CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 326

Le statue “volanti” di Palazzo Madama

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ARTE. VOLANO” NEL CIELO DI TORINO LE 4 STATUE MONUMENTALI DI PALAZZO MADAMA PER TORNARE ALL’ANTICO SPLENDORE

Rimosse dalla sommità con un innovativo intervento di sezionamento, ingabbiate e calate a terra con uno spettacolare sistema di gru dall’altezza di 27 metri: saranno restaurate “live” in un padiglione trasparente visitabile dal pubblico
Indagini specialistiche con magnetoscopi e georadar hanno permesso di scoprire il “cuore” di questi speciali “guardiani” della città
Fase decisiva del grande cantiere di restauro e consolidamento della facciata interamente finanziato da Fondazione CRT

Foto, rendering e video al link:https://vcloud.ilger.com/cloud14/index.php/s/BXxC5w5ZW8ePbSL

Torino, 11 luglio 2022 Giustizia, Liberalità, Magnanimità e Abbondanza spiccano il “volo” nel cielo di Torino per tornare all’antico splendore. Inizierà domani l’operazione dispostamento a terra delle quattro monumentali statue in marmo di Brossasco, alte più di 4 metri e pesanti oltre 3 tonnellate ciascuna, che coronano la balaustra del corpo centrale di Palazzo Madama e raffigurano ermetiche allegorie del “Buon Governo”. Dopo un innovativo intervento di sezionamento, le statue saranno ingabbiate e calate con un eccezionale sistema di gru dall’altezza di 27 metri in piazza Castello, dove verranno restaurate “live” in uno speciale padiglione trasparente visitabile dal pubblico.

Lo spettacolare intervento condotto dalla Cooperativa Archeologia di Firenze e da Arte Restauro Conservazione di Arlotto Cristina Maria, sotto la direzione dell’arch. Gianfranco Gritella rappresenta un momento decisivo del grande cantiere di restauro e consolidamento strutturale della facciata juvarrianadell’edificio, grazie alla sinergia tra Fondazione Torino Musei, da sempre impegnata nella tutela, conservazione e valorizzazione dei beni museali, e Fondazione CRT, storico e principale sostenitore privato di Palazzo Madama (17,5 milioni di euro stanziati complessivamente), che finanzia interamente quest’ultimo intervento con un impegno straordinario di 2,4 milioni.

“Quattro capolavori, testimoni della storia e del ruolo di Torino nel Settecento europeo, che per la prima volta, grazie all’illuminato mecenatismo della Fondazione CRT, potremo ammirare da vicino, in un cantiere di restauro offerto all’attenzione e riflessione dei cittadini sul piano di piazza Castello. Un’occasione unica di incontro non solo per comprendere l’arte di uno dei massimi protagonisti della scultura tardobarocca, e i meccanismi della creazione, ma anche per riacquisire coscienza dei valori per secoli propugnati dalla nostra città capitale”, afferma il Presidente della Fondazione Torino Musei Maurizio Cibrario.

È certamente un evento più unico che raro vedere le statue volare: non è il set di un film, ma un’avveniristica e spettacolare operazione di recupero storico-artistico, che abbina la tecnologia più innovativa e le migliori maestranze per salvare la grande bellezza della cultura. Un risultato reso possibile dalla sinergia pubblico-privato tra la Fondazione Torino Musei e la Fondazione CRT, da sempre impegnata per la rinascita e la valorizzazione di Palazzo Madama”, dichiara il Presidente della Fondazione CRT Giovanni Quaglia.

Le statue – formate ciascuna da quattro blocchi marmorei scolpiti e sovrapposti e del peso di circa 3.200 kg – sono opera dello scultore carrarese Giovanni Baratta (1670-1747), chiamato a Torino da Filippo Juvarra a più riprese tra il 1721 e il 1730 per portare a compimento queste sculture e altre opere a Superga, Venaria Reale e nella chiesa torinese di S. Filippo. Furono sbozzate nel laboratorio dello scultore a Carrara, poi trasportate in pezzi separati via nave fino a Savona e, infine, condotte su carri trainati da buoi e muli a Torino, dove furono montate in opera e portate a compimento.

LO STATO DI SALUTE DELLE STATUE. Lo stato conservativo delle statue è oggi assai compromesso e molto eterogeneo. Quella che evidenzia maggiore degrado, anche strutturale, è la statua della Giustizia (la prima verso nord). L’opera fu già smontata e calata a terra una prima volta tra il 1846 e il 1847, in occasione dei lavori di consolidamento delle fondamenta del palazzo, diretti dall’architetto Ernesto Melano e realizzati per l’insediamento nell’edifico del Senato Subalpino.

L’aggressione degli agenti atmosferici, i danni bellici, gli antichi restauri incongrui, l’ossidazione dei perni in metallo che trattengono i singoli blocchi lapidei e i rifacimenti ottocenteschi in marmi diversi hanno causato un degrado diffuso e problematiche di conservazione evidenti anche nella tecnica costruttiva utilizzata dallo scultore settecentesco. Baratta, infatti, adottando una tecnica di antica tradizione, per alleggerire il peso e facilitare il trasporto e il montaggio in opera delle sculture, fece svuotare gran parte del lato posteriore non visibile di ciascuna figura. Il profondo incavo che ne derivò fu poi colmato con una muratura di mattoni e calce, nella quale è infissa una barra in ferro che assicura la stabilità delle statue alla sottostante balaustra alta circa 2 metri. Un complesso sistema di perni e staffe in ferro e bronzo, alcune visibili, altre nascoste all’interno delle statue, ma individuate mediante indagini specialistiche con magnetoscopi e georadar, rivela la tecnica costruttiva impiegata per garantire stabilità alle opere trattenendo intere parti lapidee, scolpite separatamente e poi applicate al corpo principale della statua.

IL SEZIONAMENTO. Il distacco e il trasferimento delle quattro Allegorie dalla base su cui appoggiano sarannoresi possibili dall’allestimento in quota, a 27 metri dal suolo, di speciali macchine operatrici, che utilizzano la tecnica del taglio murario mediante lo scorrimento di un filo diamantato e lubrificato ad acqua, tecnologia tradizionalmente utilizzata nelle cave di estrazione del marmo. Il processo di taglio avviene mediante una macchina a motore elettrico dotata di pulegge su cui scorre ad alta velocità uno speciale cavo metallico ad anello, dotato di uncini costituiti da diamanti artificiali, che avanza su un carrello collocato su guide in acciaio: queste ultime sono posizionate su una piastra di base che garantisce un avanzamento guidato assolutamente lineare e continuo. L’operatore agisce tramite un’unità di comando elettronica a distanza.

L’INGABBIATURA, IL “VOLO” E IL RESTAURO “LIVE”.Contestualmente alla progressione del taglio, che avverrà secondo due direttrici contrapposte e in due fasi operative, nelle fessure così ricavate verranno inserite due piastre in acciaio debitamente sagomate e rinforzate. Su queste piastre verrà fissata una “gabbia”, anch’essa in acciaio, che conterrà a sua volta una cassa lignea in parte aperta, che ingloberà e rende stabili le statue precedentemente pre-consolidate e protette. Al fine di non compromettere l’equilibrio statico dell’architettura marmorea, al posto delle statue rimosse verranno collocate sulla balaustra delle zavorre in calcestruzzo armato di peso equivalente alle statue, zavorre a cui saranno vincolate le ultime strutture del ponteggio superiore e della soprastante copertura provvisoria.

Sollevate da una gru, le statue e le loro imbracature, del peso complessivo di 6.000 kg, verranno calate a terra e poste su basamenti provvisori, in attesa di essere collocate in un padiglione ad hoc che sarà allestito dinanzi a Palazzo Madama, dove avverrà l’intero processo di restauro, visibile direttamente dal pubblico in piazza Castello, anche tramite visite guidate.

Il mistero di Dracula tra storia e leggende

La notte del 31 ottobre tra le maschere più diffuse per festeggiare Halloween esorcizzando le paure, accanto a un infinità di streghe, zombi e mostriciattoli vari , ci sono certamente quelle dei vampiri. E tra queste spiccano quelle del Principe delle Tenebre, figura che ha le sue radici nella realtà storica e personaggio reso leggendario grazie a opere letterarie e cinematografiche dal Nosferatu di Murnau a Francis Ford Coppola.

Il famigerato e crudele conte vampiro della Transilvania  conobbe il primo, grande successo di pubblico nel maggio del 1897 quando, a Londra,  venne pubblicato il più famoso dei libri dell’irlandese Bram Stoker. Si trattava di “Dracula”, un romanzo dalle atmosfere gotiche. In verità l’idea venne concepita da Stoker qualche anno prima, esattamente 131 anni fa, tra il luglio e l’agosto del 1890. “La bocca, per quel che si scorgeva sotto i folti baffi, era rigida e con un profilo quasi crudele. I denti bianchi e stranamente aguzzi, sporgevano dalle labbra, il colore acceso rivelava una vitalità stupefacente per un uomo dei suoi anni. Le orecchie erano pallide, appuntite; il mento ampio e forte, le guance sode anche se scavate. Tutto il suo volto era soffuso d’un incredibile pallore”. Una descrizione che non lascia dubbi sull’identità del personaggio e sulla sua natura sinistra, offrendo l’occasione al tema del vampirismo di acquisire, forse per la prima volta, una certa dignità letteraria.

Alle credenze popolari e alle superstizioni diffuse soprattutto nei paesi dell’Est e nei Balcani, il letterato irlandese – che nella Londra vittoriana alternava all’attività di giornalista quella di scrittore – venne introdotto dal professore ungherese Arminius Vambéry. Fu quest’ultimo a parlargli della Transilvania, raccontando la storia del principe Vlad III di Valacchia, noto con l’appellativo di Draculea (che si può tradurre come “figlio del dragone”, riferito al padre Vlad II, membro dell’Ordine del Dragone). Il principe Vlad Tepes, passato alla storia come Vlad l’Impalatore per i violenti e sadici metodi di tortura che riservava non solo agli odiati turchi ma anche ai cristiani, nell’immaginario di Stoker si sovrappose al protagonista del suo romanzo. Tra l’altro, nella lingua rumena, le parole “dragone” e “diavolo” (“drac”) sono molto simili. Così, Vlad vide trasformare il suo soprannome Draculea in Dracul il cui significato equivale a “figlio del Diavolo”. Stoker trovò anche un’altra fonte d’ispirazione in diversi articoli comparsi sui giornali dell’epoca in relazione a un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1892, nella cittadina di Exter, nel New England.

La morte di una ragazza diciannovenne scatenò l’immaginazione dei suoi concittadini sia per gli strani sintomi, pallore e inappetenza, sia per il fatto che a poca distanza morirono nello stesso modo madre, sorella e fratello. Ciò che per la medicina non poteva che trattarsi di tubercolosi, per la gente era un chiaro caso di vampirismo. Sommando una suggestione dopo l’altra, mescolando abilmente storia e immaginazione, lo scrittore costruì il romanzo come una raccolta di pagine di diario scritte dai protagonisti della vicenda. Dal giovane avvocato inglese Jonathan Harker, che si reca in Transilvania per definire l’acquisto di una casa londinese da parte del Conte Dracula, alla sua fidanzata Mina Murray, oggetto del desiderio del vampiro che in lei rivede la moglie morta, fino al professore olandese Abraham Van Helsing, scienziato e filosofo che crede nell’esistenza del soprannaturale. Fatto circolare prima tra gli amici e successivamente modificato, il libro venne stampato e posto in vendita nella tarda primavera del 1897.

Da allora, il successo è stato talmente ampio da creare un vero e proprio genere, con adattamenti teatrali e cinematografici come il già citato Nosferatu il vampiro nel 1922, capolavoro del cinema muto  espressionista firmato dal tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, fino ai più recenti Dracula di Bram Stoker (tre premi Oscar nel 1993 per la pellicola di Coppola), Van Helsing (2004), i vari film d’animazione della serie Hotel Transylvania”, il Dracula 3D di Dario Argento e Dracula Untold  del 2014. Ovviamente un lungo discorso andrebbe dedicato anche a due degli interpreti storici del Conte assetato di sangue come i mitici Bela Lugosi e Christopher Lee ma c’è tutta un’altra storia che vale la pena raccontare. E qui dal racconto del libro si passa alla storia, o almeno a  qualcosa che gli assomiglia. Il voivoda Vlad III di Valacchia perse la vita in circostanze poco chiare. Si presume che Dracula morì com’era vissuto, cioè combattendo. Secondo alcuni la sua  testa, recisa dal corpo, venne portata a Costantinopoli come un trofeo e il suo corpo venne sepolto senza tante cerimonie dal suo rivale e vassallo dei Turchi, Basarab Laiota. Non si conosce l’esatta ubicazione della sua  tomba, anche se la tradizione popolare vuole che sia stato sepolto nella chiesa ortodossa dell’Assunzione, nel convento di Snagov, su un’isola nel bel mezzo di un lago situato a una quarantina di chilometri a nord di Bucarest. Alcune ricerche archeologiche risalenti agli anni ’30 del secolo scorso rinvennero in quel sepolcro solo ossa di cavallo.

Il priore di Snagov, ancora qualche tempo fa contestò questa versione, rivelando che la tomba posta di fronte alle porte dell’iconostasi è a tutti gli effetti la vera tomba di Vlad Tepes. Tuttavia, la maggior parte degli storici romeni pensa che il vero luogo di sepoltura sia invece il monastero-fortezza di Comana, fondato e costruito nel 1461 proprio da Vlad Tepes, in quello che oggi è il distretto di Giurgiu, nel sud della Romania, al confine con la Bulgaria. Durante alcuni scavi archeologici eseguiti nel 1970, si diffuse la notizia che il corpo senza testa di Vlad l’Impalatore fosse stato localizzato proprio nei sotterranei del monastero. Persino a Parigi vi è chi sostiene, ma qui siamo nel campo del puro gossip, che il Conte dimori in una cappella sconsacrata al Perè- Lachaise. Ma ecco che, al fine di rendere ancora più aggrovigliata la matassa, si è fatta strada una terza e clamorosa ipotesi: il conte Dracula non morì combattendo in Transilvania ma a Napoli, ed è stato sepolto nel cuore della città partenopea, nel chiostro di Santa Maria La Nova.

A sostenere quest’ardita tesi non sono dei fantasiosi “cacciatori di vampiri” ma alcuni studiosi dell’Università estone di Tallinn che, in collaborazione con studiosi italiani, hanno compiuto ricerche sulla principessa slava Maria Balsa, fuggita a Napoli nel 1479 a causa delle persecuzioni turche e accolta nella città all’ombra del Vesuvio da Ferdinando d’Aragona. La donna, che diventò in seguito moglie del  Conte Giacomo Alfonso Ferrillo, sarebbe la figlia del Conte Vlad III di Valacchia, meglio conosciuto ai più come il Conte Dracula. E parrebbe proprio che fosse stato il padre ad accompagnarla nella città sul Golfo, cercando e ottenendo l’anonimato. La prova fornita dagli studiosi a sostegno delle loro tesi è il fatto che il blasone formatosi in seguito alla fusione degli stemmi delle famiglie Balsa e Ferrillo presenta un drago, in tutto e per tutto simile a quello della casata dei principi di Valacchia. Sarà davvero così? Il conte Dracula riposa (?!) a Napoli? La storia è affascinante, ricca di sfumature e di colpi di scena, anche se sembra più la trama di un romanzo d’avventure che una realtà storica. Infatti, almeno per il momento, manca il particolare che la renderebbe clamorosa, il colpo di scena finale: il corpo di Vlad Tepes. Ed è ciò che gli studiosi scesi in campo sperano di ottenere. Nel dubbio, come il professor Van Helsing, attendiamo notizie tenendo ben stretto in una mano un appuntito paletto di frassino e nell’altra una boccetta di acqua benedetta.

Marco Travaglini

 

L’esperienza del grande cinema a “Estate in Circolo”

ESTATE in CIRCOLO 24 giugno – 18 settembre

Cortile dell’Anagrafe Centrale

Via Carlo Ignazio Giulio 14a – Torino

 

Torna per il terzo anno ESTATE IN CIRCOLO, la rassegna voluta e organizzata dal Centro Culturale L’ARTeficIO con la preziosa collaborazione di associazioni e organizzazioni del territorio interne al network ARCI Torino.

Dal 24 giugno al 18 settembre, in uno spazio nuovo e storico allo stesso tempo, sarà possibile l’esperienza del grande cinema con un programma che conta 12 film della rassegna l’Italia che non si vede, assistere a concerti di musica rock, pop, blues, jazz e a pièce teatrali e tanta social dance: dall’Hip Hop al Forrò Brasiliano, dal Lindy Hop al liscio per ritrovare il piacere di stare insieme, ballare e rilassarsi in totale sicurezza.

Estate in Circolo è un’idea nata tra le mura de L’ARTeficIO con la volontà di restituire al pubblico cittadino un luogo nel centro storico di Torino e resa possibile grazie al supporto della Fondazione per la Cultura che ha deciso di premiare per il terzo anno la progettualità culturale con il contributo del bando sostenuto dalla Città di Torino e Fondazione per la Cultura Torino, con i patrocini della Circoscrizione 1, Città Metropolitana, Camera di Commercio e Regione Piemonte.
Il giardino dell’Anagrafe Centrale in via Carlo Ignazio Giulio 14a si animerà 7 giorni su 7 con un cartellone volutamente multidisciplinare e destinato ai differenti appassionati che vorranno approfittare di un giardino aperto nel centro città.
Tanta attenzione ai più giovani: a Estate in Circolo tutti i giorni dalle 16 alle 19 sarà aperta un’area bimbi attrezzata. Un vero momento di relax e di ristoro per tutta la famiglia che potrà godere di un sano intrattenimento all’ombra dei grandi alberi praticando lo YOGA. Anche i più grandi potranno vivere lo spazio con il progetto di Campus Diffuso: grazie alla buona collocazione ed alle strutture messe a disposizione degli studenti questo angolo di città potrà essere una valida alternativa per studiare all’aria aperta con wifi gratuito e i servizi necessari.

Ma è durante la sera che nel cortile prenderà vita un vero e proprio festival di musica, teatro, cinema e social dance con i molti concerti che si avvicenderanno sul palco coperto per permettere le esibizioni anche in caso di maltempo e che ospiterà anche un grande schermo mq per le proiezioni curate dal Circolo Arci Sud, il Cadrega Fest e molti dj set. Una programmazione articolata che non è stato semplice definire in questo periodo post pandemico ma fortemente voluta dal capofila e da tutte le Associazioni coinvolte.

Estate in Circolo inaugura ufficialmente il venerdì 24 giugno alle 21.30 con il concerto dei Lovesick Duo, i polistrumentisti bolognesi Paolo Roberto Pianezza – chitarra elettrica, acustica e semiacustica, lap steel a manico singolo e doppio, chitarra resofonica e dobro – e Francesca Alinovi, che suona il contrabbasso con l’aggiunta del brush pad, una percussione incorporata nello strumento che le permette di segnare il tempo con una spazzola per batteria. Un loro concerto porta ad una totale immersione nelle atmosfere dell’America degli anni ’40 e ’50.
Sabato 25 giugno la grande musica dal vivo prosegue con GALAPAGHOST del progetto del songwriter statunitense Casey Chandler.
Domenica 26 il ballo liscio animato da Stefano CAPANO inaugura dalle 15 il fitto programma di social dance, mentre BELLA CIAO – PER LA LIBERTÀ per la regia di Giulia Giapponesi avvia alle 21:30 la stagione del cinema all’aperto.

Oltre all’intrattenimento L’ARTeficIO non poteva trascurare una delle sue anime, la creatività legata alla materia: per otto fine settimana sarà possibile curiosare e imparare i segreti degli artigiani legati al progetto HandMad: 20 Operatori del Proprio Ingegno trasformeranno il cortile di via Giulio in una maker fair grazie alla collaborazione con l’Associazione ARCI Creatori d’Ingegno APS.
Non è facile raccontare in poche parole il mondo di Estate in Circolo un progetto che vuole raccogliere le diverse anime del mondo delle Associazioni e dei Circoli ARCI e che ha nella sua filosofia progettuale l’apertura e il coinvolgimento del territorio e dei cittadini per una restituzione doverosa di spazio, arte, intrattenimento e aria aperta…

“L’edizione 2022 di Estate In Circolo costituisce una straordinaria occasione per ricominciare a stare insieme e a fare cultura in totale sicurezza. Abbiamo disegnato un intenso programma che punta a coinvolgere persone di ogni età e gusti artistici, comprese le famiglie e i bambini.
Per il terzo anno offriamo a tutta la cittadinanza la possibilità di riscoprire un luogo inedito e semi sconosciuto del centro cittadino: il giardino dell’

Volano le statue di Palazzo Madama

Torino, 11 luglio 2022 – Giustizia, Liberalità, Magnanimità e Abbondanza spiccano il “volo” nel cielo di Torino per tornare all’antico splendore. Inizierà domani l’operazione di spostamento a terra delle quattro monumentali statue in marmo di Brossasco, alte più di 4 metri e pesanti oltre 3 tonnellate ciascuna, che coronano la balaustra del corpo centrale di Palazzo Madama e raffigurano ermetiche allegorie del “Buon Governo”. Dopo un innovativo intervento di sezionamento, le statue saranno ingabbiate e calate con un eccezionale sistema di gru dall’altezza di 27 metri in piazza Castello, dove verranno restaurate “live” in uno speciale padiglione trasparente visitabile dal pubblico.

 

Lo spettacolare intervento – condotto dalla Cooperativa Archeologia di Firenze e da Arte Restauro Conservazione di Arlotto Cristina Maria, sotto la direzione dell’arch. Gianfranco Gritella – rappresenta un momento decisivo del grande cantiere di restauro e consolidamento strutturale della facciata juvarriana dell’edificio, grazie alla sinergia tra Fondazione Torino Musei, da sempre impegnata nella tutela, conservazione e valorizzazione dei beni museali, e Fondazione CRT, storico e principale sostenitore privato di Palazzo Madama (17,5 milioni di euro stanziati complessivamente), che finanzia interamente quest’ultimo intervento con un impegno straordinario di 2,4 milioni.

 

Quattro capolavori, testimoni della storia e del ruolo di Torino nel Settecento europeo, che per la prima volta, grazie all’illuminato mecenatismo della Fondazione CRT, potremo ammirare da vicino, in un cantiere di restauro offerto all’attenzione e riflessione dei cittadini sul piano di piazza Castello. Un’occasione unica di incontro non solo per comprendere l’arte di uno dei massimi protagonisti della scultura tardobarocca, e i meccanismi della creazione, ma anche per riacquisire coscienza dei valori per secoli propugnati dalla nostra città capitale“, afferma il Presidente della Fondazione Torino Musei Maurizio Cibrario.

 

È certamente un evento più unico che raro vedere le statue volare: non è il set di un film, ma un’avveniristica e spettacolare operazione di recupero storico-artistico, che abbina la tecnologia più innovativa e le migliori maestranze per salvare la grande bellezza della cultura. Un risultato reso possibile dalla sinergia pubblico-privato tra la Fondazione Torino Musei e la Fondazione CRT, da sempre impegnata per la rinascita e la valorizzazione di Palazzo Madama”, dichiara il Presidente della Fondazione CRT Giovanni Quaglia.

 

Le statue – formate ciascuna da quattro blocchi marmorei scolpiti e sovrapposti e del peso di circa 3.200 kg – sono opera dello scultore carrarese Giovanni Baratta (1670-1747), chiamato a Torino da Filippo Juvarra a più riprese tra il 1721 e il 1730 per portare a compimento queste sculture e altre opere a Superga, Venaria Reale e nella chiesa torinese di S. Filippo. Furono sbozzate nel laboratorio dello scultore a Carrara, poi trasportate in pezzi separati via nave fino a Savona e, infine, condotte su carri trainati da buoi e muli a Torino, dove furono montate in opera e portate a compimento.

 

LO STATO DI SALUTE DELLE STATUE. Lo stato conservativo delle statue è oggi assai compromesso e molto eterogeneo. Quella che evidenzia maggiore degrado, anche strutturale, è la statua della Giustizia (la prima verso nord). L’opera fu già smontata e calata a terra una prima volta tra il 1846 e il 1847, in occasione dei lavori di consolidamento delle fondamenta del palazzo, diretti dall’architetto Ernesto Melano e realizzati per l’insediamento nell’edifico del Senato Subalpino.

 

L’aggressione degli agenti atmosferici, i danni bellici, gli antichi restauri incongrui, l’ossidazione dei perni in metallo che trattengono i singoli blocchi lapidei e i rifacimenti ottocenteschi in marmi diversi hanno causato un degrado diffuso e problematiche di conservazione evidenti anche nella tecnica costruttiva utilizzata dallo scultore settecentesco. Baratta, infatti, adottando una tecnica di antica tradizione, per alleggerire il peso e facilitare il trasporto e il montaggio in opera delle sculture, fece svuotare gran parte del lato posteriore non visibile di ciascuna figura. Il profondo incavo che ne derivò fu poi colmato con una muratura di mattoni e calce, nella quale è infissa una barra in ferro che assicura la stabilità delle statue alla sottostante balaustra alta circa 2 metri. Un complesso sistema di perni e staffe in ferro e bronzo, alcune visibili, altre nascoste all’interno delle statue, ma individuate mediante indagini specialistiche con magnetoscopi e georadar, rivela la tecnica costruttiva impiegata per garantire stabilità alle opere trattenendo intere parti lapidee, scolpite separatamente e poi applicate al corpo principale della statua.

 

IL SEZIONAMENTO. Il distacco e il trasferimento delle quattro Allegorie dalla base su cui appoggiano saranno resi possibili dall’allestimento in quota, a 27 metri dal suolo, di speciali macchine operatrici, che utilizzano la tecnica del taglio murario mediante lo scorrimento di un filo diamantato e lubrificato ad acqua, tecnologia tradizionalmente utilizzata nelle cave di estrazione del marmo. Il processo di taglio avviene mediante una macchina a motore elettrico dotata di pulegge su cui scorre ad alta velocità uno speciale cavo metallico ad anello, dotato di uncini costituiti da diamanti artificiali, che avanza su un carrello collocato su guide in acciaio: queste ultime sono posizionate su una piastra di base che garantisce un avanzamento guidato assolutamente lineare e continuo. L’operatore agisce tramite un’unità di comando elettronica a distanza.

 

L’INGABBIATURA, IL “VOLO” E IL RESTAURO “LIVE”. Contestualmente alla progressione del taglio, che avverrà secondo due direttrici contrapposte e in due fasi operative, nelle fessure così ricavate verranno inserite due piastre in acciaio debitamente sagomate e rinforzate. Su queste piastre verrà fissata una “gabbia”, anch’essa in acciaio, che conterrà a sua volta una cassa lignea in parte aperta, che ingloberà e renderà stabili le statue precedentemente pre-consolidate e protette. Al fine di non compromettere l’equilibrio statico dell’architettura marmorea, al posto delle statue rimosse verranno collocate sulla balaustra delle zavorre in calcestruzzo armato di peso equivalente alle statue, zavorre a cui saranno vincolate le ultime strutture del ponteggio superiore e della soprastante copertura provvisoria.
Sollevate da una gru, le statue e le loro imbracature, del peso complessivo di 6.000 kg, verranno calate a terra e poste su basamenti provvisori, in attesa di essere collocate in un padiglione ad hoc che sarà allestito dinanzi a Palazzo Madama, dove avverrà l’intero processo di restauro, visibile direttamente dal pubblico in piazza Castello, anche tramite visite guidate.

Srebrenica, 11 luglio 1995. Il genocidio di fine secolo

di Marco Travaglini* 

Srebrenica, dall’antico nome latino Argentaria si può tradurre in “città dell’argento”. Prima del 1992 era conosciuta per le terme, l’estrazione di salgemma e le miniere. Poi, dissoltasi la Jugoslavia, la storia si è incaricata di consumare tra quelle montagne l’ultimo genocidio in terra europea dalla fine della seconda guerra mondiale. In quella località tra le terre alte della Bosnia nord-orientale circa diecimila musulmani bosgnacchi vennero trucidati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. L’atroce crimine di massa venne consumato tra l’11 e il 21 luglio 1995, dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, il 10 luglio era caduta nelle mani del generale Ratko Mladić. Nel marzo del 1993 Srebrenica era stata proclamata enclave dell’Onu, in virtù della risoluzione 819. In pratica l’intera area doveva essere protetta, difesa. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, inviò un piccolo contingente di qualche centinaio caschi blu.

Dietro l’orrore, anche viltà e vigliaccheria dei caschi blu dell’OnuIn un primo momento erano canadesi, sostituiti poi dagli olandesi del terzo battaglione aeromobile. I soldati del “Dutchbat” si segnalarono soprattutto per il disprezzo verso la popolazione civile e per il mercato nero con gli assedianti. Una vergogna per la comunità internazionale tant’è vero che, quando i serbo-bosniaci misero in atto l’attacco finale, i soldati dell’Onu abbandonarono le loro posizioni, consegnarono le armi senza sparare un colpo e si acquartierarono nella loro base nel sobborgo di Potočari. Così, senza muovere un dito, affogando in un mare d’ignavia e disprezzo, la comunità internazionale volse lo sguardo altrove e quarantamila persone furono lasciate nelle mani delle forze serbo-bosniache e dei paramilitari che tra l’11 e il 13 luglio separarono le donne e i bambini dagli uomini considerati in età militare (dai dodici ai settant’anni), deportando le prime e massacrando in una decina di giorni di sangue e violenza tutti i maschi. Non risparmiarono nemmeno molte donne, soprattutto le più giovani, che vennero prima stuprate e in diversi casi uccise sotto gli sguardi spenti e vuoti dei caschi blu.

L’orrore di fine secolo
Seguendo la logica della cancellazione della memoria e delle identità, gli esecutori dell’eccidio privarono le vittime dei documenti, bruciandoli. Poi gettarono gli uomini, compresi quelli feriti ma ancora vivi, nelle fosse comuni. Alla fine del conflitto, per nascondere le prove del genocidio, queste fosse vennero riaperte con le ruspe dagli stessi carnefici e i resti delle vittime trasportati, orribilmente mutilati, in fosse comuni “secondarie”, più piccole, o addirittura “terziarie”. Ci sono casi documentati in cui i resti di una stessa persona sono stati ritrovati in tre o più fosse comuni, anche a più di trenta chilometri di distanza. È una storia che sembra non aver mai fine se consideriamo che ancora oggi ci sono fosse comuni che continuano a essere rinvenute. Nel 2003, ottavo anniversario del massacro, l’ex Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton inaugurò il Memoriale di Potočari. L’anno dopo, il 19 aprile 2004, il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica un “genocidio”. Quasi tre anni dopo, il 26 febbraio 2007, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja negò le responsabilità dirette della Serbia, asserendo che l’unica colpa di Belgrado fu non aver fatto tutto il necessario per prevenirlo. La Corte, con la medesima sentenza negò i diritti al risarcimento per i famigliari delle vittime.

Una tragedia che pesa sulla storia delle Nazioni UniteRestarono le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio. Impossibile sciogliere quel grumo di indicibile dolore. Era evidente che l’Unione europea desiderasse assicurare alla decisione dell’Aja lo status di “chiusura della pagina bellica sui Balcani”. La prima reazione di Javier Solana (all’epoca Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea) fu più che chiara: “la sentenza contribuirà alla chiusura del dibattito sulla drammatica storia che è stata dolorosa e dannosa per molti…” E aggiunse, quasi avesse posato una lapide, che “la più alta corte al mondo, alla fine, ha chiuso questa pagina”. Non era però la verità. “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”: così scrisse con amara saggezza, nella prefazione al libro “Al di là del caos”, Predrag Matvejevic. Eppure, finita la guerra, la comunità internazionale sembrava aver almeno intuito la gravità dei fatti e delle proprie responsabilità. Secondo Richard Holbrooke, artefice degli accordi di Dayton, Srebrenica fu la prova “dell’insuccesso della Nato, dell’Occidente e delle forze di pace dell’Onu”. “La tragedia di Srebrenica peserà sempre sulla storia delle Nazioni Unite”, chiosava Mark Brown, in rappresentanza del segretario generale Kofi Annan, che aveva pronunciato la stessa frase a Sarajevo nel 1999.

Ergastolo per i boia Radovan Karadžić e Ratko MladićParlando di “una delle pagine più oscure della storia europea”, l’allora ministro degli esteri britannico Jack Straw esprimeva la propria amarezza per quella che era stata “una vera vergogna per la comunità internazionale: l’aver permesso che questo male accadesse davanti ai nostri occhi”. Persino l’ambasciatore degli Stati Uniti a Sarajevo, Richard Prosper, nell’intento di quadrare il cerchio, dichiarò, nel corso di una conferenza stampa tenutasi nel 2005 che “la responsabilità per i fatti di dieci anni fa a Srebrenica è anche della comunità internazionale, e che l’attuale amministrazione americana è risoluta ad agire ogni qualvolta eventi di questo tipo possano accadere”. Commenti a parte restano alcuni fatti. Radovan Karadžić e Ratko Mladić, i due principali boia, sono stati condannati all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Altri non hanno pagato per i loro crimini e, con il tempo, si tende a rimuovere, dimenticare. Ci sarà mai una giustizia piena? Ventisette anni dopo rimane l’amara sensazione di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per parecchi dei carnefici di allora, in molti casi ancora a piede libero e considerati dagli ultranazionalisti alla stregua degli “eroi”.

Il grido delle madri: “Odgovornost”, responsabilitàÈ sufficiente un rapido sguardo a cosa accade attorno a noi per comprendere che da quel dramma non è stato tratto granché d’insegnamento. Dall’Ucraina ai tanti conflitti ai quattro angoli del mondo, spesso dimenticati. In tutti questi anni in molti ci siamo impegnati a raccontare ciò che accadde a Srebrenica affinché il grido di madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “dell’argento e del sangue” non resti inascoltato. Da anni queste donne coraggiose, durante le loro proteste non violente che si svolgono l’undici di ogni mese a Tuzla srotolando gli striscioni composti di federe ricamate con i nomi dei loro cari scomparsi, pronunciano una parola: “Odgovornost”, responsabilità. Chiedono verità e giustizia, accertamento delle responsabilità, condanne per tutti i criminali. È un modo per offrire voce e forza a queste donne. Questi ventisette anni post bellici in Bosnia, in quello che era il cuore più jugoslavo della Jugoslavia, è capitato di tutto dopo la “pace fredda”: crisi economica, speculazione, aumento delle disuguaglianze, criminalità e corruzione. Accompagnate dalla mancata o ritardata e parziale giustizia, dall’impunità dei colpevoli alla frustrazione delle vittime, spesso obbligati – gli uni e le altre – a vivere fianco a fianco.

Negazionismo come strategia di StatoIl potere costituito vorrebbe dimenticare e far dimenticare cosa accadde. Cosa c’è di più catartico che omettere, nascondere responsabilità su crimini e aberrazioni? Un genocidio non avviene a caso, non è il frutto di un incidente, di un raptus dentro una logica violenta. Da più di cinque lustri, i serbi bosniaci e la Serbia si sono impegnati a negarlo, classificando ciò che accadde come uno dei tanti crimini che vengono commessi durante un conflitto. Il negazionismo è diventato una sorta di strategia di Stato. Qualcosa di simile ad una auto-assoluzione considerato il fatto che molti degli attuali politici sono le stesse persone che avevano qualche responsabilità o ruolo pubblico all’epoca del genocidio. E la loro ideologia è ancora la stessa: un marcato nazionalismo che, negando i fatti, nega le proprie colpe e continua a provocare dolore e sconcerto alle vittime di tanta violenza. Sono queste le ragioni che obbligano a ricordare, con maggior tenacia di prima, la tragedia balcanica di Srebrenica e di tutte le altre realtà dove si consumarono delitti, pulizia etnica, stupri di massa.

 * Marco Travaglini è autore del libro “Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente”, edito dalla casa editrice Infinito, con la prefazione degli storici Gianni Oliva e Donatella Sasso. La foto è di Paolo Siccardi 

L’isola del libro / Speciale Joyce Maynard

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Credo valga la pena approfondire la vita e le opere di questa scrittrice e giornalista americana 68enne.

E’ nata il 5 novembre 1953 a Durham, nel New Hampshire, da Fredelle Bruser – giornalista, scrittrice ed insegnante- e Max Maynard –pittore e professore di inglese all’Università del New Hampshire- fratello del più famoso teologo Theodore Maynard.

Joyce rivela molto presto il talento nella scrittura, vincendo premi scolastici; ma la sua carriera giornalistica vera e propria inizia negli anni 70 quando collabora, tra le varie testate, anche con “The New York Times” e “Mademoiselle”.

Negli anni 80 amplia il suo orizzonte e decolla con successo sulle ali della narrativa con il libro di esordio “Baby love” (1981).

Ottiene una forte eco mediatica ed attira un’attenzione particolare nel 1998 con la pubblicazione del memoir “At home in the world”, in cui mette nero su bianco la sua relazione con il mitico e misterioso J.D. Salinger, l’autore de “Il giovane Holden” letto e amato da intere generazioni.

I fatti di cui racconta la Maynard risalgono a molti anni prima; al 1972 quando lei aveva 18 anni e studiava a Yale.

Il 23 aprile di quell’anno il “New York Magazine” aveva pubblicato un suo lungo articolo “An 18-year-old looks back on life”, scatenando orde di ammiratori, genitori infuriati, ma anche editori e fotografi che volevano conoscerla meglio.

All’epoca Salinger aveva 53 anni e le scrisse una lettera in cui, oltre a complimentarsi per la scrittura, l’avvertiva anche dei rischi e pericoli derivanti dalla celebrità; seguirà poi una serrata e fitta corrispondenza tra i due.

Le cose prendono una piega più decisa quando lei si trasferisce a casa di lui nel fortino di Cornish, nel New Hampshire, dove Salinger –divorziato dalla moglie dal 1967- si è ritirato dal mondo e trascorre le giornate tra yoga, precetti Zen ed alimentazione super controllata.

Joyce vivrà con lui per 8 mesi –da metà 1972 al marzo dell’anno seguente- poi la storia d’amore viene troncata in modo repentino, brusco e con strascichi che opprimeranno la ragazza. Si terrà tutto dentro fino al 1998 quando decide di raccontare anche le pieghe più nascoste dello scrittore, delineando un quadro poco lusinghiero.

Ad aggiungere carne sul fuoco c’è anche la voce dei detrattori della Maynard che l’additano per aver messo all’asta e venduto a caro prezzo le lettere che Salinger le aveva inviato; acquistate per più di 150.000 dollari dall’informatico Peter Norton che le restituisce allo scrittore.

L’uscita di questo libro scatena polemiche anche durissime, la Maynard è accusata di aver sfruttato l’occasione; la sua carriera è vittima degli anatemi di parte del mondo culturale americano. Una specie di peccato originale che la scrittrice si porterà addosso, rea di avere intaccato il mito di J.D. Salinger.

In successive interviste la Maynard chiarisce di essersi tenuta tutto dentro ed aver protetto la storia per troppo tempo; quando sua figlia ha compiuto 18 anni, ha capito che il momento di scriverne era arrivato.

Chiarisce anche che ha raccontato la liaison con il mito Salinger in modo scrupoloso, senza dare giudizi o interpretazioni, lasciando che fossero i lettori a concludere che lo scrittore aveva avuto un atteggiamento predatorio. E supporta la sua esperienza citando altre giovani donne che avevano intrattenuto una corrispondenza con lui; tutte fragili e accomunate dall’assenza dei padri, coni d’ombra che lo scrittore individuava subito e in quegli spazi vuoti riusciva ad infilarsi e manovrare.

Nel corso della sua carriera la Maynard ha pubblicato 17 libri e da due sono stati tratti dei film; l’ultimo nel 2013 ispirato a “Un giorno come tanti” (pubblicato nel 2009) diretto da Jason Reitman e interpretato da Kate Winslet e Josh Brolin.

 

L’albero della nostra vita” -NNEditore- euro 20,00

Il romanzo da poco pubblicato in Italia è uno dei più ambiziosi della Maynard, ed anche parecchio autobiografico.

Sono molte le analogie con la sua vita: anche lei, poco più che 20enne, con i proventi dei suoi libri si era comprata una casa a Hillsborough nel New Hampshire. Ha sposato un artista ed avuto tre figli; quando poi si è separata la sua fattoria è rimasta all’ex marito e lei si è trasferita altrove con la prole.

Però nessuno dei suoi figli è stato vittima di un incidente come quello narrato nel libro, né ha cambiato sesso.

Detto questo…il romanzo è bellissimo, profondo, a tratti struggente.

E’ la storia di una donna, Eleanor, dei suoi desideri realizzati nella famiglia che tanto voleva costruire; poi ci sono i ripetuti colpi bassi che la vita le ha inferto.

A inizio romanzo la incontriamo negli anni 70, giovane illustratrice di libri per bambini di un certo successo che le consente libertà e indipendenza. E’ abituata a cavarsela da sola, anche perché è figlia unica di due genitori che si adorano e vivono l’uno per l’altro, mentre lei si è sempre sentita un’intrusa nel loro menage.

Forse è anche per questo senso di esclusione impresso nell’ anima che Eleanor, nella sua fattoria del New Hampshire, sogna una famiglia tutta sua e su basi totalmente diverse. Quando si innamora del giovane Cam il gioco è fatto: tra i due l’intesa è perfetta, si sposano e nell’arco di poco tempo nascono tre figli.

Sono Allison, Ursula e Toby, ai quali i genitori regalano un’infanzia spensierata, piena di amore, scoperte ed avventure nella natura che circonda la casa di campagna. A tirare avanti la baracca è soprattutto Eleanor con il suo lavoro, mentre Cam fatica a trovare un’occupazione stabile e si arrabatta come può.

Poi irrompe la tragedia; un giorno Cam perde di vista Toby che viene trovato svenuto a testa in giù nel laghetto vicino casa, con le tasche appesantite dalle pietre che tanto amava raccogliere. Salvato per miracolo non sarà mai più lo stesso a causa del danno cerebrale provocato dalla carenza di ossigeno patita.

Eleanor ritiene Cam responsabile e non riesce proprio a perdonarlo. Il resto è sfacelo completo e sfilacciarsi di rapporti.

Cam si scopre innamorato dell’appena maggiorenne Coco, la babysitter dei suoi figli e la sposa. Eleanor se ne va e dapprima ottiene l’affidamento condiviso dei figli.

E le cose andranno sempre più in pezzi.

Cam sembra aver cancellato il loro passato insieme, neanche più le rivolge la parola e le crepe si apriranno anche nei rapporti con Allison, Ursula e Toby che, crescendo divisi tra due fuochi, propenderanno sempre più per il padre e la nuova moglie. La nascita di un fratellino (che non chiameranno mai fratellastro) spinge ulteriormente al distacco, con la scusa che Toby è felice di avere un bimbo con cui giocare.

Il resto è un susseguirsi di malintesi, (i figli pensano che sia stata Eleanor ad essersene andata spezzando la famiglia), rancori, incomprensioni, adolescenze complicate, rapporti umani sempre più difficili tra madre e figlie adolescenti e ……molte cose ancora cambieranno nella vita di questi personaggi. Un romanzo magnifico che racconta la vita e la complessità dei rapporti affettivi.

 

Il meglio di noi” -Nutrimenti- euro 18,00

Poco più di 400 pagine che vi afferrano per non mollarvi più, con il racconto di una fase della vita della Maynard doloroso ma anche intensissimo, che sciorina temi portanti quali l’amore, la morte, il caso e il disperato tentativo di contrastarlo.

Un memoir ad alto impatto emotivo in cui racconta come nel 2011, quando aveva 58 anni, attraverso un sito d’incontri conosce l’avvocato 59enne Jim Barringer. Dalla loro prima telefonata scatta subito un feeling raro e prezioso, che apre l’orizzonte a due persone che si intendono a meraviglia, si piacciono da tutti i punti di vista, a partire da quello fisico. L’anno dopo sono marito e moglie e lei sente di aver sposato «…il primo vero compagno che ho mai avuto». Madre di tre figli, separata e single dall’età di 36 anni, dopo una lunga serie di incontri deludenti, non aveva certo previsto una simile svolta.

Lei e Jim, sebbene diversi in molteplici cose, condividono quella rara magica alchimia in cui sono miscelati: rispetto dei reciproci spazi, profonda comprensione, amore per le semplici gioie della vita, come i viaggi, le escursioni o intime cenette. Soprattutto, Jim la fa sentire amata, capita e incoraggiata nella propria ricerca di indipendenza, gratificata per i suoi successi. Insomma l’amore e il rapporto che tutti vorrebbero avere, ma piuttosto raro.

Una gioia di vivere a due che inciampa in un destino bastardo, perché dopo 4 anni e mezzo, un calvario fatto di alti e bassi, di speranze e rese, Jim le viene portato via da un tumore al pancreas che non perdona.

La Maynard rivela la sua grandezza nel ripercorrere -senza retorica, piagnistei o cadute di stile- un sentimento che travalica anche la morte. Quello di due anime gemelle che si riconoscono e alle quali è concesso un breve tratto di strada insieme, in cui sono un tutt’uno che vale più di mille lunghissime vite.

 

L’ombra degli Havilland” -HarperCollins- euro 9,90

E’ un’altra storia coinvolgente, di quelle che ci incollano alle pagine con la suspense continua e l’attesa di vedere svelata una verità sottesa, ma che aleggia nell’aria fin quasi da subito. Potremmo definirlo il magistrale racconto di un sottile plagio, di una dipendenza emotiva ed affettiva che finisce per condizionare tutta la vicenda e relega in un angolino la capacità di giudizio della protagonista.

Helen è una giovane donna, separata e madre di un figlio piccolo che le viene portato via dalla legge, dopo che era stata fermata alla guida dell’auto con un tasso alcolico superiore a quello consentito. Dichiarata inidonea ad esercitare il ruolo genitoriale, il tribunale le toglie la custodia del piccolo Ollie e lo affida al padre, a sua volta risposato e in attesa di un figlio dalla nuova compagna.

Helen precipita in un periodo difficile e non le resta che rigare dritto, partecipare a gruppi di sostegno degli alcolisti anonimi, lottare per riavere quel figlio che tanto ama ed è il centro della sua vita. E’ in questa condizione di profonda fragilità che viene risucchiata nella tela degli Havilland, fagocitata come un insetto da un ragno micidiale.

Swift e Olivia Havilland sono una brillante coppia di ricchissimi filantropi; lei bellissima e affascinante è relegata su una carrozzina, lui è un narcisista mascherato di bontà. Insieme sono una forza della natura: dinamici, intraprendenti, protagonisti di un’ intensa vita sociale, stanno raccogliendo soldi a palate per la loro Onlus che tutela gli animali.

E’ soprattutto Ava ad insinuarsi nell’anima e nel quotidiano di Helen: la coinvolge in mille iniziative, pretende di sapere tutto della sua vita e lancia sottesi giudizi un po’ su tutto. La solitudine che prima attanagliava la giovane, viene come dissolta dall’amicizia con quella coppia che sembra perfetta e in piena sintonia.

L’idillio inizia a scricchiolare quando Helen incontra un uomo che la sommerge di attenzioni ed amore. E’ Elliot, solido e affidabile commercialista che le fa una corte serrata; ma la cosa disturba parecchio gli Havilland.

Le cose si complicano ulteriormente quando Elliot, protettivo e perspicace, fiuta qualcosa di poco chiaro negli affari della coppia. Ed è un’esplosione di screzi, incomprensioni, dubbi, e una sleale competizione degli Havilland nell’accaparrarsi l’affetto di Helen.

 

Dopo di lei” -Harlequin Mondadori- euro 16,00

Non è un vero e proprio thriller anche se le vittime ci sono; giovani donne che perdono la vita in modo sospetto.

Piuttosto è centrale la storia di due sorelle che vivono poco a nord di San Francisco, nella Contea di Marin, il loro rapporto e quello con il padre poliziotto.

Rachel non è più una bambina ma neanche ha ancora raggiunto lo status di ragazza, comunque è in quella fase da 13enne in cui si sogna ad occhi aperti e immagina una realtà virtuale in cui tutto appare possibile.

Adora la sorellina più piccola, Patty, compagna di vita ed avventure, migliore amica e complice di giochi e scorribande.

Entrambe stravedono per il padre che ammirano, anche perché fascinoso e bello come un attore hollywoodiano. Più spigoloso è invece il rapporto con la madre: depressa cronica, che si arrabatta come può e non è capace di tenersi il marito.

Rachel e Patty sono abituate a scorrazzare tra le montagne, teatro di scarpinate e scoperte continue. Poi proprio in quell’oasi della natura vengono assassinate giovani donne.

Siamo nell’estate del 1979, le indagini sono difficili, affidate al padre detective che diventa il centro dell’attenzione mediatica; cronisti e fotografi lo assediano, e nel vortice vengono risucchiate di riflesso anche le sue figlie.

Improvvisamente balzano al vertice della top ten delle ragazze più popolari, ambite come amiche e magari anche qualcosina di più.

E quando il padre sembra arenarsi in una serie di vicoli ciechi e fallimenti, ecco che Rachel decide di scendere in campo e indagare a sua volta.

Lei e Patty sguinzagliano ingegno, perspicacia e fantasia e, a modo loro, si mettono sulle tracce del “Killer del tramonto”. Un romanzo che scorre veloce, nell’alternarsi tra crime e storia familiare, fino a un epilogo inaspettato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rock Jazz e dintorni: Madame e Yann Tiersen

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

 

Lunedì. Al Teatro Concordia di Venaria, si esibisce Il Solito Dandy. A Collegno per “Flowers” sono di scena Rico Mendossa, Noyz Narcos.

Martedì. Al Sonic Park di Stupinigi si esibisce Marracash. Unica data italiana allo Stadio Olimpico per i metallari Rammstein.

Mercoledì. Al MAO è di scena l’artista cinese Li Yilei. A Gressan in Val d’ Aosta arriva Jovanotti. Per Flowers sono di scena Ditonellapiaga e Margherita Vicario.

Giovedì.Alla Tesoriera per l’” Evergreen Fest” si esibisce Federico Sirianni. Per Flowers e di scena Yann Tiersen. Al Concordia di Venaria si esibiscono Luca Carocci, Pier Cortese e Roberto Angelini.

Venerdì. A Chivasso suona il quartetto del chitarrista Adrien Marco. Per Flowers sono di scena Eugenio in Via di Gioia e Rovere. “Estate in Circolo” nel cortile dell’Anagrafe è di scena Daniele Ronda.

Sabato. A Canelli il pianista cubano Omar Sosa si esibisce con Ernesttico alle percussioni. A Stupinigi e di scena Irama. Per Flowers si esibisce la giovane cantante Ariete. A Chieri suonano i Marlene Kuntz. Per “Collisioni” ad Alba sono di scena Frah Quintale, Madame, Tananai, Sangiovanni e Coez.

Domenica. Allo Spazio 211 suonano Messer, Chups, Rock’n Roll Kamikazes e altri. Per “Collisioni” recital di Valerio Lundini &I Vazzanikki. A Stupinigi si esibisce LP.

 

Pier Luigi Fuggetta

“Collisioni” parte con Blanco

 

Torino, 10 luglio 2022 –  Ha preso il via ieri sera ad Alba la quattordicesima edizione del festival Collisioni attesa da decine di migliaia di spettatori in arrivo in Piemonte da tutta Italia. La prima serata soldout di sabato 9 Luglio ha visto salire sul palco Blanco con l’opening di gIANMARIA. Il festival prosegue anche oggi, domenica 10 luglio, in Piazza Medford con i Pinguini Tattici Nucleari preceduti dal live de La Rappresentante di Lista.

 

Un’edizione speciale quella del 2022, interamente dedicata ai giovani con oltre cinquantamila ragazzi e ragazze attesi dal Lazio al Veneto, fino all’Abruzzo, passando per la Sicilia. La grande arena di Piazza Medford ad Alba, novità di quest’edizione, ospita infatti un numero doppio di spettatori rispetto ai concerti di Barolo.

 

Restano ancora disponibili su ticketone.it e sugli altri circuiti autorizzati, alcuni dei biglietti per la grande giornata giovani Tutto Normale di sabato 16 luglio, organizzata in collaborazione con Banca D’Alba  e con apertura cancelli a partire dalle ore 17, per una grande maratona di 5 ore di musica non stop con i concerti di Madame, Tananai, sangiovanni, Frah Quintale e Coez  dalle ore 20.00 fino all’1,00. Cinque concerti con un solo biglietto al prezzo popolare di 30 euro più prevendita. Ancora disponibili anche i biglietti per lo spettacolo di Lundini e i Vazzanikki di domenica 17 luglio.

 

Un’edizione che Collisioni intende dedicare insieme al Comune di Alba, a Fondazione CRC e ai suoi numerosi partner proprio ai ragazzi e alle ragazze del territorio che hanno dimostrato senso di responsabilità per quasi due anni, rinunciando alle esperienze di una normale adolescenza. E che finalmente quest’estate tornano a far festa, in piedi in migliaia, a cantare sotto al palco di una normale edizione di Collisioni, come nel 2019. Con l’organizzazione di laboratori specifici a loro dedicati, grazie ai quali centinaia di giovani potranno vivere il festival in prima persona, collaborando alle riprese video, foto e alle interviste al pubblico di ragazzi e ragazze che arriverà ad Alba da ogni angolo del Bel paese.

Foto: Nicolello

La “Torino che non ti aspetti”: in Contrada Guardinfanti 

Torino ha delle particolarità che perfino i torinesi spesso non conoscono.

Allora caliamoci per un attimo in Contrada Guardinfanti, pieno centro storico racchiusa tra le vie Barbaroux, Stampatori, Santa Maria e dei Mercanti, il cuore più antico dell’Augusta Taurinorum.

Ora ha conservato altre peculiarità, intanto è ricca di artigiani, alcuni di storica tradizione accanto ad altri di più recente costituzione ma capaci di offrire competenze tecniche e passioni come solo un artigiano sa fare. E poi succedono cose davvero strane. Vi accompagniamo in via dei Mercanti.

 

Al numero 3/d intanto la Tipolitografia dei Mercanti di Emanuela Zannetti, una donna piena di risorse e carica umana. Nel suo negozio e laboratorio (dove tiene corsi di calligrafia) tutto quanto è oggetto di legatoria ma soprattutto personalizzabile è creato. Dalle scatole per opere di artisti agli oggetti della memoria (album, percorsi….). Bisogna entrare, osservare e farsi prendere dai suoi racconti e dai propri desideri. Poco distante al 3 della stessa via ecco un cortile di quelli tipici delle case a ringhiera.

Qui su un balconcino la domenica alle ore 18 prende vita il Concertino del Balconcino, creato da due musicisti di punk lirico Daria Spada e Cristan Maxime che con queste performance che ormai hanno una serie di appassionati frequentatori, offrono l’opportunità ad attori, cantanti, attori di esibirsi e dare prova del proprio talento. Basta contattarli.

Ma non è tutto. Sempre al 3 di via del Mercanti, più precisamente ad un citofono a titolo di anticipazione del Concertino, alle ore 17,45 ecco che prende vita Radio Citofono, la radio senza obbligo di frequenza, animata da Gabriella Squilibra che intrattiene chi attende lo spettacolo con uno proprio dal titolo “Parole e magia” dove si analizza il significato di una parola prescelta dalla sua etimologia fino alla lettura delle carte sempre attraverso il collegamento del citofono.

Basta naturalmente appoggiare l’orecchio! Sempre in zona, poco distante da lì, in una bottega piccolissima che rischia di non essere vista, opera la Dottoressa delle Bambole, Greta Canalis, altra giovane artigiana in via Barbaroux 7 che grazie ad una profonda e mirata formazione. restaura bambole antiche e moderne. Perché nulla vada perso soprattutto quando legato a bei ricordi.

Adelaide Valle

Liguria medievale

Dolceacqua affascinò Claude Monet, “il luogo è superbo, scrisse il pittore impressionista verso la fine dell’Ottocento, vi è un ponte che è un gioiello di leggerezza”.

È il vecchio ponte sul torrente Nervia che insieme alle rovine del castello dei Doria attira ogni anno migliaia di turisti mentre dall’altro lato del Ponente nel piccolo borgo di Noli, nel savonese, spicca la chiesa di San Paragorio, un gioiello di architettura romanica. In mezzo al Ponente ligure c’è naturalmente tanto altro, svettano cattedrali e battisteri a Ventimiglia, Sanremo e ad Albenga, monumenti medievali a Taggia, Triora, nell’entroterra di Imperia e di Finale, a Savona e a Varazze. E ancora Pigna sui colli con le sue terme, Sant’Ampelio a Bordighera, Andora e Apricale, uno dei borghi più incantevoli della Liguria, dove, come a Dolceacqua, è possibile passeggiare nei suggestivi vicoli del paese fino ai resti del castello della Lucertola. “Liguria medievale”, il libro del novarese Simone Caldano, Edizioni del Capricorno, ci accompagna a scoprire e visitare 55 tra paesi, borghi e città, da ponente a levante, oltre a Genova. Un libro in più da portare in vacanza in Liguria che d’estate viene presa d’assalto da migliaia di piemontesi. E per ricordarci che questa regione non è solo una terra di belle spiagge e raffinati ristoranti ma c’è anche altro che merita di essere conosciuto e ammirato. A Levante, seguendo il percorso ideato da Caldano, docente e storico dell’architettura e dell’urbanistica, scopriremo, tra l’altro, Camogli con il castello della Dragonara, l’Abbazia di San Fruttuoso tra Portofino e Camogli, Rapallo, San Nicolò dell’Isola a Sestri Levante, Levanto, le chiese medievali di Vernazza e Riomaggiore nelle Cinque Terre, Porto Venere e il castello di Lerici, una fortezza sul mare così grandiosa da sembrare, scrive l’autore, “un imponente vascello pronto a salpare e a solcare i mari”. La Commenda di San Giovanni di Prè, di fronte al Museo del Mare Galata e al Porto antico, apre la sezione del libro dedicata a Genova e al suo entroterra, perché, spiega Caldano, “è il monumento medievale che “dà il benvenuto” al visitatore che si avventura in città, sia per la posizione fuori dalle mura sia per la vicinanza alla stazione Principe. In una città importante come la Superba non poteva certo mancare un prestigioso insediamento dei Cavalieri di San Giovanni, i futuri Cavalieri di Malta”. Per secoli la Commenda fu un essenziale punto di riferimento e di ritrovo per pellegrini e viandanti che si imbarcavano a Genova diretti alle Crociate in Terra Santa. E poi il duomo di San Lorenzo, “da sola questa splendida cattedrale basterebbe a sfatare i preconcetti di coloro che vedono in Genova una città povera in termini di patrimonio artistico. Attorno al complesso vescovile lo storico Caldano ci invita a seguire due itinerari che toccano le chiese di San Donato, Santa Maria di Castello, Santi Cosma e Damiano, il Museo di Sant’Agostino, Porta Soprana, San Matteo e Santo Stefano. Nell’entroterra genovese raggiungiamo Montoggio con il castello dei Fieschi, di cui oggi restano soltanto alcuni ruderi. Posto a guardia dell’alta Valle Scrivia divenne nel Quattrocento proprietà dei Fieschi, una delle più potenti famiglie genovesi dell’epoca. A Vobbia invece scopriremo le rovine del castello della Pietra nel parco regionale dell’Antola. Ora buona lettura e godetevi il fascino della Liguria..                                         Filippo Re