CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 30

La scuola Holden e l’oro che luccica

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Adesso capisco dopo le polemiche innescate da una ex allieva della Scuola Holden di cui è fondatore e preside Alessandro  Baricco, cosa significhi la competitività esasperata che si genera in quella scuola tra allievi aspiranti scrittori. Avevo avuto occasione di conoscerne uno che ebbi l’ingenuità di invitare a cena dopo un incontro con due amici colleghi di due importanti università italiane. Il ragazzo stette in silenzio tutta la sera, ma poi riportò i discorsi che udì a docenti nemici dei due, aggiungendo pettegolezzi suoi. Ne nacque un piccolo caso diplomatico che mi premurai di risolvere rapidamente. Quando chiesi ragione di un comportamento sleale al giovane cresciuto alla Holden egli mi disse che “oggi per sopravvivere si fa così, senza andare tanto per il sottile”. Io ingenuamente pensavo di aver fatto una cortesia ad invitare a cena con due maestri un giovane. In effetti sbagliavo perché l’ex allievo di Baricco voleva trarre un vantaggio anche da un invito a cena. Un diabolico piccolo Machiavelli in sedicesimo che allontanai dai miei rapporti. Questo episodio dimenticato mi è tornato alla mente, leggendo dell’ambientino della scuola che rilascia diplomi senza valore legale (in effetti una convenzione con il ministero la ottenne e forse essa andrebbe quanto meno rivista) con delle rette di 20mila euro.
Sono sempre stato convinto che non si possa insegnare la creatività artistica dello scrittore e in ogni caso, leggendo i nomi dei docenti, ritengo assai improbabile che il miracolo di scoprire un nuovo scrittore possa essere compiuto da una scuola che potrebbe rischiare di illudere gli ingenui ed attrarre gli ambiziosi.
Tra il resto, ho scoperto che l’autore del testo scolastico di storia che fa politica spicciola, ha anche lui frequentato la scuola Holden e certo non ha appreso la storiografia in quelle aule. Forse l’ex allieva arrabbiata per aver buttato tempo e denaro, non ha la lucidità per apprezzare la scuola frequentata. C’è anche chi dopo averla frequentata  ha fatto carriera negli uffici stampa e nella politica. Forse la scuola Holden è davvero una stella del firmamento torinese come vorrebbero farci credere. E‘ certamente un bastione di quel deprecabile sistema Torino che neppure i grillini hanno saputo o voluto  intaccare: anzi, alcuni si sono omologati  senza problemi. C’è chi ha scritto che “la scuola Holden  è una macchina commerciale che crea un ecosistema di promesse ed illusioni“. Sicuramente la studentessa che denuncia nell’anonimato sui social, può aver esagerato o addirittura può aver diffamato. Ma il polverone che ha sollevato la sua denuncia deve far riflettere sul fatto che non è sempre oro ciò che luccica.

Loredana Cella, la passione per i libri grazie a Carlo Fruttero

 

La scrittrice e curatrice racconta il suo legame con Torino e il Piemonte.

Con Loredana Cella non è stata solo una intervista, ma una piacevole chiacchierata, uno scambio tra donne che amano Torino e si nutrono della sua unicità e della sua bellezza.

Loredana è una donna gentile e garbata, ma anche determinata, eclettica e vulcanica. Scrive, è curatrice di libri di successo, gestisce fortunate rubriche sui social come il Caffè letterario di Lory su Facebook e Insoliti punti di vista – Quello che le donne non dicono ed è ideatrice insieme a Paolo Menconi di format radiofonici come La Clessidra su Caffè Italia Radio, una interessante collana di interviste lampo di 10 minuti che presenta insieme a Dario Albertini.

Il suo spettro di collaborazioni è molto ampio così come è importante la sua dedizione all’ attività di sensibilizzazione e supporto nei confronti di chi convive con la sclerosi multipla. A proposito di questo tema medico scientifico, ma anche sociale Loredana Cella ha curato la creazione del libro “Una vita da sclero” (Graphot/Spoon River), una collezione di storie, raccontate da pazienti affetti da questa grave malattia del sistema nervoso centrale, realizzata in collaborazione con il San Giovanni Bosco e l’Aism di Torino. 

La sua è una vita dinamica divisa tra produzione editoriale, creazione di eventi, ma anche impegno sociale a favore di diverse realtà del territorio. È una torinese doc, ma con una apertura culturale ampia. Le parole, scritte e pronunciate, sono la sua passione, così come le storie del territorio, quello a cui è fortemente radicata. Il suo modo di affrontare temi e argomenti è collettivo, condiviso e sinergico come dimostrano i lavori di cui si è occupata.

Loredana come definiresti il tuo rapporto con Torino?

È un bellissimo rapporto. Ho sempre vissuto in centro, nello stesso stabile di Carlo Fruttero che ha influenzato il mio amore per la scrittura; la mia vita è stata caratterizzata dai libri e faccio parte di diversi gruppi di lettura. Il mio sogno è sempre stato quello di poter mettere su carta le storie e le bellezze della mia città. Il primo libro, che ho scritto insieme a Giuliano Vergnasco, è stato “Piazza Statuto e Porta Susa” edito da Graphot e grazie a questa pubblicazione Edizioni della Sera di Roma mi ha proposto di curare la realizzazione di diverse antologie come “Torinesi per sempre”, “Piemontesi per sempre” e “Chiacchierate Torinesi” che vede la città raccontata attraverso i suoi meravigliosi e unici bar. Questo lavoro antologico ha permesso la nascita di nuove amicizie e di osservare la città e la regione con uno sguardo emotivo, appassionato e profondo. Non posso non citare un’altra raccolta che è “Piemonte sulle vie del vino”, pubblicato da Affiori, del Gruppo Giulio Perrone, che racconta di vigneti, dolci colline e borghi che narra la vendemmia e il processo magico che si cela dietro alla produzione del vino. 

Ti sei dedicata molto anche alle donne di Torino e alle loro gesta?

Esatto. Grazie alla Neos edizioni è uscito il libro “Le Torinesi Ribelli”, diciannove storie per ricordarle.

Sono dei brevi racconti scritti da diverse autrici e autori dedicate a straordinarie “signore” che hanno segnato periodi e nuove consuetudini per l’emancipazione e la conquista della libertà della donna come Rita Levi Montalcini, Adelaide di Susa, Carol Rama, Isa Bluette, ecc. Ciascuno con il proprio stile e la propria scrittura ha ridato vita a queste eroine che hanno avuto il coraggio di affermare diritti e desideri. L’idea di realizzare questo libro è nata anche dal fatto del mio sentirmi ribelle e dalla mia ammirazione per la fermezza con cui queste donne si sono imposte andando spesso contro convenzioni, ma anche in contrasto con la propria famiglia.

Progetti per il futuro?

Entro fine anno usciranno altri due libri, il primo è un’antologia per la Neos Edizioni dedicata a Torino e al Natale per cui non sarò curatrice, ma autrice e promotrice mentre il secondo sarà pubblicato da Aede Books, di Milano, e prevedrà’ anche una serie di attività nell’ambito della scuola che coinvolgeranno molti lettori. Ad ottobre, inoltre, ripartirà una nuova stagione della Clessidra. Per il 2026 ho in previsione altri interessanti  progetti per i quali sto già lavorando.

Maria La Barbera

“La traversata notturna” di Andrea Canobbio: le vie di Torino come “teatro della memoria”

THE PASSWORD Torino oltre gli asterischi

 

Per la rubrica The Password: Torino oltre gli asterischi”, in collaborazione con Il Torinese, Anna Gribaudo presenta La traversata notturna, penultimo romanzo di Andrea Canobbio, approdato sino alla finale di un importante premio letterario. Le pagine del libro narrano di un viaggio nella memoria familiare, tra le pieghe di un rapporto padre-figlio complesso, con Torino a fare da coprotagonista, nella sua cupa e malinconica ortogonalità.

La traversata notturna è il penultimo romanzo dello scrittore torinese Andrea Canobbio, classe 1962, pubblicato nel 2022 da La nave di Teseo. Il libro è stato finalista nella cinquina del premio Strega 2023, frutto di otto anni di lavoro. Come racconta l’autore in un’intervista al Circolo dei Lettori, il motivo scatenante per l’ideazione del libro era stata la solenne consegna, da parte delle sorelle, di una valigetta contenente le lettere che i genitori si erano scambiati durante il loro fidanzamento, tra 1943 e 1946, testimoni di una felice storia d’amore, sbiadita nel ricordo del figlio.

Al centro dell’opera c’è la famiglia Canobbio, e in particolare il complicato rapporto padre-figlio, sicuramente tra i più indagati nella storia della letteratura, da Ulisse e Telemaco fino a Kafka con la sua Lettera al padre: qui questa relazione è senza dubbio condizionata dalla malattia del padre, la depressione, di cui lo scrittore cerca di ricostruire le cause, ritrovandosi senza risposte definitive, se non con un sentimento di dolore inconfessato: «[…] non lo perdonavo di essere stato un depresso […]. Poi non riuscivo a perdonargli di non aver mai giocato con me, di non avermi mai parlato o incoraggiato, di non avermi mai trattato alla pari, come un adulto». Della malattia l’autore offre definizioni semplici e lapidarie: « […] e per me era questo il ritratto di mio padre, il ritratto della depressione, cioè del non vivere per non morire – come se la depressione fosse una scelta, una volontà di potenza o di impotenza […]».

Il libro è una “traversata” nel senso stretto del termine, un percorso per i sentieri tortuosi della memoria, con dei sopralluoghi tra le vie di Torinocittà che si erge in tutta la sua ortogonalità come coprotagonista: «Il cielo stellato sopra di me, la pianta ortogonale dentro di me». Infatti, l’autore ha creato una griglia di 81 caselle con i luoghi più significativi della città, in cui si muove procedendo come un cavallo su una scacchiera, non passando mai due volte dalla stessa casella. Canobbio afferma di aver ripreso l’idea da La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec, che aveva fatto lo stesso ma per le stanze di un condominio. Torino è però oggetto di sentimenti ambivalenti da parte dell’autore; infatti, è prima di tutto la città dei genitori, in cui si sente spesso esiliato: «ma in realtà la disprezzavo [Torino] perché era la città di mio padre, e mi sembrava triste e grigia come lui, e anche quando fingevo di appartenerle me ne sentivo escluso per sempre».

A tratti romanzo storico, con squarci sulla Torino bombardata e ricostruita nel Dopoguerra, a tratti autobiografia, ma anche album di famiglia, con vecchie fotografie, appunti dell’agenda del padre, disegni, schizzi che si mescolano alle pagine, per cercare di mettere ordine tra quello che resta dopo un lutto. La stesura difatti è stata lunga, racconta Canobbio, anche per via del dolore che i ricordi risvegliano – per cui interrompeva spesso il progetto con altre letture, come Perec, Queneau, ma anche con opere etnografiche di Griaule e Leiris, che paradossalmente lo riportavano al proprio vissuto e ai propri genitori. Vedeva anche un parallelo tra il suo lavoro e quello degli etnologi, viaggiare nello spazio per viaggiare nel tempo, in quanto si guardava spesso alle popolazioni primitive come all’infanzia dell’umanità.

Tra le pagine trovano spazio anche momenti di tenerezza e di leggerezza, e divertite riflessioni sulla natura dei piemontesi e dei torinesi: «se non sta attento, un piemontese può allargare le vocali fino ad aprire voragini al centro del discorso», «perché la natura profonda del torinese è militare e religiosa, mentre il milanese è laico e mercantile», «era torinese e quindi per natura e cultura attratto dalla melancolia […]».

Un libro decisamente lungo, 514 pagine, ma dalla lettura scorrevole e dallo stile preciso, trasparente, elegante, che lascia questioni aperte e forse irrisolvibili: quanto si è responsabili della propria malattia? Quanto è difficile vedere i propri genitori come persone? E come perdonarli per non essere come vorremmo che fossero?

Anna Gribaudo – redattrice di The Password

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Le parole sono ponti o bombe

Di Irma Ciaramella *

Il mio liceo e’ stato una grande palestra di Vita. Al D’Azeglio, all’inizio degli anni ‘80 gli anni di piombo bruciavano ancora, e lo strascico della contestazione studentesca degli anni ‘70 si trasformava nelle catene a malapena celate nei picchetti, per impedire a noi quartini (avevo 13 anni all’epoca !) di entrare (mi ricordo ancora uno della sinistra extra parlamentare chiamato Shampoo perché aveva stupendi capelli biondi a caschetto) e pugni di ferro sotto il guanto di montone a maggio degli altri che non mollavano. Avevo una prof di Storia e filosofia che fieramente si dichiarava anzi si proclamava, comunista trotzkista marxista leninista.

Ma ha sempre avuto l’onestà intellettuale di insegnarci che la storia è fatta di voci, non di una sola voce; che spesso è raccontata dai vincitori, ma che la verità — se esiste — richiede metodo, confronto, fonti.
Anche quando Franco Cardini veniva a tenerci una ‘conferenza’ così si chiamava allora, in aula magna nessuno si sognava di tacitarlo o boicottarlo perché non era allineato con la vulgata di allora.

La stessa prof, che si proclamava atea convinta (erano gli anni del “Dio è morto”), l’ho ritrovata quarant’anni dopo, seduta con la stessa dignità di sempre nella chiesa dei Camilliani, ad ascoltare una predica di Padre Antonio. Con spirito critico, certo. critico. Non senza l’amore per la dialettica. Proprio come quel giorno in prima liceo, quando la mia interrogazione su Ficino e Pico della Mirandola finì in un match dialettico tra la sua laicità e le ragioni della mia mia fede.

Una palestra di vita figherrima come dico io.

E se sono un’avvocata magari lo devo -anche – a quel continuo ‘dibate camp’ che è stato il mio liceo.

Abbiamo imparato a pensare.
A usare i sillogismi. A smontare le nostre tesi per vestire i panni dell’altro. A costruire un ragionamento logico e solido anche partendo da una posizione opposta alla nostra.
Questa è, per me, la scuola.
Non un luogo dove riempire teste vuote con concetti precotti, ma un laboratorio in cui si costruisce il pensiero. Dove si offrono strumenti critici. Dove si insegna a ragionare con la propria testa.

Questa è’ per me la scuola.

Ecco perché torno sul caso del libro di storia pubblicato da Laterza, e sulle critiche del Ministro Valditara, che ha contestato alcuni passaggi in cui si parla dell’attuale governo con espressioni come “deportazione”, “base dichiaratamente fascista”, “criminalizzazione dei migranti”.

Noi che lavoriamo con le parole – e sulle parole e di parole viviamo– sappiamo bene che ogni lemma pesa.

Che la parola può essere cesellata o appuntita, inclusiva o divisiva, evocativa o manipolatoria.

Può creare ponti, o far esplodere bombe.

E chi scrive un libro di storia destinato agli studenti non solo racconta i fatti: plasma coscienze. Offre chiavi di lettura del presente. Alimenta – o depotenzia – il pensiero critico.

E alla fine di quel liceo nutrito di così tante voci e da tutta quella conoscenza vera ci sentivamo tutti davvero pronti ad affrontare senza paura qualsiasi studio.

Venendo a noi e al caso del libro di storia editi da Laterza e e alle critiche del Ministro Valditara a un passaggio che descrive il governo in carica con termini come “deportazione”, “base dichiaratamente fascista”, “criminalizzazione dei migranti”

Parole che Evocano – in modo inequivocabile e, temo, cieco – una narrazione parziale, militante, lontana da quella pluralità di voci che forma una coscienza libera.

Noi che viviamo di parole, parole calibrate, soppesate, cesellate, arrotondate o rese aguzze come frecce, dilatate ed ampie da ricomprendere un tutto e innalzate come a ‘volo di drone’ diremmo oggi. Noi che di parole viviamo, sappiamo l’importanza del labor limae, dell’adeguare i lemmi alla platea alla quale rivolgiamo i nostri scritti, della potenza della parola, capace di creare o di distruggere, di stimolare curiosità e desiderio di approfondimento, ovvero sconcerto, disgusto, piacere, noia e così via.
Qui chi scrive di storia (forse qui più ‘Cronache’?) per i ragazzi plasma coscienze, forma pensiero critico (o lo deresponsabilizza), offre una chiave di lettura del presente.

E se autore assume il tono dell’attivista, sta facendo il suo mestiere di storico? Sta offrendo un quadro sintetico ma efficace di questo periodo? Sta proponendo oltre che una tesi (la sua fazione di tesi) anche l’antitesi, lasciando ai docenti di prospettare una sintesi semmai?

Ecco perché serve una riflessione più ampia:
sul contenuto di questo libro, certo.
Ma anche – e soprattutto – sulla democrazia culturale.
Sul ruolo della scuola.
Sui suoi strumenti.
E sulla libertà – fragile, preziosa, indivisibile – del pensiero.

Conoscere la storia – anche la più scomoda – è necessario.

Ma le parole contano.

Le parole sono ponti o bombe.

E qui le parole adoperate sono forti, fortissime evocano tanto inequivocabilmente, quanto in maniera ciecamente faziosa, una storia dolorosa e non così lontana da noi.

Ma c’è’ di più.

Un livello ancora superiore di analisi.

Cosa deve essere la scuola?

Un luogo neutro dove si coltiva il dialogo? Uno spazio in cui si affina l’arte del confronto e del dubbio?
O una fabbrica di pensiero unico, dove la tesi è già servita e lo studente deve solo mandarla a memoria?

Io credo nel pluralismo.
Credo nella libertà intellettuale, nella responsabilità educativa, nella vigilanza democratica. Credo che la scuola debba essere alimentata dai tanti rivoli del confronto culturale, e non chiusa in un’ansa ideologica.
Credo nella conoscenza dei fatti, non nei filtri faziosi. E soprattutto: credo che gli insegnanti vadano valorizzati, non lasciati soli in un campo minato.

E mi sembra che questo testo, che peraltro cita autorevoli fonti ( … fanpage) non centri questi obiettivi.

Ecco perché serve una riflessione più ampia:
sul contenuto di questo libro, certo.

Ma anche – e soprattutto – sulla democrazia culturale.
Sul ruolo della scuola.
Sui suoi strumenti.

La scuola non deve insegnare cosa pensare, ma come pensare.

E in tempi di parole urlate, la vera rivoluzione è ancora il dubbio.

Ecco perché oggi non è in discussione solo un libro.

È in gioco l’idea stessa di scuola come presidio di libertà, non come trincea ideologica.

Se vogliamo che la democrazia resti viva, dobbiamo difendere la pluralità delle voci, la complessità del pensiero, il diritto di dubitare.

Sempre.

* Avvocato

“Olimpia – Prova d’orchestra” Biennale di Arte Contemporanea in Alta Langa

Dal 5 luglio al 31 agosto

Alta Langa (Cuneo)

Intrigante il titolo dell’evento “Olimpia”, che ci rimanda all’antica “Olimpia” (oggi “Archea Olympia”), città greca del Peloponneso dove si svolsero, dal 776 a. C. al 393 d. C., i primi “Giochi Olimpici” della Storia; e non meno intrigante il sottotitolo “Prova d’orchestra”. L’iniziativa, infatti, tutta e con varie sfaccettature dedicata all’“arte contemporanea”, intende proprio presentarsi come una perfetta “Prova d’orchestra”, capace di mettere insieme in un’unica sinfonia le più varie espressioni delle attuali prove d’arte visiva (dalle performance alle installazioni site-specific), senza dimenticare la musica, la letteratura e il paesaggio stesso (come elemento non meno decisivo alla completezza del messaggio estetico), interpellando e dando spazio alle più interessanti e  giovani voci della “contemporaneità” di casa nostra.

Programmata da sabato 5 luglio a domenica 31 agosto, l’iniziativa – curata dalla Galleria “Lunetta11” di Mombarcaro (Cuneo) e organizzata dall’“Unione Montana Alta Langa” con la collaborazione di “Fondazione La Masa”di Venezia, “Recontemporary Torino” e “Firenze Jazz Festival”  – coinvolgerà ben sette Comuni della Provincia Cuneese del Basso Piemonte: da Cortemilia a Prunetto, da Paroldoa Castino, a Camerana, Serravalle Langhe e Niella Belbo.

“Il programma – sottolineano gli organizzatori – è un racconto a tappe, per costruire un percorso immersivo e itinerante”.

La prima tappa, sabato 5 luglio (alle ore 17), ci condurrà all’“Ecomuseo dei Terrazzamenti e della Vite” di Monteoliveto a Cortemilia , con l’inaugurazione dell’installazione “Fairy Ring”di  Stefano Caimi, lecchese di Merate, oggi residente a Montevecchia e docente alla “Naba Computer Art – Nuova Accademia di Belle Arti”.L’opera si presenta composta da una serie di “sfere di acciaio” disposte a forma di anello sul terreno, con l’intento di riportare alla memoria e alla luce il cosiddetto “cerchio delle streghe”, secondo antiche leggende popolari il tracciato delle loro danze rituali. In realtà, nulla più della manifestazione del “micelio”, l’apparato vegetativo, sotterraneo e invisibile, del fungo, mezzo principale di assorbimento e distribuzione dei nutrienti. “L’installazione intende rimarcare – secondo Caimi – la capacità dell’elemento naturale, maestoso o nascosto che sia, di incuriosire e stregare l’essere umano, rompendo le barriere tra razionale e soprannaturale”. E, in questo caso, c’è da dire che il “gioco” appare perfettamente riuscito.  Sempre sabato 5 luglio, l’“Oratorio di San Michele” a Serravalle Langhe, dipinto dall’artista britannico David Tremlett nel 2020, si trasformerà, fino a domenica 13 luglio, in uno “studio d’artista” dove sarà possibile vedere all’opera la videoartista Emma Scarafiotti e il musicistaPaolo Dellapiana .

Domenica 6 luglio, alle 15, gli Otto cieli” , le sculture volanti dell’artista “fanciullino” Oliviero Fiorenzi , voleranno sopra il “Castello di Prunetto”, invitando il pubblico a partecipare all’azione performativa dell’artista marchigiano con il proprio aquilone.

Sabato 12 luglio, la giornata di “Olimpia” si apre, alle 11, a Niella Belbo, con la presentazione di Fioritura” , la plastica essenziale scultura del giovane cremasco Edoardo Manzoni, in cui è ben chiaro l’influsso esercitato da un mondo contadino da sempre, particolarmente caro all’artista e che rimarrà in permanenza alla “Confraternita dei Battuti”.

Alle 15, la “Torre medievale” di Camerana accoglierà Come due gocce d’acqua” , opera site-specific di Dora Perini , realizzata in collaborazione con la “Fondazione Bevilacqua La Masa” di Venezia, mentre, alle 17, alla “Confraternita di San Sebastiano” a Paroldo, si presenterà, in collaborazione con la “Fondazione Recontemporary” di Torino, la mostra “Listen to me, why is everything so hazy?” della fotografa e videoartista milanese Mara Palena.

Ma “Olimpia” non sarà solo “arte visiva contemporanea”.

Domenica 13 luglio, alle 17, a “San Bovo di Castino”, andrà in scena una rilettura di 1984” di George Orwell , un reading sonoro tra letteratura e musica dal vivo a cura dello scrittore Giuseppe Culicchia e del musicistaGiorgio Li Calzi, in collaborazione con il“Firenze Jazz Festival”.

Tutte le opere (fatta eccezione per lo “studio d’artista” di Serravalle Langhe) rimarranno visibili durante i weekend (venerdì, sabato e domenica), fino al 31 agosto.

 

Info e programma completo: www.olimpiacontemporanea.com

g.m.

Nelle foto: Oliviero Fiorenzi “Giant Kite”, 2024 (ph. credit Matteo Natalucci); Stefano Caimi “Fairy Ring”, 2023; Edoardo Manzoni “ Fioritura”, 2023; Giuseppe Culicchia

Le case floreali di Gribodo: l’edilizia gentile a Torino

Torino è la città del Liberty, si sa. Passeggiando per le belle ed eleganti vie della citta’, soprattutto nei quartieri di Cit Turin e di San Donato, e’ facile innamorarsi dei palazzi che rappresentano questo stile raffinato che, tra fine ‘800 e i primi del 1900, diede un tocco di gusto ai progetti urbani. Conosciamo bene i capolavori di Pietro Fenoglio come Villa Scott, Casa Lafleur, il Villaggio Leuman, ma anche le case popolari di Via Marco Polo e di Via Ravello. La citta’ della prima Esposizione di Arte Decorativa Moderna del 1902 ci regala scenari affascinanti e particolari unici e di pregio presenti non solo negli edifici residenziali ed industriali, ma anche nelle insegne, nelle vetrine dei negozi e dei caffe’.

Tra coloro che contribuirono alla realizzazione di queste palazzine e villini romantici e floreali, ornati da graziose minuzie, troviamo Giovanni Gribodo che visse a cavallo del 1800 e 1900. Ingegnere e architetto, laureato presso la Scuola di Applicazione di Torino, particolare che lo accomunava a Fenoglio, era anche un entomologo; un uomo dalle diverse passioni e interessi, dunque, dallo studio degli insetti, a cui si dedico’ di piu’ a fine vita, alla progettazione di residenze dal volto gentile.

I giri turistici della citta’ pianificano sempre piu’ percorsi dove queste belle opere edilizie del Liberty sono le protagoniste, ma passeggiare fuori dal centro ed ammirare questi veri e propri capolavori attira anche i cittadini che non si stancano di visitare le meraviglie affascinanti della loro Torino.

Tra gli edifici piu’ importanti realizzati da Giovanni Gribodo ne troviamo cinque solo a via Piffetti:

Cominciamo con il civico 3, la Palazzina Mazzetta con i suoi balconi in ferro dai disegni intrecciati su un fondo grigio che le da’ un tono austero; al numero 5, invece, c’e’ Casa Masino, un edificio in mattoni rossi caratterizzato dal balcone centrale che ospita due volti femminili in pietra. Le finestre sono decorate da fregi floreali come il bel portone d’ entrata. Al 7 scopriamo, con il suo stile un po’ fiabesco, una palazzina a due piani chiamata Pola-Majola come il suo committente, edificata nel 1907 che non ebbe speciali decorazioni come le altre, ma possiede un fascino particolare che ci riporta allo stile gotico. Le Palazzine, che si trovano al civico 10 e 12, sono probabilmente le piu’ famose opere di Gribodo, due villini magnifici decorati con un centrino di motivi naturalistici in pietra bianca, inferriate in ferro battuto, balconi e vetrate con particolari preziosi.

In via Belfiore 66, in zona San Salvario, si trova un altro edificio realizzato dall’ architetto Gribodo che fu un po’ dimenticato rispetto agli altri suoi colleghi che divennero piu’ noti. Si tratta di Casa Audiberti Mottura, una bella palazzina con balconi decorati e una scala interna con particolari vivaci e colorati. Nella zona della Crimea, sull’altra sponda del Po, lo stesso architetto ha studiato e costruito il Villino Giuliano, in via Luigi Gatti 17. Composto da tre piani, questa casa dai colori caldi, e’ caratterizzata da molti dettagli tipici all’Art Nouveau: immagini di fiori, pietra scolpita e disegni geometrici morbidi classici del periodo. Nel quartiere Cenisia, in via Perosa 56, c’e’ un piccolo edificio che rappresenta un esempio in miniatura del periodo Liberty: una piccola palazzina, con un portone davvero insolito, incastonata tra edifici piu’ moderni e dai toni delicati, chiamata Casa Bosco Tachis. Tornando al quartiere di San Donato non si puo’ rimanere indifferenti davanti ad edificio piu’ corposo e perfino possente dal nome Casa Cooperativa, un palazzo in mattoni rossi ornato con rose, foglie e con dei balconi caratterizzati da disegni che si ispirano ad un floreale piu’ moderno e tondeggiante. All’interno troviamo un meraviglioso scalone bianco e nero dalla forma ovoidale davvero suggestivo

A un’ora circa da Torino e precisamente a Coazze e’ si trova un’altra opera di questo fantasioso architetto: Villa Martini, divenuta poi Antonietta, dove il Liberty viene esaltato sia all’esterno, ma anche all’interno con i suoi mobili in stile. Questa casa, edificata al centro un bellissimo giardino, ebbe ospiti illustri come `Luigi Pirandello, il Conte Cavour e Vittorio Emanuele II.

MARIA LA BARBERA

Angoli torinesi, il Bastion Verde

Il Bastion Verde di Torino, anche chiamato “degli angeli” è un luogo dove la storia militare si fonde armoniosamente con la bellezza naturale. Situato all’interno dei Giardini Reali di Torino, è una delle ultime testimonianze di quella che fu la consistente cinta fortificata della città, oggi trasformata in un’area di svago e relax, ma che conserva ancora tutto il fascino della sua origine: 800 metri lineari di mura a pochi passi dal Palazzo Reale progettato dal geniale architetto cinquecentesco Ascanio Vitozzi. Il suo nome deriva dal fatto che Vittorio Emanuele II lo fece dipingere di verde e ricoprire di edera, in omaggio a sua moglie.

Il Bastion Verde è parte del sistema difensivo che, a partire dal XVII secolo, venne costruito Per proteggere Torino dalle invasioni. La cittadella fortificata, che comprendeva bastioni, mura e torri, si estendeva lungo le colline che sovrastano il fiume Po e rappresentava uno degli esempi più significativi della fortificazione barocca in Italia. Torino, allora capitale del Ducato di Savoia, aveva una posizione strategica e un apparato difensivo che rispondeva alle esigenze di protezione contro minacce provenienti sia da sud (dalla Francia) che da altre direzioni. Come gli altri bastioni della città, faceva parte di una serie di fortificazioni che vennero realizzate tra il 1668 e il 1700, con il progetto di Amedeo di Castellamonte, uno degli architetti più influenti dell’epoca. La struttura doveva garantire un buon punto di osservazione e difesa, ma allo stesso tempo integrarsi nel contesto urbanistico e paesaggistico che Torino stava sviluppando. Oggi, il bastione è circondato da un ampio parco verde che ne attenua la severità militare originaria, donando al sito un aspetto più accogliente e rilassante, ma senza perdere la sua forte identità storica. Con il tempo, le funzioni militari del Bastion Verde sono venute meno e l’area ha subito un processo di recupero e valorizzazione che ha permesso di restituirla alla cittadinanza come un parco pubblico ben curato, dotato di panchine, vialetti e ampie zone ombreggiate che rendono l’area perfetta per passeggiate e relax. L’elemento più interessante del parco è la sua capacità di mescolare il verde con la storia. Una delle caratteristiche più apprezzate del Bastion Verde è la sua posizione sopraelevata rispetto alla città. Dal bastione, infatti, si gode di una vista spettacolare su Torino e sulla collina torinese che si estende dalle Alpi all’orizzonte, con una prospettiva che lo rende un luogo privilegiato per osservare la città dall’alto, in particolare al tramonto, quando la luce dorata avvolge il panorama.

Maria La Barbera

L’isola del libro: Speciale DAPHNE DU MAURIER

RUBRICA SETTIMANAEL A CURA DI LAURA GORIA

Daphne Du Maurier è stata una famosa scrittrice inglese molto seguita nel Novecento, oggi ingiustamente dimenticata. Vediamo allora di tracciare le linee essenziali della sua vita e della sua imponente mole di opere.

Fondamentale per conoscerla più a fondo è la biografia pubblicata nel 2016 da Tatiana De Rosnay, scrittrice di origine francese, inglese, russa.

 

Tatiana De Rosnay “Daphne” -Neri Pozza- euro 18,00

In queste oltre 400 incantevoli pagine ci si ritrova piacevolmente catapultati dentro la vita della Du Maurier; immersi in una biografia dove è tutto vero, da leggere con la stessa scorrevolezza di un accattivante romanzo.

Il racconto è minuzioso, riporta le circostanze in cui è nata l’idea di ogni opera della scrittrice, le reazioni suscitate nei lettori e tra i critici. Soprattutto si coglie l’essenza della Du Maurier quando scandisce i capitoli secondo le abitazioni e i luoghi in cui è vissuta, perché per lei sono stati importantissimi. De Rosnay li cerca e li visita di persona, li descrive e così facendo ci porta nel meraviglioso mondo dell’autrice di “Rebecca”.

Inoltre il libro è arricchito da un interessante apparato iconografico che ritrae la scrittrice colta nelle diverse età, nonostante detestasse farsi fotografare.

 

 

 

 

Daphne Du Maurier nasce a Londra il 13 maggio 1907 a Westminster Mayfair, il prestigioso quartiere della regina, e cresce con le sorelle Angela e Jeanne.

I genitori, Gerald e Muriel, sono attori teatrali; ma dopo il matrimonio solo il padre prosegue nella carriera, diventando sempre più famoso. Muriel, invece, si dedica alla famiglia; lo fa organizzando ogni cosa alla perfezione.

Nel 1916 la famiglia trasloca a Cannon Hall, nella lussuosa villa di stile georgiano ad Hampstead; quartiere londinese abitato da intellettuali, musicisti, scrittori e artisti vari. Le sorelle Du Maurier, dopo l’iniziale educazione domestica, tra nanny e governanti, frequentano la scuola per ragazze St. Margaret’s School.

Gli inizi sembrano dunque sotto una buona stella: famiglia benestante, genitori artisti, un ambiente brillante in cui crescere. Ma qualche ombra aleggia; la complessa personalità paterna, il cui smisurato amore per le figlie può declinare verso l’opprimente “rigidità vittoriana”, ha enorme influenza sulle ragazze, in particolare sulla pupilla di Gerald, Daphne.

La scrittura sarà la sua via di fuga dall’opprimente atmosfera familiare.

Nel 1925, a 17 anni, lascia Londra e frequenta la scuola di perfezionamento per ragazze in Francia, a Meudom. Lì si innamora dell’insegnante/preside Fernande Yvon, di 12 anni più grande, che la incoraggia a continuare a scrivere. Le due col tempo restano buone amiche; e Daphne, dopo il matrimonio avrà altre relazioni con donne.

Importante è quella con la moglie del suo editore americano, Ellen Doubleday, donna affascinante, sposata con Nelson Doubleday, che ospita Daphne quando deve affrontare in America il processo per l’accusa di plagio per il romanzo “Rebecca”. Ellen rifiuta un rapporto che travalichi l’amicizia, ma nel corso del soggiorno negli States la Du Maurier vive un’ altra attrazione, poi declinata in amicizia, per l’attrice Gertrude Lawrence, che tra l’altro, aveva anche recitato con il padre.

Da precisare che Daphne Du Maurier ha sempre respinto sia la parola lesbica che bisessuale. La sua ambiguità (percepibile anche in alcuni suoi personaggi) la spiega così: il cuore di un ragazzo che alberga nel corpo di una donna. In sintesi: “the boy in the box”.

I genitori comprano una casa in Cornovaglia, l’affascinante Ferryside, nella baia di Fowey.

Proprio a Fowey, durante una passeggiata, Daphne, scopre una casa elisabettiana avvolta e nascosta dalla vegetazione. E’ l’imponente Menabilly, di proprietà dei nobili Rasleigh. La dimora l’attrae come una calamita e scatena la sua fantasia; diventa l’ispirazione (insieme a Milton Hall, nel Cambridgeshire) di Manderley, la casa dei coniugi de Winter nel romanzo “Rebecca” del 1938.

Sempre a Fowey, nel 1931, conosce il maggiore Friederick Browning, detto Tommy, militare di Eton, campione olimpionico e croce di guerra francese a 19 anni. L’anno dopo si sposano e avranno tre figli: Tessa, Flavia, Cristian (detto Kits, prediletto della madre).

Matrimonio non facilissimo, perché come moglie di un ufficiale di alto livello, Daphne dovrebbe vivere a Londra e partecipare agli eventi pubblici richiesti dal ruolo. Invece lei è concentrata nella scrittura e pretende solitudine.

A fatica la coppia trova il suo equilibrio; la scrittrice ottiene di vivere per lo più nell’amata Cornovaglia, fonte di ispirazione e scenario dei suoi romanzi.

Nel 1943, mentre Tommy è in guerra, Daphne convince i Rasleigh ad affittarle per 20 anni Menabilly, il maniero del XVI sec. disabitato e di cui è perdutamente innamorata. Con i guadagni di “Rebecca” ristruttura la proprietà che diventa la sua oasi di pace e creatività fino al 1969.

Nel 1965 muore il marito fulminato da un attacco cardiaco. Nel 1969 Daphne è nominata Dame Commander dell’Impero Britannico e lo stesso anno si trasferisce nella grande dependance di Menabilly, a Kilmarth, di fronte al mare.

Lì vive gli anni della vecchiaia continuando a scrivere, in voluta reclusione, pubblicando fino alla fine, che la coglie il 19 aprile 1989. Tre giorni prima di arrendersi alla broncopolmonite che la stronca, a 81 anni, sferzata da vento e pioggia della sua amata Cornovaglia, visita per l’ultima volta Menabilly…e poi si lascia andare.

I figli esaudiscono le sue volontà e ne spargono le ceneri nei campi intorno all’ ultima dimora. “Cornovaglia magica” -che aveva finito di scrivere poco prima di morire- sarà pubblicato postumo.

La Cornovaglia e le vicende di famiglia furono le principali fonti di ispirazioni a cui attinse per la voluminosa produzione letteraria che le diede successo e indipendenza economica. Dietro le opere di ambientazione storica c’è sempre stata un’accurata ricerca.

Nel corso della lunga e prolifica carriera di scrittrice ha pubblicato 16 romanzi, una biografia del padre, una selezione delle sue lettere, la biografia di famiglia, 3 pièce teatrali, numerosi racconti in svariate edizioni, un libro sull’amata Cornovaglia illustrato dal figlio Kit, una biografia di Branwell Bronte.

 

 

Hilary Macaskill “Daphne Du Maurier at home” -Frances Lincoln Limited Publishers- US $ 40

Questo splendido libro pubblicato nel 2013 in lingua inglese e corredato da un ricco apparato fotografico è pieno di informazioni sulla vita e il lavoro di Daphne Du Maurier .

Inizia raccontando -con testi e immagini- gli anni dell’infanzia londinesi e segue poi i passaggi più significativi della lunga esistenza della scrittrice, soprattutto in relazione alle dimore e ai luoghi che più hanno significato per lei.

Dalla spensierata giovnezza a Ferryside al matrimonio, poi la vita e la scrittura a Menabilly, per arrivare agli anni del tramonto a Kilmarth. Un libro che tocca il cuore ed emoziona profondamente chi ha amato i libri della Du Maurier e porta dritti nelle sue stanze.

 

 

 

Daphne Du Maurier “I Du Maurier” – Mondadori-

Questa è la ricostruzione accurata della storia di un secolo delle vicende della famiglia Du Maurier che Daphne ripercorre al limite tra cronaca e romanzo, storie e avventure realmente vissute dai suoi antenati trasposte dalla fantasia della scrittrice.

Inizia con le peripezie della frivola e bellissima trisavola Mary Anne Clarke, amica intima del Duca di York, a Londra, nei primi anni dell’800.

La narrazione ricostruisce le alterne fortune dei vari antenati nell’avvicendarsi delle generazioni. E le tipologie, le traiettorie di vita e i destini, alla fine delineano una mappa decisamente variopinta e interessante. Una genealogia quella dei Du Maurier che presenta una campionatura parecchio variegata.

 

 

 

 

Rebecca la prima moglie” -Il Saggiatore- euro 15,00

E’ un romanzo che ti afferra alla prima riga e non ti lascia andare neanche dopo l’ultima, perché racchiude magia, misteri, fascino a dismisura e ti resta nei pensieri anche dopo avere finito di leggerlo.

E’ il libro forse più famoso della scrittrice, uno dei più venduti negli Stati Uniti tra il 1938/39; ed ha ispirato l’omonimo film di Alfred Hitchcock con Laurence Olivier e Joan Fontaine.

Raffinato thriller psicologico ambientato in un luogo misterioso e inquietante. Romanzo che scandaglia l’animo umano, in particolare le delicate pieghe della gelosia, dei segreti irrivelabili e di molto altro.

Nelle sontuose stanze e nei saloni di Manderley, sulla costa della Cornovaglia, aleggia ancora l’ombra della prima signora de Winter, l’inarrivabile Rebecca. Simbolo di perfezione e bellezza: «figura alta e snella, dal viso bellissimo». A custodirne gelosamente, in modo inquietante ed ossessivo, le stanze è la governante, signora Danvers, morbosamente avvinghiata alla sua memoria.

Il romanzo entra nei tormenti della nuova signora de Winter costantemente messa a dura prova dal confronto impari con una bellezza morta e diventa mito, il costante senso di inadeguatezza, il senso di solitudine e i tormenti dell’anima dell’uomo che ha sposato e che cela un terribile segreto.

 

 

Mia cugina Rachele” -Beat- euro 13,50

Il dubbio e l’ambiguità serpeggiano lungo le pagine del romanzo e fanno da sfondo a questo sottile noir che la Du Maurier ambientò in Cornovaglia a metà Ottocento.

Il piccolo Philip Ashley orfano di entrambi i genitori a soli 18 mesi viene cresciuto dal cugino Ambrose, scapolo irriducibile.

Notevole dunque è lo stupore di Philip quando, anni dopo, il cugino, che si trova a Firenze per motivi di salute, gli comunica di avere sposato la cugina Rachele, una lontana parente. Vedova di un nobile italiano che l’ha lasciata in un mare di guai.

Dopo di che la trama si infittisce e il mistero avvolge l’indecifrabile Rachele.

 

 

 

 

Cornovaglia magica” -Mursia- euro 17,00

In queste splendide pagine c’è il cuore del legame tra la Du Maurier e la Cornovaglia, terra che lei amò incondizionatamente e comprese a fondo, riuscendo a raccontarla in modo coinvolgente.

Ma il libro è anche l’autobiografia e il testamento spirituale di una vita incredibile e talentuosa. La scrittrice rilegge e racconta i suoi viaggi, gli incontri, le ispirazioni dei romanzi, l’amore profondissimo e indissolubile per la sua Cornovaglia.

Le sere torinesi di Gozzano: la malinconica poesia del quotidiano

Solo Gozzano è riuscito a descrivere Torino come in effetti è. Il poeta parla della sua città natale con una splendida ironia malinconica, prendendola un po’ in giro, ma con garbo e con affetto, esaltandone i caratteri sommessi, le cose quotidiane; del nostro capoluogo sottolinea l’anima altezzosa ed elegante, intellettuale e civettuola, riuscendo a far emergere i tratti che ne contraddistinguono la bellezza e l’unicità, nel presente e nei suoi aspetti “d’altri tempi” con un gusto da stampa antica.

Nel componimento “ Le golose”, Gozzano considera un semplice momento di vita quotidiana, elevandolo a situazione poetica: in questo caso Guido, grazie alla sua vena brillante e ironica, gioca a descrivere il comportamento delle “giovani signore” torinesi all’interno di Baratti, uno dei bar storici della città. Le “signore e signorine”, che subito riusciamo ad immaginarci tutte imbellettate, con tanto di cappellino e veletta, non resistono alla tentazione di assaporare un pasticcino, e, davanti alla invitante vetrina dei dolciumi, indicano con il dito affusolato al cameriere quello che hanno scelto, e poi lo “divorano” in un sol boccone.

È un momento qualsiasi, è l’esaltazione del quotidiano che cela l’essenza delle cose. Nella poesia citata l’eleganza torinese è presa alla sprovvista, colta in flagrante mentre si tramuta in semplice golosità. Ma Gozzano sfalsa i piani e costringe il lettore a seguirlo nel suo ironizzare continuo, quasi non prendendo mai niente sul serio, ma facendo riflettere sempre sulla verità di ciò che asserisce. Se con “Le golose” Guido si concentra su una specifica situazione, con la poesia “Torino”, dimostra apertamente tutto il suo amore per il luogo in cui è venuto alla luce.
Guido Gozzano nasce il 19 dicembre 1883 a Torino, in Via Bertolotti 3, vicino a Piazza Solferino. È poeta e scrittore ed il suo nome è associato al Crepuscolarismo – di cui è il massimo esponente – all’interno della corrente letteraria del Decadentismo. Inizialmente si dedica all’emulazione della poesia dannunziana, in seguito, anche per l’influenza della pascoliana predilezione per le piccole cose e l’umile realtà campestre, e soprattutto attratto da poeti stranieri come Maeterlinck e Rodenback, si avvicina alla cerchia dei poeti intimisti, poi denominati “crepuscolari”, amanti di una dizione quasi a mezza voce. Gozzano muore assai giovane, a soli trentadue anni, a causa di quello che una volta era definito “mal sottile”, ossia la tubercolosi polmonare. Per questo motivo Guido alterna alla elegante vita torinese soggiorni al mare, alla ricerca di aria più mite, (“tentare cieli più tersi”), soprattutto in Liguria, Nervi, Rapallo, San Remo, e anche in montagna. Un estremo tentativo di cura di tale malattia porta Guido a intraprendere nel 1912, tra febbraio e aprile, un viaggio in India, nella speranza che il clima di quel Paese possa migliorare la sua situazione, pur nella triste consapevolezza dell’inevitabile fine (“Viaggio per fuggire altro viaggio”): il soggiorno non migliora la sua salute, ma lo porta a scrivere molto.

Al ritorno redige su vari giornali, tra cui La Stampa di Torino, alcuni testi in prosa dedicati al viaggio recente, che verranno poi pubblicati postumi nel volume “Verso la cuna del mondo” (1917). A parte l’ampio poema in endecasillabi sciolti, le “Farfalle”, essenziali per comprendere la nuova poesia di Gozzano sono le raccolte di versi “La via del rifugio” (1907) e “I colloqui” (1911), il suo libro più importante. Questo è composto da ventiquattro componimenti in metri diversi, legati tra loro da una comune tematica e da un ritmo narrativo colloquiale, con, sullo sfondo, un giovanile desiderio di felicità e di amore e una struggente velatura romantica. Intanto il poeta scopre la presenza quotidiana della malattia (“mio cuore monello giocondo che ride pur anco nel pianto”), della incomunicabilità amorosa, della malinconia. Egli ama ormai le vite appartate, le stampe d’altri tempi, gli interni casalinghi, ma, dopo aver esaltato le patetiche suppellettili del “salotto buono” piccolo borghese di nonna Speranza con “i fiori in cornice e le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalla campana di vetro”, non esita a definirle “buone cose di pessimo gusto”. Di contro al poeta vate dannunziano, all’attivismo, alla mitologia dei superuomini e delle donne fatali, egli oppone la banale ovvietà quotidiana, alla donna-dea oppone “cuoche”, “crestaie” (“sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), alla donna intellettuale contrappone una donna di campagna (“sei quasi brutta, priva di lusinga/ …e gli occhi fermi e l’iridi sincere/, azzurre d’un azzurro di stoviglia”). Si tratta di Felicita che, con la sua dimessa “faccia buona e casalinga” , gli è parsa, almeno per un momento, l’unico mezzo per riscattarsi dalla complicazione estetizzante.

Eppure non vi è adesione a questo mondo, mondo creato e nel contempo dissolto, visto in controluce con la consapevolezza che a quel rifugio di ingenuità provinciale il poeta non sa ne può aderire e, tra sorriso, affetto e vigile disposizione ironica, si atteggia a “buon sentimentale giovane romantico”, per aggiungere subito dopo: “quello che fingo d’essere e non sono”.
Oltre che per questa nuova e demistificante concezione della poesia, l’importanza di Gozzano è notevole anche sul piano formale: “egli è il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico” (osserva Montale), e che, con sorridente ironia, riesca a far rimare “Nietzscke” con “camicie”. Gozzano piega il linguaggio alto a toni solo apparentemente prosastici. In realtà i moduli stilistici sono estremamente raffinati. E la sua implacabile ironia non è altro che una difesa dal rischio del sentimentalismo. La consapevolezza ironica abbraccia tutto il suo mondo poetico, le sue parole, i suoi atteggiamenti, i suoi gesti.

Avviciniamoci ancor di più al letteratissimo poeta torinese disincantato e amabile, e cerchiamo di approfondire il suo contesto familiare. Guido nasce da una buona famiglia borghese.
Il Dottor Carlo Gozzano, nonno di Guido, amico di Massimo D’Azeglio, appassionato di letteratura romantica del suo tempo, presta servizio come medico nella guerra di Crimea. Carlo Gozzano, borghese benestante, possiede ampie terre nel Canavese. Il figlio di Carlo, Fausto, ingegnere, porta avanti la costruzione della ferrovia canavesana che congiunge Torino con le Valli del Canavese. Fausto si sposa due volte, dalla prima moglie ha cinque figli; dopo la morte della prima consorte, Fausto incontra nel 1877 la bella diciannovenne alladiese Diodata Mautino, che sposa e dalla quale ha altri figli, tra cui Guido. La donna ha un temperamento d’artista, ama il teatro e si diletta nella recitazione, ed è altresì la figlia del senatore Massimo, un ricco possidente terriero, proprietario della villa del Meleto, ad Agliè (la villa prediletta dal poeta).

Guido frequenta dapprima la scuola elementare dei Barnabiti, poi la «Cesare Balbo», avvalendosi anche dell’aiuto di un’insegnante privata, poiché il piccolo scolaro è tutt’altro che ligio al dovere.
Da ragazzo viene iscritto nel 1895 al Ginnasio-Liceo Classico Cavour di Torino, ma la sua svogliatezza non lo abbandona, egli viene bocciato e mandato a recuperare in un collegio di Chivasso; ritorna a studiare nella sua Torino nel 1898, poco tempo prima della morte del padre, avvenuta nel 1900 a causa di una polmonite. Le difficoltà scolastiche del futuro poeta lo costringono a cambiare scuola ancora due volte, finché nel 1903 consegue finalmente la maturità al Collegio Nazionale di Savigliano. Le vicissitudini tribolanti degli anni liceali sono ben raccontate da Guido all’amico e compagno di scuola Ettore Colla, scritti in cui si evince che il giovane è decisamente più interessato alle “monellerie” che allo studio.

Nel 1903 vengono anche pubblicati sulla rivista torinese “Il venerdì della Contessa” alcuni versi di Gozzano, di stampo decisamente dannunziano (qualche anno dopo, in un componimento del 1907 “L’altro” il poeta ringrazia Dio che – dichiara – avrebbe potuto “invece che farmi Gozzano /un po’ scimunito ma greggio / farmi gabrieldannunziano /sarebbe stato ben peggio!”). Guido si iscrive poi alla Facoltà di Legge, ma nella realtà dei fatti frequenta quasi esclusivamente i corsi di letteratura di Arturo Graf. Il Professore fa parte del circolo “Società della cultura”, la cui sede si trovava nella Galleria Nazionale di via Roma, (poi spostatosi in via Cesare Battisti); anche il giovane Gozzano entra nel gruppo. Tra i frequentatori di tale Società, nata con lo scopo di far conoscere le pubblicazioni letterarie più recenti, di presentarle in sale di lettura o durante le conferenze, vi sono il critico letterario e direttore della Galleria d’Arte Moderna Enrico Thovez, gli scrittori Massimo Bontempelli, Giovanni Cena, Francesco Pastonchi, Ernesto Ragazzoni, Carola Prosperi, il filologo Gustavo Balsamo Crivelli e i professori Zino Zini e Achille Loria; anche Pirandello vi farà qualche comparsa. Nell’immediato dopoguerra vi parteciperanno Piero Gobetti, Lionello Venturi e Felice Casorati.

Gozzano diviene il capo di una “matta brigada” di giovani, secondo quanto riportato dall’amico e giornalista Mario Bassi, formata tra gli altri dai letterati Carlo Calcaterra, Salvator Gotta, Attilio Momigliano, Carlo Vallini, Mario Dogliotti divenuto poi Padre Silvestro, benedettino a Subiaco e dal giornalista Mario Vugliano.
Va tuttavia ricordato che per Guido quel circolo è soprattutto occasione di conoscenze che gli torneranno utili per la promozione dei suoi versi, egli stesso così dice “La Cultura! quando me ne parli, sento l’odore di certe fogne squartate per i restauri”. Con il passare del tempo, matura lentamente in lui una più attenta considerazione dei valori poetici della scrittura, anche grazie (ma non solo) allo studio dei moderni poeti francesi e belgi, come Francis Jammes, Maurice Maeterlinck, Jules Laforgue, Georges Rodenbach e Sully Prudhomme.
Da ricordare è anche la tormentata vicenda amorosa (1907-1909) tra Gozzano e la nota poetessa Amalia Guglielminetti, una storia destinata alla consunzione, caratterizzata da momenti di estrema tenerezza e molti altri di pena e dolore.

Ma torniamo a Torino, la sua città natale, la amata Torino, che è sempre nei suoi pensieri: “la metà di me stesso in te rimane/ e mi ritrovo ad ogni mio ritorno”. Torino raccoglie tutti i suoi ricordi più mesti, ma è anche l’ambiente concreto ed umano al quale egli sente di appartenere. Accanto alla Torino a lui contemporanea, (“le dritte vie corrusche di rotaie”), appare nei suoi scritti una Torino dei tempi antichi, un po’ polverosa che suscita nel poeta accenti lirici carichi di nostalgia. “Non soffre. Ama quel mondo senza raggio/ di bellezza, ove cosa di trastullo/ è l’Arte. Ama quei modi e quel linguaggio/ e quell’ambiente sconsolato e brullo.” Con tali parole malinconiche Gozzano parla di Torino, e richiama alla memoria “certi salotti/ beoti assai, pettegoli, bigotti” che tuttavia sono cari al per sempre giovane scrittore. “Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca/ tuttavia d’un tal garbo parigino”, questa è la Torino di Gozzano, e mentre lui scrive è facile immaginare il Po che scorre, i bei palazzi del Lungo Po che si specchiano nell’acqua in movimento, la Mole che svetta su un cielo che difficilmente è di un azzurro limpido.
Il poeta fa riferimento alle “sere torinesi” e descrive così il momento che lui preferisce, il tramonto, quando la città diventa una “stampa antica bavarese”, il cielo si colora e le montagne si tingono di rosso, (“Da Palazzo Madama al Valentino /ardono l’Alpi tra le nubi accese”), e pare di vederlo il “nostro” poeta, mentre si aggira per le vie affollate di dame con pellicce e cappelli eleganti, e intanto il giorno volge al termine e tutti fanno ritorno a casa.

Gozzano, da buon torinese, conosce bene la “sua” e la “nostra” Torino, di modeste dimensioni per essere una grande metropoli, e troppo caotica per chi è abituato ai paesi della cintura, un po’ barocca, un po’ liberty e un po’ moderna, stupisce sempre gli “stranieri” per i “controviali” e i modi di dire. Torino è un po’ grigia ed elegante, per le vie del centro c’è un costante vociare, ma è più un chiacchiericcio da sala da the che un brusio da centro commerciale, è piccola ma a grandezza d’uomo, Torino è una cartolina antica che prova a modernizzarsi, è un continuo “memorandum” alla grandezza che l’ha contraddistinta un tempo e che, forse, non c’è più. Di Torino è impossibile non innamorarsi ma è altrettanto difficile viverci, e, se uno proprio non se ne vuole andare, c’è solo una cosa che può fare, prestare attenzione alla sua Maschera: “Evviva i bôgianen… Sì, dici bene,/o mio savio Gianduia ridarello!/ Buona è la vita senza foga, bello/ godere di cose piccole e serene…/A l’è questiôn d’ nen piessla… Dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello!…”

Alessia Cagnotto

Renzo Rolando, omaggio alla natura morta

A Casale Monferrato, un singolare omaggio alla natura morta attraverso la personale di Renzo Rolando, versatile artista, pittore, restauratore di affreschi, autore di meridiane e di libri che, con documenti e fotografie del passato, riportano in vita personaggi, artisti, monumenti, chiese, vecchie osterie e botteghe, tutto un mondo suggestivo ormai scomparso ed ancora rimpianto.

GRB