CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 271

“Note” e “voci” dal territorio al Forte di Bard

“Bard Fest”, ospite d’eccezione il cantautore spagnolo Tonino Carotone

Venerdì 7 luglio

Bard (aosta)

Fra gli appuntamenti inediti di “Estate al Forte di Bard 2023”, quello con “Bard Fest”, in programma per venerdì 7 luglio, nasce come evento (da non perdere per gli appassionati di musica a “largo spettro”) volto a dare spazio e palco a gruppi, dj e musicisti della Vallée e del vicino Canavese.

Undici, fra artisti e gruppi, si alterneranno, a partire dalle 18, nelle piazze d’Armi e Gola, sotto il coordinamento artistico di Paolo Passanante, per arrivare alle 22 con il concerto del cantautore spagnolo Tonino Carotone, che a Bard porta il suo ultimo “Etiliko Romantiko”. La serata sarà presentata da Andrea Balestrieri. Biglietto unico 10 euro; gratuità 0 – 18 anni.

Ad esibirsi per primi in piazza d’Armi saranno i cinque componenti (alla voce Antonella Berlier) de “Le Bistrot des Nuages”, interpreti solo e unicamente di musica francese, canzoni storiche – che hanno comunque ispirato anche la canzone italiana, quella di Fabrizio De André su tutte, nata sotto il mito di George Brassens – e non di rado rivisitate in quella chiave swing e manouche propria del grande chitarrista francese Django Rheinardt che, partendo dal musette, approdò al gipsy jazz. A seguire andranno ad esibirsi i “Discovers”, “Bisanzio”, “Antico Sem”, “Voodoo Lake”,“Regione Trucco” e la giovane aostana Helen Aria, al suo attivo già alcuni album, l’ultimo “Proxima Centauri” del 2022 (Prod. Momo Riva).

In piazza di Gola, si potrà invece assistere alle esibizioni di “Dj set by Armando Martellini e Bob Sinisi”, “Sara & The Fab Hamsters” e “Thar Na Mara”.

Ospite d’eccezione, come detto, l’artista basco di Burgos (Castiglia e Leòn) Tonino Carotone(al secolo Antonio De La Cuesta), con il suo ultimo “Etiliko Romantiko” (15 brani, cantati in italiano, spagnolo, inglese, francese e greco) in cui il cantautore celebra il suo amore per l’Italia e per i Paesi del Mediterraneo in generale, oltre ad evidenziare la sua devozione per la vita e la propria vicinanza agli “ultimi”, ideale da sempre condiviso con il suo grande amico Don Gallo. I suoi miti musicali: Fred Buscaglione (per il look, in particolare) e Renato Carosone, da cui deriva il nome d’arte e con cui ha avuto l’onore di incidere un’ indimenticabile versione di “Tu vuò fa l’americano”. Carotone arriva in Italia per la prima volta nel 1995 ma raggiunge successo e grande pubblico solo nel 2000 con l’album “Mondo difficile” che diventa subito “Disco d’Oro”. Nel 2017 viene battezzato “Cittadino romagnolo nel Mondo” dalla famiglia Casadei per l’interpretazione in spagnolo del celebre successo “Romagna Mia”. Nel novembre del 2021 pubblica per “Maninalto!” “Whisky Facile” l’album tributo al suo grande idolo Fred Buscaglione, in occasione delle celebrazioni per i suoi 100 anni dalla nascita ( Torino, 23 novembre 1921). L’anno seguente lo ritroviamo nel disco degli “Africa Unite”cantando il brano “Tuyo”, colonna sonora della fortunata serie Tv “Narcos” prodotta da “Netflix”.

g.m.

Per info: “Forte di Bard”, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125 833811 o www.fortedibard.it

Nelle foto:

–       Tonino Carotone

–       Helen Aria

–       “Le Bistrot des Nuages”

Sicily in Decay, le fotografie di Carlo Arancio

Intervista di Laura Goria

Avventurarsi in palazzi abbandonati e scrostati dall’incuria, contrastare l’inesorabile incombere del tempo fermando in immagini quello che sopravvive, raccontare emozioni e fascino.

E’ quello che fa Carlo Arancio, giovane prodigio siciliano, nato a Catania il 20 marzo 1992, studi di architettura, fotografo di sensibilità e talento, esploratore dell’anima di edifici lasciati a se stessi.

Immortala tracce di fasti e vite passate, entra con passo felpato nei mille misteri appannati dall’abbandono.

Ed è talmente bravo che ha vinto gli ND Awards 2020, contest internazionale, come migliore fotografo non professionista nella sezione architettura d’interni.

Se visitate la sua pagina social Sicily_ in_ Decay… scoprirete la bellezza, la magia e il significato più profondo delle magnifiche foto che scatta in ville, chiese e palazzi fatiscenti.

Il passo successivo è scorrere il volume della sua prima mostra personale a Catania “Sicily in Decay. Serie Biscari e serie Scammacca”.

Libro pregiato che raccoglie gli scatti dell’allestimento aperto al pubblico dal dicembre 2020 ad aprile 2021 in due location poco distanti una dall’altra. A Palazzo Biscari nella parte adibita a co-working e nel piano nobile di Palazzo Scammacca, luogo restaurato dopo anni di decadenza ed ora aperto al pubblico come spazio espositivo.

Il libro è acquistabile sul suo sito e…istruzioni per l’uso… va consultato ripetutamente, con calma, scoprendo ogni volta qualche dettaglio in più. Perché, come ci ha raccontato, il suo non è semplicemente addentrarsi in luoghi massacrati dall’incuria.

 

Definirla urbex, dalla fusione di urban ed exploration, è corretto?

Il termine va preso con le molle perché è un calderone enorme che include più attività. C’è chi come me fa ricerca seria, con professionalità e rispetto dei luoghi.

Ma urbex sono anche gli youtuber e alcuni di loro riprendono con i video, senza alcun rispetto. Inseguono la visibilità, scambiano indirizzi come fossero figurine dei calciatori e non considerano che rivelare l’ubicazione di quei luoghi così fragili apre la strada a tutti, con conseguenze devastanti.

Urbex è pure chi fa graffiti nelle fabbriche, chi si arrampica ovunque per il brivido dell’altezza, chi va a caccia di fantasmi con attrezzature da ghostbusters.

Tutte attività dalle quali prendo le distanze.

Perché proprio gli edifici abbandonati?

Intorno ai 15-16 anni mi intrufolavo in una villa, per me rimasta la più bella e insuperabile. Amavo passeggiare nelle sale, guardare le pitture virtuosissime, colorate e decadenti. Mi piaceva stare lì da solo, percepirne l’atmosfera, pensare al senso del tempo e alla bellezza dell’edificio. Crescendo poi la passione per l’architettura e la storia della mia isola hanno determinato la scelta dell’università.

L’idea di fotografarli quando è nata? E perché non dipingerli o scriverne?

Parecchi anni dopo ho rivisitato quella villa in seguito a un terremoto: oltre la metà delle sale era crollata. Rimasi malissimo anche perché alcune non le ricordavo bene. Da quel momento ho iniziato a fotografarle, dapprima col telefonino, come appunto visivo; a volte facevo anche dei disegni, piccoli rilievi dimensionali dell’edificio, annotavo curiosità.

La fotografia cristallizza un attimo, un luogo, ed è un modo giusto di rappresentare il tutto. Preferisco le inquadrature grandangolari per racchiudere in un’immagine sola l’identità di un ambiente. La foto è più veritiera del disegno; più discreta di un video dove si può lasciare trapelare troppo. Voglio che i luoghi che racconto restino anonimi più possibile. Io ho intenti buoni; altre persone invece li cercano per depredarli o vandalizzarli.

Il suo incontro con la macchina fotografica?

Studiavo in Francia e fotografavo ancora con il telefono; c’era l’idea di acquistarne una e mi servivano soprattutto delle lenti grandangolari da usare per l’architettura. Le trovai a prezzo vantaggioso su una bancarella a Barcellona dove ero per uno scambio culturale tra università, le comprai senza neanche avere una Reflex. La settimana dopo lavorai con una fotografa francese che alla fine mi regalò una delle sue 3 macchine, vecchia di una quindicina di anni, ma con l’attacco per la lente che avevo. E’ da allora che non mi sono più separato da una macchina fotografica.

Ricorda la sua prima emozione? Da allora sono sempre le stesse, oppure è diverso?

La prima fu di grande stupore: a bocca aperta, col naso all’insù, guardando le volte dipinte. Emozioni che ho provato altre volte e in altri luoghi: perdere un po’ il senso del tempo, passare tantissime ore in quei luoghi e quasi non accorgersene.

Ogni luogo ha il suo carattere, la sua intimità, non c’è una risposta generica. Alcuni mi hanno emozionato anche se privi di interesse fotografico; altri bellissimi, mi hanno toccato poco.

Lei vanta collaborazioni prestigiose con fotografi famosi, ce le racconta?

La più importante è stata con Thomas Jorion, fotografo francese che scatta con un banco ottico e fa quello che faccio io ma in maniera molto più complessa. Dopo un servizio sul mio lavoro nel Tg nazionale, mi ha cercato in facoltà e chiesto di collaborare con lui. Di solito non si regala il proprio lavoro di ricerca; ma in questo caso ho riconosciuto la sua grande professionalità e bravura. E’ stato uno scambio quasi equo perché grazie alla sua notorietà abbiamo ottenuto autorizzazioni per accedere a luoghi che mi erano stati negati.

Cosa ha imparato da lui?

Insieme siamo entrati in più di una quindicina di edifici ed è stato molto formativo osservarlo fotografare; ha un’attrezzatura complicatissima, ma che permette la miglior resa possibile. Scatta con un banco ottico, una fotografia di altri tempi, utilizzando delle lastre su cui poi resta impressa l’immagine. L’ho studiato sperando di apprendere e ho imparato un bel po’ di cose.

C’è un criterio in base al quale sceglie le sue destinazioni oggi?

Occorre un notevole studio sul territorio. Cerco luoghi che abbiano un pregio artistico, una bellezza fragile di cui custodire memoria. Non sempre è facile giudicare dalla copertina. Per esempio in Sicilia la pittura non era solo nelle case dei nobili, ma anche in quelle borghesi e addirittura in qualche masseria che sembra non avere alcun valore, ma in realtà può nascondere un dipinto importante all’interno. Difficile sapere prima di un sopralluogo quello che si troverà.

Le è capitato di entrare in immobili che poi ha deciso di non fotografare?

Tantissime volte: i primi tempi fotografavo molti palmenti, vasche e botti usate per il vino che erano specchio della cultura locale. Poi ho smesso perché erano troppi. Se invece ci sono pitture pregiate condannate dallo scorrere del tempo mi premuro di fotografarle prima possibile.

Il suo principale campo di azione è la Sicilia, quanto è forte il legame con la sua terra?

Molto profondo, anche se dolce-amaro, e credo che la chiamata sia legata alla mia isola. Ho fotografato altri luoghi nel resto di Italia, in Francia, Belgio e Spagna, ma raramente pubblico quelle immagini perché lì è una tipologia di ricerca fotografica già sviluppata da circa 30 anni. Spesso sai prima cosa trovi ed è più una visita quasi turistica. Invece quando racconto luoghi scoperti ex novo da me dal punto di vista fotografico è molto più emozionante.

Mi appassiona di più una masseria vuota con 4 stucchi e 2 pitture che raccontano l’identità della mia terra. Amo i materiali come la pietra, lavica o arenaria, il legno; parlano il linguaggio della mia anima, anche se meno pregiati di boiserie e ferro battuto di uno Château francese abbandonato.

In Sicilia quanto è forte la sensibilità per queste meraviglie?

Argomento delicato, difficile generalizzare. Il patrimonio Siciliano è immenso, per fotografarlo tutto non basterà una vita. In alcune provincie la sensibilità è maggiore e nascono associazioni per tutelare i luoghi, in altre sono totalmente abbandonati. Determinante è il contesto in cui si trovano. Una masseria decorata e con una bella storia, ma spersa nel nulla, priva di impianti di urbanizzazione primaria e difficilmente raggiungibile in macchina, aveva senso nella sua epoca storica, oggi non più. Molti di questi edifici erano costruiti a scopo di rappresentanza sul territorio del potere della famiglia, che vi abitava stagionalmente. Oggi i costi per mantenerli sono proibitivi.

Quanti immobili abbandonati ha visitato e fotografato? In quanti conta di avventurarsi ancora?

Non sono neanche a un terzo dell’opera, molti più di 500. Spesso sono inaccessibili e per le autorizzazioni occorrono anni. C’è un palazzo bellissimo che sognavo di fotografare senza mai averne ottenuto l’autorizzazione. Ora è crollato e sono riuscito ad entrare da una breccia nel muro, ma non resta assolutamente nulla. Non arrivare in tempo mi fa stare male, però ho dovuto accettare che anche questi luoghi abbiano un triste destino. Mi arrabbio di più quando sono in centri dove potrebbero rinascere.

Predilige alcune case? E su quali dettagli tende a soffermarsi di più?

Non ho una propensione particolare per alcuni edifici rispetto ad altri, però preferisco certi elementi architettonici e ho quasi un feticismo per le alcove. Poi per le stanze di rappresentanza, saloni e sale da pranzo. C’era l’usanza di disegnare piccole vedute, di fantasia oppure reali e legate ai viaggi fatti dalla famiglia. In una villa i proprietari avevano avuto rapporti commerciali con Roma e sopravvivono vedute della città eterna, ed è riconoscibile Castel Sant’Angelo.

I mobili in Sicilia sono più difficili da trovare, spesso sono stati saccheggiati molto prima del mio arrivo; a meno che gli edifici non siano in luoghi difficilmente raggiungibili e sia impossibile un trasloco illecito.

Quando entra, per esempio in una villa nobiliare, immagina il passato e l’anima di quel luogo? Le vite che quelle mura potrebbero raccontare: nascite, liti, amori, tradimenti, morti….?

Certo e quando è possibile faccio anche ricerche, informandomi se c’è una letteratura al riguardo, parlando con la gente del luogo, sulla storia della nascita e della vita di quell’edificio, considerando che spesso la parte finale sono io a raccontarla attraverso le immagini. Tutto quello che c’è prima è un lavoro di ricerca e anche di sensazioni.

Cosa le suggerisce il senso di precarietà di grandi fortune poi crollate come i palazzi?

A volte mi sento piccolo come una formichina di passaggio, perché i tempi dell’uomo sono minuscoli riferiti a quelli dell’architettura che svela anche le storie dei vari gattopardi.

Famiglie nobiliari siciliane che per generazioni hanno gestito potere e patrimoni immensi, poi si sono frammentate.

Recentemente ho fotografato un edificio legato alla famiglia di Giovanni Verga. Nella piazza del paese questo palazzo blasonato è superato in altezza da quello degli imprenditori che si sono arricchiti commerciando i beni che la famiglia nobile produceva. Il confronto tra le due proprietà, con la seconda che sottolinea la sua superiorità, racconta perfettamente le svolte della storia, della società e le alterne fortune. Osservando l’architettura si può scoprire la storia del luogo.

Oggi le saghe familiari incantano, ha mai pensato di raccontare il passato di quello che fotografa anche con le parole?

Si e ci sto lavorando. Attraverso i lasciti architettonici dei patrimoni ho fatto una cernita di edifici che si prestano a raccontare la storia di famiglie che hanno fatto la storia dell’isola. C’è anche la prima dimora dei Florio di cui nel catalogo mostro un’alcova. Sto seguendo il cantiere di restauro dell’edificio, fatto rispettandone la natura e senza badare a spese, lasciandone intatte l’identità e la storia. Dietro le pitture ho potuto scoprire che c’è molto altro da raccontare, ma non anticipo di più.

Il suo lavoro può essere letto anche come una sorta di denuncia contro l’abbandono; è capitato che abbia sortito effetti positivi e richiamato maggiore attenzione?

Argomento delicato. Fotografo sempre in modo anonimo, proprio per tutelare i luoghi che scopro. Ma può anche accadere come durante la mostra a Catania dove si è presentato il proprietario di un immobile che avevo ritratto. Era stato vandalizzato con graffiti in acrilico che impediscono il recupero dell’originaria pittura a tempera, e lui voleva utilizzare le mie foto per un restauro coerente. E’ stata una della mie soddisfazioni più grandi.

Quando entra in questi edifici, oltre a curiosità e rispetto, vive altri stati d’animo?

Anche la paura è un elemento presente; da non sottovalutare ma sfruttare per essere più possibile discreti e prendere le opportune precauzioni. Come valutare lo stato dei solai per il rischio di crolli. Alcuni luoghi poi sono terreno fertile per dinamiche poco legali, dove è bene non trovarsi: il classico posto sbagliato al momento sbagliato. Bisogna fare sempre molta attenzione.

Non credo ai fantasmi, ma penso che le case abbiano una sorta di anima, tracce invisibili di chi ci ha vissuto…lei che ne pensa?

Più che altro una sorta di energia. Ci sono luoghi in cui ho avvertito quasi un invito a fotografarli, non dico mi stessero aspettando, però si prestavano. Altri, invece, tra difficoltà di luce o semplicemente per sensazioni, ho scelto di non raccontarli. Da un lato mi piace pensare che fossero proprio loro a non voler essere fotografati. Per esempio, ho esplorato un edificio dal vissuto molto pesante: un orfanotrofio dove c’è una cappella nella quale, stranamente, e non sono l’unico a cui è capitato, è quasi impossibile fare foto decenti. Ecco un luogo respingente che secondo me non vuole essere raccontato e lo dice a gran voce.

 

L’ iter corretto da seguire per accedere agli edifici, anche in quelli che non hanno più proprietari?

Un’attività fotografica del genere è sul filo del limes tra legale e illegale; è anche vero che se si è rispettosi e si mostra la migliore delle intenzioni è difficile avere problemi. Se possibile è meglio avere un’autorizzazione; perché anche quando il bene è totalmente abbandonato da decenni, sulla carta esiste sempre una proprietà. Nel mio lavoro poi esistono attenuanti, come la mancanza di recinzioni o cartelli di proprietà privata. Dal punto di vista legale se mai dovesse cadermi una tegola in testa, teoricamente la colpa è anche del proprietario che non ha messo in sicurezza il bene. Bisogna essere accorti perché si sta entrando in una proprietà che non è di tutti.

Dovesse raccontarsi …chi è Carlo Arancio?

Una persona curiosa alla quale piace andare al di là delle superfici. Amo i segni del tempo, li ricerco, e non solo perché per me l’architettura è un’arte che si nutre di tutte le altre. Raccontare questi luoghi è anche rappresentare il meglio del lato umano dal punto della produzione artistica.

Quando non esplora e fotografa cosa ama fare: i suoi interessi, hobby?

In realtà la mia attività mi totalizza, un po’ una missione di vita. Il cibo della mia anima.

Le difficoltà maggiori incontrate nel suo cammino professionale?

Ho faticato nel proporre le mie esposizioni proprio in Sicilia dove c’è un certo disinteresse e non mi si prendeva sul serio. Ora ho notato che chi acquista una mia fotografia ha una certa sensibilità ma, a parte le dovute eccezioni, generalmente non è siciliano, o è un architetto.

Lei è giovanissimo, tra 30 anni dove e come si immagina?

Sognando vorrei comprare un giorno una villa di quelle che fotografo, trasformarla in residenza e luogo per eventi culturali. A chiamarmi è soprattutto la fotografia di architettura: quella dell’abbandono mi tocca più nel profondo dell’anima, però mi piace anche quando è viva e ben tenuta. Ho un archivio di palazzi bellissimi, non lasciati a se stessi, ed è un onore poterli raccontare

Mi piacerebbe anche vivere all’estero, magari in Francia paese che amo. Con le mie foto vorrei sempre essere un po’ ambasciatore della cultura siciliana, portarla oltreconfine.

Cose per cui vale la pena fare il suo lavoro?

Gli incontri: quando c’è passione e serietà il mio lavoro avvicina persone di sensibilità simile, crea legami e amicizie bellissime con persone affini. Poi è senza prezzo vedere chi si emoziona davanti a una mia foto. Il ritorno più bello è quello umano.

L’edificio che desidera visitare più di ogni altro e non necessariamente in Sicilia?

Soprattutto due per i quali è impossibile ottenere le autorizzazioni. Uno è siciliano, chiuso e guardianato, con all’interno tesori meravigliosi. L’altro è in Toscana, il castello di Sammezzano, credo unico al mondo. E’ l’opera di un nobile che ha speso tutta la vita per costruire questa reggia infinita, in stile moresco, con sale decorate in modo incredibile. Un luogo che mi fa sognare. Va spesso all’asta ma, per l’enorme impegno economico che richiederebbe, sono sempre deserte.

Cosa non ho chiesto ma le preme dire?

In Sicilia l’attività di esplorazione dei luoghi abbandonati non è ancora massificata come in Francia e Belgio, culle di questa pratica. Ma è bene non lasciarsi prendere dalla febbre dell’esplorazione; ci sono limiti da non superare mai, come sfondare una porta chiusa. Una volta che si sottraggono questi luoghi all’oblio, li si espone a rischi, a dinamiche errate e rovinose.

Al momento a cosa sta lavorando?

A San Vito Lo Capo sto esponendo in uno spazio un po’ atipico: una casa di pescatori, mantenuta decadente, trasformata in enoteca, arredata con gli oggetti dei pescatori che erano al suo interno.

 

Per scoprire il lavoro di Carlo Arancio e il libro potete consultare il sito

www.sicilyindecay.com

 

Per le foto al Winners Awards 2020 il link del Contest:

https://ndawards.net/winners-gallery/nd-awards-2020/non-professional/interior/812/gold-award/

A Quaglieni il premio letterario Casentino

Un prezioso e meritato riconoscimento per lo storico e scrittore Pier Franco Quaglieni, fondatore e direttore del Centro Pannunzio e firma de “il Torinese”. Il libro La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni di Quaglieni ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria alla 48° edizione del Premio Letterario Casentino per la sezione saggistica edita.
La premiazione avverrà domenica 23 luglio alle ore 10 nell’Abbazia di San Fedele in Poppi (AR)
Tutti i dettagli sul sito del Centro Culturale Fonte Aretusa: https://www.fontearetusa.it/

 

Art Nouveau Week  tra Torino e Biella

Giunta alla quinta edizione e quest’anno presente a Torino con un ricco e vario programma di
appuntamenti, Art Nouveau Week 2023 si prepara ad accogliere centinaia di partecipanti iscritti alle
dieci iniziative previste nel capoluogo subalpino e ai due inconsueti itinerari guidati in programma a
Biella, che per la prima volta partecipa alla manifestazione internazionale ideata e curata dal
presidente di Italia Liberty, Andrea Speziali, e organizzata dal suo staff dall’8 al 14 luglio di ogni
anno.

L’edizione torinese si avvale del Patrocinio della Città di Torino e della collaborazione con il
Conservatorio Statale di Musica “G. Verdi”, il Centro Culturale “M. Pannunzio”, la Fondazione “T.
di Barolo” – MUSLI e Daniela Piazza Editore. Mentre quella biellese si avvale del Patrocinio della
Città di Biella e della collaborazione con l’Archivio di Stato di Biella, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Biella e il DocBi – Centro Studi Biellesi.

Da tempo sono esauriti i posti per la conferenza-concerto inaugurale di pianoforte e arpa su note Art
Nouveau che si terrà l’8 luglio presso il Conservatorio Statale “G. Verdi” di Torino, dove gli
intervenuti avranno anche il privilegio di visitare la straordinaria Galleria degli Strumenti, prezioso
documento della vita musicale della Città e della storia del Conservatorio. La collezione conta 156
esemplari firmati da grandi nomi della liuteria piemontese e celebri costruttori di strumenti a fiato
subalpini e, tra i suoi molti gioielli, vanta lo Stradivari Mond del 1709 appartenuto alla celeberrima
violinista torinese Teresina Tua, educatasi al Conservatorio di Parigi, vincitrice a quattordici anni del
Grand Prix bandito nella capitale francese, elogiata da Verdi, Liszt e Wagner, insegnante presso
l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, acclamata nei maggiori templi della musica europei e
newyorchesi e deceduta a novant’anni come suor Maria del Gesù.


Complice l’anima proteiforme e marcatamente interdisciplinare dell’affascinante corrente di gusto
che in Italia chiamiamo Liberty, le edizioni subalpina e biellese dell’imminente settimana dell’Art
Nouveau concentreranno infatti la loro attenzione su tutte le arti con digressioni, in gran parte inedite,
fra coinvolgenti storie di persone – committenti, progettisti, artisti, maestri artigiani o semplici fruitori
– restituite attraverso puntuali ricerche documentali, così da tracciare un connotante e parallelo fil
rouge che caratterizza tutte le iniziative.

Le storie di persone e famiglie sono tema imprescindibile quando si tratta della città silente nel
Cimitero Monumentale di Torino, divenuta nell’arco di pochi decenni vero e proprio spazio
espositivo di opere d’arte e, via via, autentico e vasto museo a cielo aperto, visitato durante le
ricorrenze autunnali come occasione per scoprire la più recente produzione scultorea. Quale stile
specifico e caratteristico della borghesia tardo-ottocentesca e veicolo figurativo privilegiato delle sue
fortune e della sua affermazione come classe dominante, il Liberty ha infatti trovato applicazione
elettiva nei luoghi e nei monumenti che appunto rappresentavano o intendevano simboleggiare ruolo
e destini di questa stessa borghesia, con un’accentuazione dei suoi tratti espressivi nei grandi cimiteri
urbani. Tale fenomeno toccò nel profondo anche Biella e soprattutto Oropa e Rosazza, questi due
ultimi suggestivi cimiteri-giardino, che saranno meta di futuri itinerari volti all’ulteriore scoperta del
Liberty nel capoluogo e nelle valli biellesi.

Circostanza non trascurabile, sia a Torino che nel biellese, protagonista delle svolte stilistico-culturali,
rispettivamente in direzione simbolista d’intonazione spiritualista e floreale in sintonia con la teoria
delle correspondances, è stato Leonardo Bistolfi, casalese di nascita, formatosi tra Brera e l’Albertina,
che esordì nella scultura cimiteriale subalpina con un intenso Angelo della morte a tutto tondo, in
primo piano, che personifica la riflessione sul mistero dell’estremo commiato dall’esistenza terrena,
e sullo sfondo una culla vuota, quasi a “stiacciato”, pressoché impercettibile incipit della dolorosa
narrazione.

Poco dopo, negli anni Novanta, Bistolfi convalidò una produzione che reca una particolare
componente pittorico-floreale destinata, con la complicità della grafica di analogo ductus, a passare
dalla scultura alla decorazione plastica, a fresco e nel parato per interni. Il già notissimo scultore e
pittore casalese era anche valente violinista e amava trascorrere lunghi periodi di vacanza a
Camburzano, nella villa del famoso soprano Cesira Ferrani, Mimì nella prima della Bohème al Regio
di Torino sotto la bacchetta di Arturo Toscanini, anch’egli assiduo frequentatore del vivace cenacolo
culturale che, allo scadere del secolo, era nato nella bella dimora camburzanese, animato da Lidia,
sorella di Cesira e apprezzata pianista, e dallo zio Luigi Ferraria, compositore e avvocato. Negli stessi
anni sono state numerose le opere plasmate dall’artista casalese per i suoi amici biellesi; non deve
perciò sorprendere la profusione fitomorfica posatasi su decine di costruzioni nel capoluogo e nelle
sue valli, giungendo a connotare soprattutto Casa Ripa a Biella, autentico catalogo di essenze
bistolfiane, distribuite con raffinata eleganza in abile coerenza con la valorizzazione funzionale e
simbolica delle diverse parti dell’edificio, commissionato nel 1906 dall’avv. Paolo Ripa, funzionario
presso la Regia Conciliatura biellese e anche scrittore satirico sul noto settimanale milanese «Il
Guerin Meschino».

È questa un’altra storia che merita di essere raccontata, come quella che, a torto, si presume ormai
scontata della Prima Esposizione internazionale di arte decorativa moderna, allestita nel 1902 a
Torino, che vide il trionfo dell’Art Nouveau. In realtà l’architettura torinese e di alcune vicine località
di villeggiatura aveva già intrapreso la via dell’Arte Nuova al di fuori di questa grande kermesse. Lo
dimostrano, tra gli altri, Riccio e Velati Bellini con Casa Florio in via Bertola, Benazzo con Casa
Tasca in via Beuamont, Dolza con la scuola oggi Istituto Avogadro in corso San Maurizio, Rigotti
con la perduta Palazzina Lavini-Toesca in via Tiepolo, Gribodo con Villa Antonietta a Cozze e lo
prova soprattutto Pietro Fenoglio che aveva espresso la sua originale e altissima interpretazione
dell’Arte Nuova sin dal 1900 nell’ormai snaturata palazzina della Società Finanziaria Industriale
Torinese di via Beaumont. Dopo aver declinato l’incarico nel comitato artistico espositivo,
accampando motivi di salute, Fenoglio giunse a una revisione strutturale dell’architettura nella
palazzina-studio per sé e i fratelli in via Principi d’Acaja, 11. Il maggior vessillifero del Liberty
torinese e i suoi familiari con molta probabilità non abitarono mai in questa casa, subito divenuta
manifesto e pubblicità implicita dell’avanzata progettualità fenogliana e già alienata nel 1904 a
Giorgio Lafleur, come avremo modo di sottolineare quando ne varcheremo la pregevole bussola
d’ingresso durante Art Nouveau Week.

A margine della strada reale di Francia Fenoglio ha così soggettivato con singolare coerenza istanze
di matrice franco-belga, mostrandosi in linea con il più profondo naturalismo Art Nouveau, di cui è
emblematica generazione il serramento ad ali di farfalla, caro ai maestri di Nancy, forse da leggersi
come risposta ai “tedeschizzanti” padiglioni espositivi che Raimondo D’Aronco stava erigendo in
quello stesso 1902 al Valentino. Tra i progettisti e gli intellettuali torinesi era infatti risaputa l’aspra
polemica generata dalla vittoria dell’architetto friulano nel concorso per la regia distributiva e
stilistica degli edifici per l’esposizione, se pure la stampa ufficiale si fosse affrettata a spiegare tale
scelta come opzione di tendenza e decisione di campo tra le due scuole ritenute più originali: «la
belga, illustrata dai nomi del defunto Hankar e del vivente Horta, e l’austriaca, che, sbocciata sotto
l’insegnamento di un illustre architetto, il quale dall’accademismo più puro passò grado grado alla
modernità più libera, fu detta Wagner Schule… A quest’ultima scuola si può riannodare il
D’Aronco», formatosi a Graz e all’Accademia di Venezia e allora impegnato presso la corte di
Costantinopoli, dove si era trasferito nel 1891 come architetto del governo ottomano e personale del
sultano Abdül Hamit II, svolgendo la parte più importante della sua attività progettuale in un paese
crocevia di molteplici esperienze. Non potendo pertanto seguire in modo continuativo i lavori
dell’esposizione torinese, gli furono affiancati il giovane arch. Annibale Rigotti, torinese e autore del
progetto secondo classificato, l’ing. Enrico Bonelli, anch’egli torinese e docente di Meccanica
Industriale al Regio Museo del capoluogo subalpino e il prof. Giovanni Vacchetta, cuneese di nascita
e Professore di Ornato Superiore al Museo Industriale di Torino, tentando in questo modo di supplire
all’assenza di D’Aronco e di contenere le critiche limitando il rischio di eccessiva “tedeschizzazione”
dei padiglioni espositivi. Di fatto, gli edifici effimeri daronchiani erano principalmente ispirati alla
Wagnerschule e all’opera di Olbrich nella colonia da lui fondata a Darmstadt, verso le quali
l’architetto friulano nutriva un’affinità mutuata dall’interesse per l’architettura bizantina e ottomana,
maturata attraverso la conoscenza diretta durante la lunga permanenza a Costantinopoli. Memorie di
Santa Sofia si coniugavano in perfetta armonia con tali istanze, soprattutto nella Rotonda d’onore e
un po’ ovunque nei numerosi padiglioni, dove la sontuosità, la luce, le bucature, le mosse decorazioni
lineari e la cura del dettaglio prezioso emergevano in variazioni raffinatissime.

Chiusa l’esposizione con un buon successo di visitatori, limitati plausi e pesanti strascichi polemici,
proseguì verso D’Aronco l’ostilità di alcune altisonanti voci torinesi, riaffiorata con veemenza quando
nel 1907, rientrato da Costantinopoli, pensò di stabilirsi con la famiglia nel capoluogo subalpino. Sin
dal 1902, egli aveva infatti avviato le trattative per l’acquisto di un terreno di fronte alla Fontana dei
Mesi, sul quale costruire la sua “casetta” che divenne presto una confortevole e funzionale abitazione
con due alloggi e piccolo fabbricato per il custode, edificati “per corrispondenza” come la città
effimera in riva al Po. Mentre proseguiva il suo momento magico di fertilità creativa, Palazzina
Javelli, dal cognome della moglie cuneese Rita, sorgeva semplice e raffinata, connotata da un partito
decorativo che si conclude in pure linee geometriche, da bucature diversificate nel taglio e nella
tipologia a seconda delle diverse destinazioni d’uso e da un linguaggio dei volumi variato in relazione
alle attività al loro interno. In questa palazzina D’Aronco ha quasi mai abitato e oggi, varcandone
l’ingresso, sorprendono l’avanzata modernità del pensiero compositivo, l’elevato pregio di materiali
e manufatti, la cura dei dettagli e l’integrità generale, nonostante la turnazione di proprietari e i
cambiamenti di destinazione d’uso. Al confronto di tanta qualità costruttiva, ancora più stupisce
leggere nelle lettere a Bonelli e a Rigotti, preposti a seguire i lavori di costruzione, la forte e assillante
preoccupazione economica di D’Aronco, che sosteneva di aver sempre fatto «il signore coi soldi
contati», quasi presagendo una morte tra ristrettezze, sofferenza e solitudine.

Ancora altre storie meriterebbero di essere raccontate, fra le quali l’amore non corrisposto di Ernest
Hemingway per Bianca Maria Bellia, incontrata durante una vacanza a Stresa. Era il settembre 1918
e lo scrittore americano giunse presto a Torino per chiedere la mano dell’avvenente diciassettenne,
ma il padre Pier Vincenzo, noto costruttore di molte case Liberty torinesi, oppose un fermo veto,
ispirando così il personaggio del conte Greffi in Addio alle armi.

Programmi: www.italialiberty.it. Iscrizioni e informazioni sul sito di Italia Liberty, allo +39 320 044
5798, o inviando una mail a torino@italialiberty.it oppure a info@italialiberty.it.

Maria Grazia Imarisio

Nelle immagini:
Particolare decorativo di Palazzina Javelli, progettata da Raimondo D’Aronco nel 1903, in via Petrarca 44 a Torino
Particolare del coronamento di Palazzo Ripa, eretto nel 1906 a Biella, in viale Matteotti 14

La neve di Mariupol

Paesi Edizioni è una casa editrice il cui nome ricorda posti di esotici e sperduti. E’ specializzata nelle pubblicazioni internazionali di qualità che “abbracciano idealmente tutti i paesi del mondo”, senza però tralasciare l’Italia. I testi di spaziano dalla saggistica ai romanzi e riviste, con una predilezione per il taglio giornalistico e le tematiche d’attualità. Le proposte di Paesi Edizioni comprendono un vasto settore che va dalla geopolitica alle relazioni internazionali, dallo spionaggio al terrorismo, dall’economia alla finanza, dalla sicurezza alla storia politica, dalla sociologia alle arti. Una vera ricercatezza italiana che abbiamo l’onore di scoprire e, di conseguenza, di valorizzare con una proposta degna di grande considerazione.

La neve di Mariupol- Monica Perosino a cura di Valeria Rombolà

«Alle 4:11 del 24 febbraio, ora italiana, faccio la telefonata più surreale della mia vita. Compongo il numero di Monica Perosino, sapendo di doverle dare una notizia devastante, assurda, impossibile. E poi riesco a pronunciare l’impronunciabile, l’incredibile, l’insopportabile: «Stanno bombardando. È iniziata la guerra». L’annuncio della guerra tra Russia e Ucrania ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era ed è stato uno spartiacque tra un prima e un dopo definitivo. A raccontare i retroscena dell’atrocità della guerra del nostro secolo è Monica Perosino, giornalista de La Stampa, che con sensibilità e coraggio è riuscita a trasmettere un racconto crudo e profondo di quanto ha vissuto come inviata sul campo. La Perosino è in grado di narrare gli strazi, le fughe, i bombardamenti ma anche la lotta per la vita di un popolo che non si arrende e resiste a costo di soffrire, a costo di morire. L’autrice vive la paura dell’attacco affianco ai più deboli e si interroga dell’insensatezza di una guerra che devasta e spazza via quello che c’è. La Persoino riesce nell’arduo compito di trasformare il giornalismo in letteratura, grazie alla capacità di non banalizzare avvenimenti e storie. Racconta come a fare più male “non sono le note più basse di mortaio”, ma i “poveri resti di quelli che un tempo erano persone o quel che resta di una vita sparpagliata sull’asfalto; è piuttosto l’incredibile dolore in cui un milione di persone sono precipitate per sempre. Queste sono le cose brutte, il supplizio e la disperazione dei sopravvissuti”. Capitolo per capitolo Perosino racconta l’Ucraina che ha conosciuto attraverso le storie di persone autentiche che le restituiscono una visione reale di un Paese: un esempio è la storia delle babushke. Le anziane di un remoto villaggio, attraverso i loro modi antichi e intrisi di tenerezza, le permettono di avere la sua “personale epifania, un momento in cui ho capito cos’è l’Ucraina, o meglio, ho sentito cos’è l’Ucraina”. Questo libro è un viaggio attraverso gli occhi e le sensazioni dell’autrice che ci mette di fronte una realtà imbarazzante ovvero il fallimento dell’Europa tentativo di mettere fine alle guerre per sempre.

LASCIATE CHE I GAY (non) VENGANO A ME  a cura di Francesca Bono

Lasciate che i Gay (non) vengano a me è un’indagine giornalistica fondata su una tematica, più che insolita, certamente complessa e di non semplice trattazione: l’omosessualità negli ambienti ecclesiastici. Se ne occupa, con uno stile preciso e che rispecchia a pieno il taglio giornalistico del pubblicatore Paesi Edizioni, Luciano Tirinnanzi, autore del volume nonché direttore della casa editrice. Se una persona è gay e cerca il signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Con questa citazione da Papa Bergoglio ha inizio la pubblicazione, lasciando intendere, in poche righe, sia il filo conduttore che lo stile con cui esso viene approcciato. Un tema delicato, quello dell’omosessualità interna alla Chiesa, che come tale viene trattata, pur non tralasciando un’esposizione fedele di fatti e informazioni. Coinvolgenti i riferimenti documentali ed epistolari, accompagnati da una lettura in una chiave volta a porre in luce l’effettiva diffusione, nel tempo e nello spazio, dell’omosessualità in ambito chiericale. Nessuna forma di giudizio trapela, né nei confronti di chi nel tempo e nello spazio, ha censurato, né dei diretti protagonisti dei fatti esposti, che al contrario ne escono, invece, umanizzati. Eppure, questa esposizione professionale e diretta, si chiude aprendo al lettore l’interrogativo: per quanto, ancora, gli ultimi resteranno ultimi?

Venezia nel Settecento. In mostra alla Fondazione Accorsi – Ometto

Dal 6 luglio al 3 settembre 2023

Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, Torino

Per tutta l’estate, in occasione della mostraVENEZIA NEL SETTECENTO. Una città cosmopolita e il suo mito (a cura di Laura Facchin, Massimiliano Ferrario eLuca Mana | Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto | Fino al 3 settembre 2023), la Fondazione Accorsi-Ometto propone una serie di visite guidate e di incontri per approfondire le vicende più affascinanti e gli aspetti più curiosi della società lagunare, nell’ultimo periodo della sua fulgida storia.

Nelle visite guidate con i curatori, Laura Facchin e Luca Mana parleranno degli artisti e delle opere esposte, approfondendo l’idea del mito di Venezia, come tappa irrinunciabile del Gran Tour, e la storia dei grandi eventi del calendario annuale, come il celeberrimo Carnevale o l’emozionante festa della Sensa(Ascensione), sottolineando, inoltre, il legame tra Venezia e Piemonte, a cominciare dai numerosi artisti veneziani che nel Settecento lavorarono per la corte sabauda.

Durante la visita a tema L’ALTRA VENEZIA, verranno approfondite la vita, le opere e lo stile degli artisti in mostra, con letture tratte da testi scritti dagli stessi pittori o da brani dell’epoca; non mancheranno, poi, insoliti aneddoti sulle usanze e sui costumi dei personaggi noti e meno noti che popolavano la Venezia del Settecento, da Vivaldi a Casanova al cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis.

SPEED ART, invece, una visita di mezz’ora circa, sarà dedicata ai mobili e alle principali manifatture veneziane di porcellana che tanta fortuna ebbero nel Settecento, con un rimando alle opere esposte in mostra e nelle collezioni permanenti del Museo Accorsi-Ometto.

In UN POMERIGGIO IN GONDOLA, attività per famiglie con laboratorio, i bambini “saliranno in gondola” per attraversare i canali di Venezia nel Settecento, ammirando i suoi bellissimi palazzi e vivendone la magica atmosfera tra feste in maschera, musiche e passatempi dei ricchi signori dell’epoca. Al termine della visita, i bambini comporranno la propria veduta veneziana.

Per tutta l’estate continueranno anche le visite guidate alla mostra con gli storici dell’arte della Fondazione Accorsi-Ometto (sabato e domenica, alle 11.30 e alle 17.30, e giovedì, alle 18.30) e le visite guidate alla collezione permanente (da martedì a domenica, alle 10.30 e alle 16.30).

Infine, lunedì 14 agosto e martedì 15 agosto il Museo Accorsi-Ometto sarà aperto dalle 10 alle 19, con visite guidate alla mostra e visite guidate alla collezione permanente.

Alla scoperta di reperti longobardi mai visti

Appuntamento di assoluto rilievo storico-archeologico nel “Museo Civico” di Cuneo in “Palazzo Santa Croce”

Venerdì 7 luglio

Cuneo

Andranno in bella mostra e in visione, per la prima volta, al pubblico gli antichi reperti ritrovati negli scavi della necropoli longobarda di Sant’Albano Stura, la più grande d’Italia, e da poco trasferiti da Torino a Cuneo, nei depositi delle Collezioni Museali cuneesi di “Palazzo Santa Croce”, al civico 6 di via Santa Croce. L’appuntamento, con visita guidata (condotta dall’archeologo Gian Battista Garbarino, funzionario della “Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio” delle province di Alessandria, Asti e Cuneo) è per venerdì 7 luglio, in tre fasce orarie, alle 15,30, 16,30 e 17,30.

 

Per partecipare è d’obbligo la prenotazione  telefonando allo 0171/634175 o scrivendo una mail a museo@comune.cuneo.it. L’iniziativa si inserisce nel programma dell’“ArcheoDay”, che prevede anche alle 11,30, nel “Salone d’onore” del “Municipio di Cuneo” (via Roma 28), la presentazione della prima edizione del “Cuneo Archeofilm” (“Festival Internazionale del cinema di Archeologia Arte Ambiente”) e degli stessi ritrovamenti archeologici longobardi.

Mai finora esposti, e ritrovati nelle 842 “scavate” condotte a Sant’Albano Stura, tutti i reperti sono stati consegnati nell’autunno 2022 in deposito al “Museo Civico” di Cuneo dalla Soprintendenza, che ha oggi autorizzato il Comune di Cuneo a trasferire i ritrovamenti e i beni culturali civici e statali dislocati in vari magazzini della città, al terzo piano di “Palazzo Santa Croce”, inaugurato nel 2017, dopo un intervento di ristrutturazione e restauro volto a creare un “Centro Culturale Polifunzionale” al fine di accogliere non solo il deposito delle collezioni museali ed alcuni fondi archivistici, ma anche una “biblioteca” (0-18) appositamente studiata per sperimentare nuove modalità di fruizione culturale.

Oggi i depositi delle “Collezioni Museali” cuneesi accolgono una notevole quantità di beni culturali e già dal 2016, nel Salone al primo piano del “Museo Civico” di via Santa Maria 10, una selezione dei “corredi” meglio conservati di età longobarda, provenienti dagli scavi condotti a Sant’Albano fra il 2009 e il 2011, esposti attraverso un allestimento originale, innovativo e inclusivo verso i nuovi pubblici dei musei e al passo con le più moderne tecnologie, realizzate grazie a risorse civiche e della “Fondazione CRC”. Nell’estate 2021, inoltre, presso la “Cappella di Sant’Antonio” a Sant’Albano Stura, è stato aperto al pubblico uno “spazio espositivo”dedicato ad altri corredi longobardi provenienti da una necropoli scoperta in frazione Ceriolo, sempre a Sant’Albano Stura.

g.m.

Nelle foto:

–       Reperti longobardi nel deposito del Museo Civico di Cuneo

–       Scavi della necropoli longobarda di Sant’Albano Stura

“Tecnosofia” il farmaco più potente

Maurizio Ferraris e Guido Saracco

presentano “Tecnosofia”

il farmaco più potente

Mercoledì 5 luglio, ore 17.30

Polo del ‘900, Piazzetta Antonicelli, Palazzo San Daniele

Tre grandi personaggi al Polo del ‘900 per esplorare l’alleanza tra tecnologia e scienze umane: sono Maurizio Ferraris, professore di filosofia teoretica e Guido Saracco, rettore del Politecnico di Torino con il loro nuovo libro Tecnosofia: tecnologia e umanesimo per una scienza nuova (Laterza, 2023, 185 pagine, 20 euro) in collaborazione con Laterza. In dialogo con gli autori Piero Bianucci, scrittore e divulgatore scientifico. Ingresso libero, mercoledì 5 luglio, ore 17.30 Piazzetta Antonicelli (ingresso Via del Carmine,14).

VIDEO PRESENTAZIONE FERRARIS-SARACCO AL LINK https://drive.google.com/file/d/1oEE51L-GUlWli1jIlczxU1u4N90BWIhW/view?usp=sharing

SCHEDA DEL LIBRO

Il farmaco più potente a disposizione della scimmia nuda è la tecnica, e la tecnica più potente è il capitale. L’alleanza tra tecnologia e umanesimo può potenziare questo capitale a beneficio di tutti, trasformandolo in un patrimonio dell’umanità. Quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire, tanto più l’umanità solcherà positivamente la strada del progresso. È questa l’idea che ispira questo libro, frutto della collaborazione tra un filosofo e un tecnologo. Entrambi, infatti, promuovono un giudizio positivo sulla tecnologia perché se è vero – seguendo l’etimo greco – che è insieme un veleno e un rimedio, è innegabile che la capacità tecnologica appartiene all’umanità sin dalle sue origini. E risiede in essa la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei suoi beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future.

Il Modigliani dei miei ricordi

Di Amedeo Modigliani (Livorno, 12.7.1884 – Parigi, 24.1.1920) scrissi una prima volta quarant’anni fa, ma a quelle pagine val la pena aggiungere qualcosa e queste ultime me lo permettono. Infatti, (a differenza di altri lavori, che, dalle prime ricerche fino alla definizione di una loro veste editoriale, hanno richiesto soprattutto il mio impegno), per ben due volte mi è stato chiesto di occuparmi del “Pittore delle figure dai colli lunghi e gli occhi vitrei”…

Nel 1983, a Rio de Janeiro, dov’ero arrivato, trasferito d’ufficio per la chiusura dell’Istituto Italiano di Cultura di Brasilia, il direttore, che aveva già lavorato con me all’Istituto di Brasilia, era Salvatore Amedeo Zagone (La Spezia, 13.2.1931 – 25.10.2016), docente di materie letterarie nelle scuole superiori e giornalista che, sul dinamismo vivace della sua professione, aveva impostato tutta la vita, gestendo e promuovendo, anche in Brasile, ogni attività. con quel dire diretto, che era del suo carattere, mi chiese se non volevo scrivere un pezzo, per il centenario della nascita di Modì “naturalmente in portoghese” per la rivista che aveva iniziato a pubblicare proprio in quell’anno. Certamente l’invito era motivato dalla stima, soprattutto, perché sapeva della mia attività artistica, infatti aveva apprezzato le mie tavole a fumetti per la Storia di un Burattino di Collodi, tanto che, già nel marzo del 1983, aveva promosso a Rio l’esposizione del mio Pinocchio, e, dopo averla presentata, la fece circolare per il Brasile da San Paolo al Nord Est. Ora, tornando a quel mio scritto, aggiungerò che, ridotto in cinque pagine a stampa, fu pubblicato nel numero di marzo del 1984 di Quaderni di Studi italo brasiliani, con il titolo Modigliani che gli avevo dato io. In Brasile, dove la pittura del Novecento spesso ha le forme e i colori dei quadri di Candido Portinari (San Paolo, 1903 – Rio de Janeiro, 1962), Emiliano Di Cavalcanti (Rio de Janeiro, 1897 – 1976) o di Alfredo Volpi (Lucca, 1896 – San Paolo, 1988), diversi lettori trovarono nelle mie parole le prime notizie del pittore di Livorno (alcune opere del quale sono al MASP – Museu de Arte de São Paulo, il grande museo dell’America Latina, voluto, e creato si può dire dal nulla, da un altro spezzino di vaglia, Pietro Maria Bardi). Poi chiuderò quel ricordo dicendo che, in assoluto, quelle furono le pagine di saggistica da me pubblicate e che non solo esse furono lette nel Quaderno che le aveva accolte ma, di recente, quando le ho riversate sulla rete, tanti, non solo tra i lusofoni, hanno continuato ad apprezzarle.

Negli studi successivi, le mie ricerche hanno approfondito altri temi storici, ma, come anche gli argomenti artistici che ho affrontato, erano riferiti a momenti più lontani nel tempo; tuttavia. Solo verso la fine del Novecento, decisi di studiare i pittori presenti ad Agliè durante l’ultima guerra. Questo lavoro partiva dal ricordo di chi, avendo vissuto quel periodo, lo ricordava ancora. Tra i pittori che là erano sfollati, ebbi modo di indagare meglio i bolognesi Gheduzzi, intorno ai quali s’era formato un alone di leggenda, perché scenografi del Teatro Regio di Torino … L’ultimo loro discendente, Ugo Gheduzzi (Torino, 30.11.1925 – Pianezza / TO, 5.9.2014), a Torino aveva studio di architetto. Lo cercai e mi ricevette nella sua casa di Piossasco, dove con l’amabilità, usuale della gente d’Emilia (terra d’origine della sua famiglia paterna), mi raccontò tutto quello che allora mi bastò per scriverne e, nel 2002, pubblicai ad Ivrea («Bollettino ASAC – Associazione di Storia e Arte Canavesana») Novecento pittorico in Macugnano di Aglié – Annotazioni per due capitoli di storia e… passai ad altro. Se non che, non molto tempo dopo, Ugo Gheduzzi mi cercò per chiedermi di visitarlo a Rivoli, dove nel frattempo si era trasferito, e là, nell’ultima casa che aveva costruito per sé, mi propose di scrivere una storia dei suoi (nonno, padre e zii), pittori della “scenografia” del Teatro Regio di Torino. Così, per un periodo di quattro o cinque anni almeno, lavorai anche a quel progetto. Lo lasciai a un buon livello di redazione, ma, purtroppo, la malattia prima e la morte poi, impedirono all’erede interessato di farlo pubblicare e io non trovai altri sbocchi, se non di intervenire con un contributo al catalogo della mostra antologica dei Gheduzzi che si realizzò a Crespellano / Bologna, nel 2010 e, soltanto negli ultimi tempi, ho pensato di riprendere quel materiale per una memoria che rettifichi le vistose inesattezze che negli ultimi anni furono pubblicate sugli scenografi tosco-emiliani attivi a Torino intorno al Regio. Vedremo se queste intenzioni avranno seguito…

Una delle ultime volte che incontrai il collega Gheduzzi, forse nel 2007, però, con quello sguardo accattivante che gli era proprio, porgendomi le fotocopie di due dattiloscritti (una lettera, su due facciate dalla quale era stata tolta la firma, e un biglietto affatto anonimo) e di alcune immagini, mi disse: “se vuoi dilettarti, fa un buon uso tu di queste cose!” … Non mi ricordai di avere pensato più a quelle carte, anche se, nel frattempo, c’è stato il centenario della nascita di quell’artista, ma so che finalmente è giunto il momento di prenderle in considerazione (almeno il biglietto e alcune delle immagini a cui esso allude), per ritornare nel tempo ai miei trent’anni, quando, con Modigliani, iniziavo a scrivere il mio primo saggio perché scriverne ancora, mi permette di ricordare alcune vivacità della mia gioventù e due amici che non sono più tra noi.

La lettera (che qui non presento) porta è datata Rosta 20 giugno 2007, per questo penserei vicino nel tempo ad essa anche l’appunto (che di seguito trascrivo). I due scritti non sono omogenei tra loro, soprattutto da un punto di vista formale, e il biglietto rivela anche alcune incertezze tanto che chi l’ha scritto sembra essere più preoccupato di seguire un protocollo (che neppure conosce e che, perciò, può anche tradire) e non nasconde neppure qualche imbarazzo.

Tavoletta di cm. 25×18 circa di legno (pioppo?) dello spessore di cm. 2 raffigurante figura umana a mezzo busto, probabile autoritratto, di uomo di età molto giovanile. Abbigliamento, pettinatura e fazzoletto al collo, possono rappresentare le caratteristiche di un artista del primo novecento. In basso a sinistra vi è una scritta “MODIGLIANI” che pare eseguita con un oggetto appuntito che raschia la sottostante tinta.

Guardando la figura trasversalmente ed orizzontalmente si nota come l’autore abbia delimitato i tratti essenziali che contornano la figura, come fossero stati incisi sulle tinte di fondo per delinearne la figura.

Questa tavoletta è sempre appartenuta a mia suocera (nata nel 1903) e che l’ha ereditata dalla propria nonna paterna. La detta nonna Colonna Eufrasia ved. Barberis abitava a Torino in via Mazzini e negli ultimi anni (1910) faceva l’affitta camere.

Da memorie raccontate da mia suocera pare che la suddetta sua nonna avesse trattenuto quest’opera quale remunerazione di pigione non pagata. Altra fumosa rimembranza, la tavoletta fosse stata trattenuta a rifusione di un piano di un armadio segato senza autorizzazione? Fino agli anni ‘960 la tavoletta rimase tra le cianfrusaglie di famiglia ma, in occasione di un trasloco, venne rinvenuta dal sottoscritto. Ultimamente i miei figli la confrontarono con le poche fotografie del Modì giovane, le sottoposero a rifotografarle e sovrapporle uniformandone le dimensioni, e vennero nella convinzione che in effetti può trattarsi dell’immagine e riproduzione di una stessa persona.

Ai tempi in cui era ancora vivo il gallerista Giovanni Bottisio, tra l’altro cugino di mio cognato, si era parlato di una visita a Parigi dove, a suo parere, si poteva trovare chi potesse, eventualmente, autenticare la cosa. Ma, come spesso avviene, non se ne fece nulla ed ora mi ritrovo con gli stessi interrogativi d’allora.

Conoscendo la sua cultura in materia e forse la conoscenza di coscienziosi esperti, mi permetto di sottoporle quanto sopra e chiedere il suo autorevole giudizio. Le allego la fotocopia a colori dell’originale ed alcuni rilievi fotografici tratti da numerosi volumi che ritraggono il Modigliani proprio in quegli stessi anni in cui la tavoletta finì nelle mani dell’ava di mia moglie.

Si tratta di osservazioni spicciole, talora minute e, volutamente, imprecise, le parole sono usate ingenuamente, quasi a dissimulare il motivo vero per cui sono state scritte e questo non nasconde l’impressione, anzi l’illusione, di essere in possesso di un quadro di un certo valore, che può anche essere una “cifra importante”! Non si pensa neppure che, più del valore commerciale, varrebbe avere qualche dato in più per la biografia di Modigliani, un pittore morto, poco più che trentacinquenne, in Francia, nel 1920… Ma che fare? L’appunto non aggiunge nulla: non accenna al periodo in cui, a Torino, Modigliani avrebbe dipinto questo suo autoritratto e, anche se nomina i Bottisio (interpellati come galleristi di un certo nome vicini e conosciuti), manca di considerazioni sulla tavolozza del pittore (che sembrerebbero ancora priva dell’influenza dei fauves, che poi avrebbero influenzato i suoi quadri del periodo parigino), né si rilevano altri altri dettagli (come gli occhi, che nel quadro sono dipinti diversamente che in tante altre sue opere famose). Insomma esso potrebbe veramente dire molto di Modigliani in un periodo precedente al trasferimento in Francia … e questo, tenendo conto che Jeanne, la figlia di Modigliani, nei suoi scritti aveva rilevato la poca attenzione che ci fu per l’opera di suo padre del periodo italiano, quasi ci fosse stato un piano per creare il mito che “Modigliani era diventato artista in riva alla Senna”, lascia pensare comunque che la vita di questo artista non fu mai oggetto di indagini scrupolose da parte degli storici. Non mi accollerò questo incarico io, se mai renderò pubbliche alcune mie considerazioni che, da storico, posso fare su quello che i documenti potrebbero dire, (o, meglio, anche solo se dei documenti qui ricordati, se avessero copie conformi agli originali, cioè se si sapesse il nome dell’autore dalla lettera e se il quadro in questione fosse riprodotto in una buona fotografia) perché, senza approssimazioni, si potrebbe fare una lettura più corretta di tutto…

Se davvero a Torino, c’era una tavoletta dipinta (che potrebbe essere di Modigliani) e se davvero essa fu dipinta, in una camera ammobiliata nei dintorni di Porta Nuova, intorno al 1906 (?), potremmo avere l’opportunità di sapere qualcosa in più di quel pittore ventiduenne, cioè in un momento vicino al suo (per ora poco noto) trasferimento a Parigi! Infatti queste sarebbero le prove minime per rilevare una sua presenza torinese e, forse, potrebbero dirci di chi egli incontrasse, o volesse incontrare, nella nostra città. Insomma: chi cercava a Torino Modigliani? Un parente, un possibile finanziatore o qualcuno che potesse aprirgli la strada a Parigi? Sono argomenti che sfuggono alla storia e, se, la vita di Modigliani non è tutta scritta da scrivere, certamente un suo passaggio per Torino lo sarebbe ancora … per questo, ancora una volta, chi ne dovesse parlare, dovrebbe farlo per lui che non è più, e, per farlo, dovrebbe conoscere bene le cose che attengono la “sua” vita, per poterle diffondere senza tradire la sua memoria. Infatti c’è un dovere morale che pesa sullo storico perché i personaggi del passato non hanno più diritto di replica personale, dunque essi vanno intesi bene attraverso i documenti e compresi correttamente, rispettando la verità storica, e questo non è cosa da poco! Qualcuno si farà carico di tanto impegno per indagare un ipotetico soggiorno torinese di Amedeo Modigliani? Nel rispetto del passato e della vita, noi lo auspichiamo.

Carlo Alfonso Maria Burdet

Stupinigi, Sonic Park: Dal 4 luglio 8 straordinari concerti

MUSICA SENZA TEMPO E GRANDI EMOZIONI

la prima settimana di concerti!

Dopo il concerto-anteprima degli INTERPOL nella Sala Fucine delle OGR Torino si aprono finalmente i cancelli del giardino storico della Palazzina di Caccia di Stupinigi – patrimonio mondiale Unesco – e Fondazione Reverse, con la produzione di Fabio e Alessio Boasi, inaugura la quinta edizione di Sonic Park Stupinigi, promosso da Città di Nichelino e Sistema Cultura Nichelino.

Un programma ricchissimi che ospiterà a partire dal 4 luglio grandi nomi del panorama italiano e super star internazionali per concerti unici, con posti a sedere o in piedi, sempre organizzato con attenzione alla sostenibilità attraverso l’eliminazione delle plastiche monouso a favore di bicchieri riutilizzabili che danno diritto ad acqua gratuita e illimitata, l’utilizzo di materiali compostabili e la distribuzione gratuita di posaceneri portatili.
L’area concerti, situata all’interno del giardino storico sarà allestita anche in questa edizione tra esemplari di querce e carpini dove si aprirà un vero e proprio villaggio di servizi food and beverage. Lo spettacolare palco di 300 mq che si affaccia sulla Palazzina di Caccia crea un immaginario unico capace di ammaliare, un’edizione dopo l’altra, tutti i big della musica che sempre più scelgono Sonic Park per una delle tappe dei loro tour nel nostro paese.

Il programma, che si sviluppa lungo nove giorni per sette concerti esplosivi, si apre nella prima settimana con il primo grande nome internazionale del cartellone il 4 luglio con il concerto dei SIMPLY RED del “rosso” Mick Hucknall per festeggiare l’uscita del nuovo album della band, ‘Time’, prevista il prossimo 26 maggio. Anche il 7 luglio Sonic Park Stupinigi regala agli appassionati un grande ritorno al live con il concerto di BIAGIO ANTONACCI, da oltre trent’anni uno dei cantautori più amati, forte di un pubblico trasversale che abbraccia diverse generazioni di estimatori. Dopo l’opening della torinesissima GINEVRA l’8 luglio, per una serata tutta al femminile, arriva sul palco di Sonic Park Stupinigi MADAME: la giovane cantautrice, dopo la seconda partecipazione al Festival di Sanremo, sta riscuotendo un grandissimo successo di pubblico e critica con il nuovo album L’amore. Una serata davvero da non perdere è quella del 9 luglio: sul palco, insieme, GUÈ e EMIS KILLA per un doppio concerto con due fra i più importanti rapper della scena hip hop nazionale.

MARTEDÌ 4 LUGLIO 2023 ORE 21.30
apertura porte ore 18
SIMPLY RED
platea numerata da 51 a 95 euro + diritti di prevendita
Dopo un 2022 stellare che ha visto la band esibirsi in 73 spettacoli davanti a oltre 600.000 persone in tutta Europa, i Simply Red concluderanno la tournée italiana di cinque date proprio alla Palazzina di Caccia di Stupinigi per Sonic Park dove inaugureranno la quinta edizione del festival.
Il concerto sarà anche la prima occasione per i fan per brani dal nuovo album «Time», uscito lo scorso 26 maggio.
A quattro anni di distanza da Blue Eyed Soul, i Simply Red sono tornati un nuovo album di studio, uptempo e ricco di vibrazioni positive, spesso anche legate all’Italia – dove per esempio Hucknall ha incontrato la moglie.
Soul, funk, R&B e blues sono gli elementi costitutivi della musica dei Simply Red che con una carriera di 12 album in studio, di cui cinque numeri uno, due premi ASCAP Most Performed Song (1987 e 1988) per Holding Back The Years, due Brit Awards consecutivi (1992 e 1993) come Best British Group, un Brit per Best British (1993), il MOBO nel 1997 per Outstanding Achievement, due Ivor Novellos (1992 Songwriter of the Year; 2002 Outstanding Song Collection) e circa 60 milioni di album venduti, sono pronti a regalare a Sonic Park un concerto inaugurale indimenticabile.
La musica è un meraviglioso mezzo di comunicazione. Ogni persona può dare un’interpretazione di un brano a seconda di ciò che significa per lei. Essere in grado di creare qualcosa che poi viene condiviso con milioni di persone in tutto il mondo, che gioia. Come può esserci qualcosa di più gratificante e appagante di questo?”.