupazione napoleonica, il giardino subì una prima trasformazione: vennero eliminati i sostegni in ferro e legno delle “gallerie verdi” come anche i vasi di fiori e alcuni parterres furono trasformati in “bosquet” con la messa a dimora di alberi anche di alto fusto. Reimpiantati nel tempo, oggi rimangono comunque ancora visibili i filari di carpini. Nell’Ottocento, intorno alla metà del secolo, il giardino venne rimaneggiato per adeguarsi al nuovo gusto inglese e sotto la direzione di architetti e paesaggisti del tempo come MelanoRoda e Scalarandis si introducono nuovi elementi paesaggistici come il laghetto con l’isolotto, la capanna dell’eremitaggio, un labirinto di bossi e il “casino cinese”, il giardino di fiori nell’area di levante che ospitava il luogo di ricreazione dell’elefante Fritz, inviato nel 1827 dal vicerè d’Egitto Mohamed Alì come omaggio a Carlo Felice che ricambiò con 50 pecore merinos. Triste storia quella dell’elefante Fritz. Accolto come un’autentica star di fama internazionale, il pachiderma per venticinque anni rappresentò una grandissima attrattiva per i torinesi e fu il primo animale ad essere immortalato su un dagherrotipo, oltreché in vari dipinti ed incisioni e perfino nelle pagine di scrittori e poeti. Senonché nel 1852 accadde l’irreparabile. Il nuovo guardiano (succeduto al primo) lo colpì involontariamente con un tridente ferendolo alla proboscide. Il che non piacque affatto a Fritz che, dopo averlo lanciato in alto, lo schiacciò inesorabilmente al suolo. Gesto di stizza che per l’ormai anziano Fritz, ritenuto da allora “animale pericoloso”, indusse le autorità a sopprimerlo mediante asfissia con ossido di carbonio. Tassidermizzato, Fritz è oggi conservato nel “Museo Regionale di Scienze Naturali” di Torino.

g.m.

Per info: Palazzina di Caccia di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Nichelino (Torino); tel. 011/6200634 o www.ordinemauriziano.it

Obbligatoria la prenotazione: costo del biglietto 13 euro, comprendente la visita guidata e l’ingresso a prezzo ridotto in palazzina.

L’esistenza di un’amicizia troncata da “una intonazione”

Sul palcoscenico del Carignano, sino al 20 marzo, per la stagione dello Stabile torinese

 

Se vorrete per 80’ sottrarvi alla cascata e al culto delle immagini che quotidianamente vi invadono e che stanno impoverendo il nostro mondo, non perdetevi questo “Pour un oui ou pour un non” che fino al 20 marzo è di scena al Carignano per la stagione dello Stabile Torinese: vi affiderete così totalmente alla bellezza della “parola”, al culto e alla preparazione, al suo svolgersi irruente o delicato, al suo esporsi di fronte a chi guarda e ascolta senza ripensamenti. L’autrice del testo è Nathalie Sarraute – lo scrisse nel 1982 -, una scrittrice che ha attraversato per intero il secolo scorso (1900 – 1999), di origini russe ma che la madre condusse a soli due anni a Parigi, dopo il divorzio dal marito, “una delle più importanti scrittrici francesi della seconda metà del Novecento, che ha occupato un posto importante nell’alchimia tra il teatro dell’assurdo e il teatro del quotidiano”, è stato scritto, una donna che relativamente tardi s’addentrò nella letteratura europea per scoprire Joyce e Proust, per eleggere Dostoevskij e Kafka come fonti della propria copiosa scrittura.

Quel titolo lo potremmo tradurre “per un nonnulla”, per “una cosa di nessun conto”, una frase senza peso al centro di un discorso che poi ti chiedi “ma di che stiamo parlando”? La scena è uno studio, un divano rosso al centro, solitario in un acceso bianco e nero che avvolge tre alte librerie, i libri disposti forse in un certo ordine, un paio di poltrone e la lampada, tutto di design, la parete-lavagna da un lato, una finestra che guarda sul mondo di fuori. Un uomo entra, è venuto a trovare un vecchio amico, un’amicizia che arriva da lontano, per chiedergli perché da un po’ di tempo non lo senta, perché si neghi, perché lo abbia cancellato. Il padrone di casa sembra aspettarlo, cita un proprio successo e il commento esile, povero, “normale” offerto dall’amico. Un malinteso, soltanto un malinteso? Poco, “un nulla”, di lì il silenzio. Poche parole dove hanno trovato posto un intervallo più lungo, un accento fatto pesare più del dovuto, uno stiramento, una sospensione. Un’intonazione sbagliata, forse, la sua ambiguità, l’interpretazione di chi riceve, secondo l’umore del momento, sovvertita, anche. Forse surreale, certo sofisticata, uno spazio dove continuare a soppesare il pensiero e la parola che ne consegue, “Pour un oui ou pour un non” arriva a mettere in forse l’antica amicizia, a scoprire segreti per tanti anni taciuti, piccole verità che ancora oggi stanno cercando il loro posto. Ma in quel grumo di parole – le parole hanno un peso! -, per un uomo, ci sono le certezze di una vita, i fallimenti, c’è il nascondiglio di un certo sarcasmo o di una gioia espressa con fare disattento, c’è l’invidia o la consapevolezza di una reale superiorità. C’è un “jeu de massacre” inarrestabile che cresce ed esplode. Si vuole comunque fare chiarezza, si cerca di capire il perché di un allontanamento, si arriva a interpellare con una video chiamata una coppia di comuni amici perché esprimano il loro giudizio, cadono tra il tanto puntualizzare parole mai dette come “degnazione” e “geloso”, rimane nell’aria quel tanto di risentimento a lungo covato da una parte e dall’altra un preteso alleggerimento – lo si può costruire con semplici passi di danza obbedendo ai suoni che arrivano su dalla strada – che riporti le due esistenze al nitido rapporto di un tempo. Ma davvero chi ha sofferto per anni di quella “intonazione” riuscirà a liberarsi del peso enorme portato addosso per una vita?

Umberto Orsini teneva il testo della Sarraute nel cassetto da 35 anni, glielo aveva passato Pier Luigi Pizzi. Altri tempi, altre età, forse altre personali “intonazioni”. Non arrivava mai il momento per una messa in scena. Oggi – sottolineando i dati anagrafici di questi leoni da palcoscenico: l’attore tra poco più di quindici giorni ne compirà 88, il regista si avvicina ai 92 – hanno deciso il grande salto, mettendosi in buona compagnia del “giovane” Franco Branciaroli (qui andiamo verso i 75). Mentre Pizzi traduce e guida uno spettacolo fatto di piccoli toni, di azioni impercettibili, di quella signorilità scenografica che da sempre gli riconosciamo (la memoria si sbriglia a rimettere davanti agli occhi certe sue scene, e non soltanto con la Compagnia dei Giovani), Orsini e Branciaroli sono la vecchia guardia del teatro, vivissimi (e non è soltanto questione d’agilità, sia ben chiaro), che riporta sul palcoscenico la bellezza della recitazione, la sua concretezza, la sua lotta per costruire e dare tutta l’importanza dovuta alla parola. Esattezza, virtuosismi, eccellenze. Orsini si cala nel risentimento, nel dolore, nella ribellione del suo personaggio, con la sua voce di velluto che sappiamo, ondulata, amabilissima, Branciaroli altera completamente la propria, ne fa falsetti e arditezze senza interruzioni, o ne esce per un attimo, rendendocela in profondità, giocando il suo paciere sulla vena di un impensabile umorismo, che può porre anche su un piano di divertimento un testo non facile e uno spettacolo teso a tratti sino all’inverosimile. Due vere macchine da guerra che il pubblico ha applaudito più e più volte al termine della serata.

 

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono firmate da Amati Bacciardi

Tigre di Arkan. Il racconto dell’orrore nei Balcani

“Tigre di Arkan” è un libro che racconta il clima, i rapporti, il delirio nel quale emerse – nella Jugoslavia in dissoluzione degli anni ’90 – la violenza nazionalista e criminale di Zeliko Raznatovic, noto come il comandante Arkan, capo sanguinario delle ‘Tigri’ serbe, praticamente il numero uno della milizia paramilitare e ultranazionalista durante la guerra in Bosnia e Croazia. L’autore è Michele Guerra, attivista sui temi legati alle migrazioni internazionali e al razzismo, esperto di letteratura balcanica per la rivista online PULP Libri. A pubblicarlo è Infinito, la casa editrice diretta da Luca Leone che da anni dedica con serietà e passione una grande attenzione a quanto accadde trent’anni fa sull’altra sponda dell’Adriatico, nella prima guerra sul suolo europeo dopo il secondo conflitto mondiale. La storia ha il ritmo di un romanzo nero e parte nel 1992 da Bijeljina, la seconda città in ordine di grandezza dopo Banja Luka dell’attuale Repubblica Serba di Bosnia. Racconta di una celebre fotografia che viene riproposta anche in copertina, della testimonianza di un paramilitare ancora vivo e in libertà, macchiatosi di crimini orribili. A tre decenni dall’inizio della dissoluzione jugoslava, una Tigre di Arkan rievoca con un linguaggio che fa accapponare la pelle le vicende che lo condussero a diventare uno dei sanguinari miliziani che operarono sui fiumi-confini del Danubio, della Sava e della Drina. La musica rock della Belgrado alternativa degli anni Ottanta, l’irriverenza delle avanguardie, i successi dello sport jugoslavo e i primi feroci scontri negli stadi di calcio fanno da sfondo e da lievito per la militarizzazione delle coscienze, l’ascesa del nazionalismo serbo e croato, l’impotenza del pacifismo, il dominio dei clan mafiosi nella federazione voluta da Tito. Come ricorda Luca Leone si assiste ad una sequenza “ di memorie affilate, fondate su ferite ancora aperte, in bilico tra cinismo e rancore, necessarie per comprendere l’ascesa e il consenso dei nuovi nazionalismi. Nei Balcani e non solo”. “E’ un libro che odora di sangue”, afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “ Ma quel sangue domina un decennio, gli anni Novanta, di storia dei Balcani occidentali. Non va ignorato. Sia quando lo annusano le ‘tigri’ di Arkan in pieno raptus testosteronico, sia quando lo versano i sacrificati: donne, uomini e altri che in quei maledetti dieci anni si sono trovati nel posto dove volevano stare ma dove non potevano stare”. Un libro che, sempre a giudizio di Riccardo Noury, “pare scritto a sei mani: da un musicista della scena underground jugoslava, da un ultrà della curva di uno stadio e, infine, da un paramilitare con la bava alla bocca”. E’ il racconto di molte dissoluzioni, ricorda l’esponente di Amnesty, “la dissoluzione politica della Jugoslavia,  di una Nazionale di calcio e della squadra che ne era la spina dorsale, la Stella Rossa di Belgrado, composte l’una e l’altra da serbi, croati, macedoni, bosniaci e sloveni (un’eresia…) ma anche una dissoluzione morale, antropologica, un cupio dissolvi che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta che inghiotte tutto e tutti”. Tra i capitoli si intravvede sempre la figura di Arkan e l’escalation di violenze della “pulizia etnica” come accadde durante l’assedio di Vukovar.  Zeliko Raznatovic, figura di spicco degli ultras della Stella Rossa di Belgrado, nel 1992 venne eletto deputato al Parlamento di Belgrado. Durante tutto l’arco del conflitto bosniaco le sue Tigri parteciparono a massacri, stupri, genocidi della popolazione di fede musulmana da Višegrad a Srebrenica dove aiutò il boia Ratko Mladić. Sul capo di questo “signore della guerra” pendeva  un mandato di cattura emesso dal Tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità dal settembre del 1997 ma non venne mai arrestato e giudicato perché venne assassinato a Belgrado il 15 gennaio del 2000.

Marco Travaglini

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria 

Damon Galgut “La promessa” -edizioni e/o- euro 18,00
Questo romanzo non è solo magnifico, di più. Non per niente lo scrittore africano 58enne ha vinto il Booker Price 2021. Galgut, nato in una famiglia di avvocati, oggi vive a Città del Capo, ed è il terzo autore sudafricano a vincere il prestigioso premio (dopo Nadine Gordimer e JM Coetze).
Al centro c’è il lungo e continuo dramma familiare degli Swart, sullo sfondo del Sudafrica, vicino a Pretoria, a partire dagli anni Ottanta ancora dilaniati dall’apartheid. Una narrazione magistrale il cui perno sono la fattoria di famiglia, una promessa mai mantenuta che pesa come una maledizione sui personaggi, i loro difficili rapporti e i vari destini.
E’ suddiviso in 4 capitoli, ognuno legato alla morte di uno dei membri della famiglia nell’arco di 30 anni, il cui funerale richiama alla fattoria gli altri parenti. Però, tra bare e funerali, non spaventatevi, perché Galgut è straordinario nel gestire i temi fondamentali della vita e del fine vita in un modo che vi affascinerà.
Il nucleo centrale è formato da madre, padre e 3 figli, con un corollario di parenti- serpenti e una cameriera fedele ma tradita.
La prima a lasciare questo mondo è la madre Rachel, malata da tempo. A piangerla sono il marito, la figlia maggiore Astrid, adolescente fatua e dilaniata dal senso di colpa perché mentre la donna esalava l’ultimo respiro lei era nelle stalle in tutt’altro affaccendata.
Il fratello 19enne Anton, militare nel South African Army, in piena crisi di coscienza e in odore di diserzione, per giunta ostile verso il padre.
Poi la più piccola, Amor di 13 anni che viene richiamata dal collegio in cui studia e che odia profondamente. E’ lei che avrebbe sentito Rachel in fin di vita strappare al marito la promessa di regalare alla cameriera di colore Salome –che l’ha amorevolmente accudita fino all’ultimo- la misera casetta in cui vive.

Il clima domestico è irrespirabile non solo per il lutto, ma anche perché Rachel è tornata all’ebraismo in cui era nata e cresciuta e dà disposizioni sulla sua sepoltura; ben diverse da quelle che aveva in mente il marito Manie.
Di lì in poi seguiremo le vite stentate dei figli, tra fughe lontano, irreperibilità, matrimoni disastrosi, rapporti freddi e difficili.
Il prossimo a morire, un decennio dopo, è il padre, per il morso di un cobra; e siamo in un Africa in cui l’atmosfera è diversa con Mandela al potere, ma alla fattoria le cose non sono cambiate. E Amor, rintracciata a fatica, torna, e ricorda a tutti la famosa promessa, che però neanche stavolta viene mantenuta.
Poi altre morti che non vi anticipo, ma altamente tragiche, ed altri rancori che vengono a galla, altre sepolture e quella promessa ancora sospesa….
Una lettura che non vi mollerà più fino all’ultima pagina…

Louise Erdrich “Il guardiano notturno” -Feltrinelli- euro 20,00
L’autrice di questo romanzo è nata nel 1954 a Little Falls nel Minnesota ed è figlia di un tedesco-americano e una mezzo franco-americana e mezzo ojibwe. Un Dna composito e affascinante al quale si aggiunge la discendenza dal nonno materno, Patrick Gourneau che fu presidente del Consiglio direttivo della tribù dei Chippewa della Turtle Mountain.
Louise ha scritto numerosi racconti, romanzi, poesie, libri per l’infanzia e memoir. Ha vinto premi letterari prestigiosi come il National Book Award proprio con “Il guardiano notturno” lo scorso 11 giugno; ed è stata finalista al Pulitzer.

Nelle sue vene scorre un quarto di sangue ojibwe, la tribù delle terre del Nord chiamata anche Chippewa, che significa “gli abitanti delle origini”. La sua vita è stata devastata da lutti che sono stati vere e proprie tragedie. Ha perso il primo dei tre figli adottati con il marito, lo scrittore e antropologo Michael Dorris, che era il suo professore al Dartmouth College. Con lui ha avuto altre tre figlie naturali; poi nel 1995 la separazione e due anni dopo il suicidio di Dorris, travolto dal fango delle accuse di abusi sessuali sulle figlie.

Louise Erdrich è una donna dalla tempra di acciaio e in questo suo ultimo libro richiama il presente in cui si celebra il mese dedicato alla cultura e alle tradizioni dei nativi, il National Native American Heritage Month.
La storia è una corposa fiction storica basata sulla vita del nonno materno che, come il protagonista Thomas Wazhashk, era stato guardiano di notte; un uomo che coraggiosamente aveva condoto una dura battaglia in difesa della sua gente dalle leggi di Washington.
Il romanzo è ambientato in un periodo difficile denominato “Termination Era”, ovvero era della terminazione, tra anni Cinquanta e Sessanta, quando il Congresso Americano cercò di sbarazzarsi definitivamente delle tribù indigene che la storia aveva già relegato in micro riserve piene di miseria.

Fondamentali sono le pagine in cui la Erdrich narra la devastante proposta di legge messa a punto per abrogare i contratti bilaterali stipulati con le nazioni indiane d’America, la House Concurrent Resolution 108 del primo agosto 1953. Una proposta irricevibile, e la tribù della scrittrice, la Turtle Mountain Band of Chippewa, si salvò a fatica; ma in America ci sono altre 576 nazioni tribali, ognuna con una storia diversa da raccontare.
Altro tema caro alla scrittrice e centrale nel romanzo è la persecuzione delle donne indigene che ha origine dal 1942. Al centro di questa tragedia il personaggio della giovane Patrice Paranteau impiegata nello stabilimento di rubini in cui lavora anche Thomas. Una vita difficile in cui la ragazza ha un padre alcolizzato e violento. E’ lei con il suo lavoro a mantenere la madre e un fratello, ed è sempre lei che va alla disperata ricerca della sorella scomparsa a Minneapolis. Di nuovo una realtà storicamente accertata, tanto più che nel 2019, secondo dati dell’Fbi, sono state circa 6000 le donne indiane rapite, sparite nel nulla o assassinate.

 

Laurie Dennet “La principessa americana” -Allemandi- euro 30,00
Questa è l’affascinante biografia dell’ereditiera americana Marguerite Chapin Caetani, che fu principessa, anima del famoso giardino di Ninfa –il più romantico d’Europa-, grande mecenate della letteratura mondiale del XX secolo, donna colta, curiosa di vita, di grande intelligenza e sensibilità.
Marguerite Gibert Chapin appartiene all’aristocrazia industriale e finanziaria degli Stati Uniti; nasce il 24 giugno 1880 a Waterford nel Connecticut, primogenita e figlia unica, malgrado i tentativi dei genitori Lindley e Leila di allargare la famiglia. Desiderio infranto contro la morte della sorellina in fasce e continui aborti spontanei, l’ultimo fatale per Leila stroncata dalla setticemia.
All’epoca Marguerite ha appena 5 anni, capisce poco del dramma; le resta l’amore del padre dilaniato dal lutto che chiude il lussuoso appartamento sulla Quinta Strada di New York e con la figlioletta e la servitù si ritira nella villa di Waterford. Poi 3 mesi dopo la morte della moglie va a Parigi per trascorrere l’estate con Marguerite che ha così il suo primo contatto diretto con lo stile di vita francese.
Qualcosa cambia quando Lindley sposa in seconde nozze la giovane Cornelia, nel 1888; Marguerite non è più il fulcro della vita del padre e patisce anche l’arrivo dei tre figli della coppia. La sua via di fuga diventa la lettura, ancora di salvezza ancor più quando resta orfana anche del padre a 15 anni.
E’ abile nel costruirsi una vita all’insegna del bello, della cultura e dei viaggi, in un continuo andirivieni tra le due sponde dell’Oceano Atlantico; avvantaggiata da bellezza e un enorme patrimonio personale che le permette di seguire le sue passioni in libertà.
Nel 1911, a 31 anni, è un’attraente single che coltiva i suoi interessi, decisa a non sposarsi. La svolta è l’incontro con il 40enne principe Roffredo Caetani, compositore e secondo genito di Onorato Caetani XIV duca di Sermoneta. Uno dei maggiori possidenti terrieri d’Italia, discendente dall’antica casata che risaliva al IX secolo e annoverava due Papi.
Tra Marguerite e Roffredo è praticamente un colpo di fulmine.
Il loro sarà un matrimonio coronato dalla nascita di due figli –Lelia e Camillo- immenso amore e condivisione di interessi e stile di vita. Si costruiscono un’esistenza incentrata sulla musica, le arti visive, la letteratura e lo scambio continuo di idee.

Marguerite, invece di dissipare la sua esistenza tra feste e vacanze, ripristina i giardini inselvatichiti e paludosi di Ninfa, nel borgo medievale dei Caetani. E’ in prima persona l’artefice giardiniera di quello che diventerà uno dei giardini più importanti in Europa.
La sua vita si alterna tra l’Italia e la lussuosa Villa Romaine a Versailles, dove transita il meglio del mondo culturale non solo francese. Marguerite è lungimirante mecenate di scrittori e artisti, sempre aggiornata su tutto quello che di rilievo viene scritto, e che legge agevolmente data la padronanza di ben 4 lingue.
Sono gli anni parigini di grande fervore intorno alle famose librerie di Adrienne Monnier e Silvya Beach, che fecero conoscere scrittori americani della levatura di Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos, Ezra Pound.

Marguerite, con alcuni letterati e l’amico poeta Paul Valery, fonda la rivista letteraria “Commerce”; che dirige, attenta all’alta qualità e alle novità dei contributi, fino alla forzata chiusura nel 1932.
Nel 1948, stabilitasi a Roma, a Palazzo Caetani, ne fonda un’altra altrettanto autorevole e prestigiosa, “Botteghe Oscure”, dal nome della via in cui viveva.
E tra gli ospiti a Ninfa, un parterre di scrittori tra i quali Alberto Moravia, Elsa Morante, Edmund Wilson, Agatha Christie e molti altri ancora.
Un compito importante consisteva nell’assistere gli autori di lingua inglese che transitavano per Roma: tra loro Muriel Spark, Carson Mc Cullers, T.S. Eliot, Cynthia Ozick, Allen Ginsberg e l’incontro tra Marguerite e Karen Blixen.

L’autrice della biografia, Laurie Dennett vi racconta a fondo l’entusiasmante avventura di Marguerite, e non si ferma alla sua morte nel 1963, perché marito e figlia prenderanno il testimone.

 

Marco Buticchi “Il mare dei fuochi” -Longanesi- euro 20,00

Con questo romanzo Marco Buticchi mette in campo una versione alternativa e verosimile di 40 anni di storia italiana: mischia, con la sua consueta abilità periodi e fatti lontani nel tempo, li assembla all’attualità, tutto condito da colpi di scena continui.
Centrali sono sempre i due protagonisti di tante sue storie: il piccolo-grande israeliano Oswald Breil –carriera esemplare da capo del Mossad a premier del suo governo- e la 57enne di inossidabile avvenenza, coraggio e bravura Sara Terracini, moglie e compagna di infinite avventure ai quattro angoli del mondo, a bordo del loro meraviglioso yacht Williamsburg.
In questa spy story compaiono esponenti della mafia calabrese, del terrorismo internazionale legato all’Isis, agenti corrotti dei servizi segreti, finanzieri ricchissimi e totalmente privi di scrupoli.
Cuore della storia sono alcuni misteri tutt’ora irrisolti, come la tragedia di Ustica e l’attentato di Bologna. A pochi mesi di distanza, nel 1980, prima l’apparentemente inspiegabile disastro aereo del volo Itavia Bologna Palermo esploso in volo, in cui 81 persone, tra passeggeri ed equipaggio, trovarono la morte. Seguito il 2 agosto dagli 85 morti nell’attentato alla stazione di Bologna.

Ancora oggi si brancola nel buio, tra indagini finite in vicoli ciechi, versioni discutibili e contrastanti. Buticchi intorno a questi tragici eventi imbastisce la storia che inizia con una misteriosa donna che contatta Sara Terracini, supplicandola di aiutarla. E’ la vedova di un ufficiale di Polizia morto in modo misterioso nel 1955, mentre era a una svolta delle sue indagini su un traffico di rifiuti tossici.
Godetevi sviluppi e suspence continue in un crescendo di bravura e sorprese…..

La fabbrica delle immagini, laboratori per i più piccoli

/
I nuovi laboratori di sperimentazione e creazione di immagini per bambini, adolescenti e adulti di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia
Dal 12 marzo al 29 maggio 2022
In occasione della mostra “Capolavori della fotografia moderna 1900-1940. La collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York”, aperta il 3 marzo e visitabile fino al 26 giugnoCAMERA – Centro Italiano per la Fotografia presenta un nuovo programma di laboratori di sperimentazione e creazione di immagini per bambini, adolescenti e adultiLA FABBRICA DELLE IMMAGINI.
 
Fin dai primi anni dopo la sua nascita, la fotografia riesce a dare voce alla fantasia, ma è nel periodo che va dal 1900 al 1940 – gli anni presi in esame dalle fotografie in mostra – che gli artisti iniziano a utilizzarla in una maniera completamente nuova. Come mai prima d’ora, gli autori esplorano le numerose possibilità offerte dalla fotografia e dalla carta fotosensibile, creando attraverso di essa nuovi mondi e nuovi immaginari. I collages, i fotomontaggi, la fotografia off-camera, le solarizzazioni e le doppie esposizioni diventano strumenti al servizio dell’espressione artistica in un clima di fermento senza eguali.

Prendendo ispirazione dalle opere in mostra e dal clima culturale che ha caratterizzato quei decenni, CAMERA ha voluto progettare un ricco programma di nuovi laboratori pratici, LA FABBRICA DELLE IMMAGINI appunto, dove “sporcarsi le mani” per far rivivere ai partecipanti quell’atmosfera di incredibile sperimentazione, unendo agli strumenti del passato quelli del presente, in un viaggio al di là del tempo tra le infinite possibilità della fotografia.
 
Sono sette i nuovi laboratori de LA FABBRICA DELLE IMMAGINI che sono stati pensati, e quindi adattati, per i bambini e i ragazzi (6-11 anni; 11-13 anni; 14-18 anni) e per gli adulti:
La magia della camera stenopeica
La CAMERA oscura
Dalla luce alle immagini: la cianotipia
-#Photostories
L’impronta del reale
Della fotografia non si butta via niente!
La traccia del tempo
 
Per informazioni e prenotazioni: didattica@camera.to

Rock Jazz e dintorni: Nino D’Angelo e i Lou Dalfin

/

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

 

Martedì. Al Jazz Club suona il pianista Danilo D’Agostino. Al Le Roi alcuni esponenti del beat italiano si esibiscono a sostegno dell’Ucraina.

Mercoledì. Al Jazz Club è di scena il cantante chitarrista Roberto Zorzi.

Giovedì. Al Cafè Neruda suona il trio di Luigi Tessarollo. Al Cap 10100 si esibisce il cantautore Alessio Bondì. Al Jazz Club è di scena il quartetto The Hot Pots. Al Dash suonano i The Bridgers Company mentre al Magazzino di Gilgamesh si esibisce il quintetto Black &Blue.

Venerdì. All’Askatasuna suona l’Ukulele Turin Orchestra. Alla Suoneria di Settimo sono di scena i Lou Dalfin. Al Teatro Colosseo recital di Nino D’Angelo. All’Arteficio suonano i Fine Harp Blues Revue con l’armonicista Eros Barbin. Al Folk Club è di scena il supergruppo Session Americana. All’Off Topic si esibisce la cantautrice Mèsa con Simo Veludo e Brxit. Al Blah Blah sono di scena i Dobermann mentre al Magazzino sul Po suona il trio Sloks con i Cani Sciorrì. Allo Ziggy si esibiscono I Boschi Bruciano.

Sabato. All’Off Topic si alternano Fausia, Vea, Jacopo Perosino e Anna Castiglia. Al Blah Blah è di scena il duo Kick. Al Cap 10100 si esibisce la Turin Soul Orchestra con il vocalist Samoo. Allo Ziggy suona il quartetto la Trappola di Dalian.

Domenica. Al Jazz Club si esibisce il sestetto Boogianen. Al Teatro Garybaldi di Settimo va in scena lo spettacolo “Decamerock”, con Massimo Cotto, Mauro Ermanno Giovanardi e Chiara Buratti.

 

Pier Luigi Fuggetta

Fra “sublime” e “squallore”, quest’è arte

Michael Biberstein e Michelangelo Pistoletto in mostra alla Galleria “Giorgio Persano” di Torino

Fino al 25 maggio

“Come ci troviamo sulla cima di una montagna e osserviamo un paesaggio sublime, l’occhio vaga sul paesaggio, lo sguardo totalmente rilassato, mai fissato a lungo su un singolo punto…E così, per un momento, il se’ e tutto ciò che lo circonda si assorbono, coincidono”. Impossibile fermarsi al dettaglio. Terra, acqua e cielo si fanno un tutt’uno e il paesaggio diventa “pretesto”, invenzione di occhi mente e anima. Compito dell’artista è dunque “accompagnare chi guarda in una lenta esperienza immersiva”. Ed è proprio in questa dimensione di “indagine psicologica, fenomenologica ed emotiva” che si identifica l’opera dello svizzero di Solothurn, Michael Biberstein, scomparso nel 2013 ad Alandroal in Portogallo, cui Giorgio Persano dedica una nuova mostra – dopo quella del 2015– nella Galleria aperta nel 2020 in via Stampatori, al primo piano del rinascimentale “Palazzo Scaglia di Verrua”. Esposti troviamo quadri di grandi dimensioni, attratti da linguaggi astratto-concettuali, che raccontano di realtà sospese in atmosfere impalpabili, in immagini che sono realtà sovrapposte di nuvole e profili di montagne, pittoricamente relizzate mediante ripetuti strati di acrilico molto diluito,  o spray, su lino.

L’effetto è di morbida, pur se complicata, narrazione ma anche di imprevedibili sciabolate di luce che a prima vista ricordano le luminose volte tardobarocche del Tiepolo (fu proprio la visione dell’affresco del maestro veneziano a Würzburg a ispirare all’artista il progetto del soffitto a volta della “Chiesa di Santa Isabel” di Lisbona), così come i paesaggi “mentali” di Lorrain e Constable o certe inquietanti atmosfere alla Turner “a sort of delihtful horror”, come sottolineava a proposito del romantico pittore inglese il “Cicerone britannico”, Edmund Burke, teorico del concetto filosofico del “sublime”. Per non dire – com’è stato giustamente rilevato – di alcune sottili analogie fra i “cieli” di Biberstein con la pittura orientale e con la lievità e la delicatezza dell’arte zen. Pittura come “pratica spirituale.  Obiettivo di fondo, recuperarne la dignità in quanto strumento di visione e conoscenza del mondo. Esattamente l’opposto di quanto si prefiggono le sculture dipinte, i “volumi scuri”, denominati “Arte dello squallore”, prodotti, fra il 1985 e il 1989, da Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933): una serie di opere in poliuretano, ricoperte di tela e dipinte di colori scuri che intendono riportare l’attenzione alla “quarta generazione” – dopo i “Quadri specchianti”, gli “Oggetti in meno” e “Le Stanze” – dell’artista, ripresentato in Galleria con due importanti lavori di questo periodo, in cui l’artista biellese si propone di indagare sul rapporto fra pittura e scultura, in relazione allo spazio, alle dimensioni e alla superficie. “Così come nei ‘Quadri specchianti’, il tema cardine è il dualismo tra astrazione e immagine, concetto e realtà, le sculture sono invece portatrici di un ‘volume’ che dà spazio a una rottura con la bidimensionalità dell’immagine nonostante l’intervento pittorico. In questo caso la decisione di dipingere i volumi di scuro porta le opere ad assorbire, e non a restituire, la realtà”. Interessante la scelta di utilizzare un materiale non nobile come il legno e il poliuretano, che Pistoletto introduce nella sua ricerca a partire dagli anni ’80, sia per la maggiore velocità di lavorazione, sia per coerenza con i principi propri dell’“Arte Povera”, di cui l’artista è animatore e fattivo protagonista, e nella piena determinazione  dell’“Arte dello squallore”. Di un’arte che è dialogo dimesso con il tema del vuoto, dell’assenza e appunto dello “squallore”. Di “un’arte parassita – scriveva lo stesso Pistoletto – della mortificazione […] Massa di idee tritate, di oggetti triturati, di significati maciullati, macerati, ammollati e compressi. Frantumi di strumenti e di concetti: polvere stellare, schiuma cosmica, lava meteoritica, ghiaccio siderale”.

Ma  a ciò seguiranno altre “generazioni” (negli anni Novanta, la creazione diProgetto Arte” e a Biella di “Cittadellarte – Fondazione Pistoletto” e dell’“Università delle Idee” fino al più recente “Terzo Paradiso”) che lo porteranno nel 2003 al “Leone d’Oro alla Carriera” alla Biennale di Venezia e a Gerusalemme all’“Wolf Foundation Prize in Arts”. Era il 2007. E il cammino è proseguito e prosegue senza soste con mostre internazionali, iniziative varie e Premi; dal “Louvre” di Parigi, a Tokyo, a L’Avana, intensificando sempre più l’attività del “Terzo Paradiso” o terza fase dell’umanità “che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura”.

Gianni Milani

Michael Biberstein e Michelangelo Pistoletto

Galleria “Giorgio Persano”, via Stampatori 4, Torino; tel. 011/4378178 o www.giorgiopersano.org

Fino al 25 maggio

Orari: mart. – sab. 10/13 – 15,30/19

Nelle foto:

–         Allestimento “Galleria Persano”

–         Michael Biberstein: “RCC-Glider”, acrilico su lino, 2004

–         Michelangelo Pistoletto: “Superficie grigia”, materiale anonimo, 1985