CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 234

Torino e i suoi musei. Il museo delle Antichità

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Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

4 Museo delle Antichità

Scrivere questa serie di articoli ha in effetti i suoi lati positivi, perché “mi costringe” a venire spesso in centro, cosa che mi fa sempre molto piacere.
Mi trovo di nuovo a cercare la biglietteria di Palazzo Reale, supero prima la cancellata di Palagi, poi arrivo all’altezza del ragazzo musicista che molto spesso si piazza all’ombra di Palazzo Chiablese e suona magistralmente il suo “digiridù”.
Questa volta però il biglietto che compro è per visitare il piccolo e sotterraneo Museo delle Antichità, a cui si accede passando per i Giardini Reali, dalla stessa entrata che porta alla Galleria Sabauda, anche se in ultimo è necessario seguire le indicazioni che portano verso il piano di sotto.
Il Museo è un’istituzione antica, che può vantare nobili origini ed è giunto all’attuale sistemazione attraverso una lunga e spesso travagliata vicenda.
La raccolta mantiene la denominazione storica di Museo di Antichità per sottolineare la continuità di questa istituzione che risale al XVIII secolo, ma comprende raccolte formatesi già in precedenza per volere di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) e dei suoi successori.
L’esposizione si articola in tre sezioni: quella del Territorio Piemontese e quella delle Collezioni Storiche, c’è una terza sezione dedicata a Torino, antica Augusta Taurinorum, al piano seminterrato della Manica Nuova del Palazzo Reale, in collegamento diretto con l’area archeologica del Teatro romano e del gruppo episcopale paleocristiano, costituito in origine dalle chiese del Salvatore, di San Giovanni e di Santa Maria (chiese abbattute per volere di Domenico della Rovere, committente del nuovo Duomo dedicato a San Giovanni).

In epoca rinascimentale si evidenzia, da parte dei Savoia, il desiderio di eguagliare la dignità e lo splendore delle altre corti italiane ed europee. Tra le sculture antiche pervenute sono state identificate opere già appartenute alle collezioni dei Gonzaga, di Gerolamo Garimberti e di Bindo Altroviti.Dal Settecento in avanti il settore delle antichità greco-romane si accresce continuamente, a seguito dell’acquisto di cospicue raccolte private e per i ritrovamenti effettuati nei territori del Piemonte e della Sardegna.Per molti anni la storia della collezione del Museo di Antichità viaggia in parallelo con quella del Museo Egizio, fino al 1940, anno in cui la collezione di antichità e quella egizia vengono definitivamente separate. La collezione di antichità rimane al pianterreno del palazzo dell’Accademia delle Scienze fino al 1963, quando viene individuata la sede definitiva nelle Serre dei Giardini di Palazzo Reale, il cui recupero viene curato dall’architetto Caterina Fiorio. Una volta discesa mi ritrovo in una zona dalle volte a botte in cui prevale l’uso del mattone, interessante è il gioco delle luminarie, taglienti raggi di luce cadono netti sui reperti, facendoli risaltare dall’ombra quasi richiamando alla mente la tecnica pittorica caravaggesca. Sono rimasta molto colpita dalla collezione, oggetti e reperti che molto spesso passano in sordina e che anche io non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere o di approfondire. Subito richiamano la mia attenzione due lastre marmoree lavorate a rilievo e raffiguranti delle menadi danzanti. Le donne seguono il dio Dioniso nella frenesia dell’”entusiasmo” bacchico, e sono copie fedeli dei modelli creati alla fine del V secolo a.C. dallo scultore greco Callimaco: recano i tipici attributi del corteo del dio della vite, torce, tirsi (bastoni con infiorescenze) e strumenti musicali. Vi sono nella composizione anche altre figure, come la menade che regge un cesto colmo di frutti e quella che urla scarmigliata brandendo due torce e con le braccia avvolte da serpenti, che non sono tipiche del “thiasos” dionisiaco ma rimandano all’iconografia di una portatrice di offerte o di un’Hora (stagione) oppure di una Erinni (personificazione della vendetta soprattutto nei confronti di chi colpisce la famiglia), temi comunque che si adattano a un ambito funerario. I due grandi rilievi con figure di menadi danzanti sono noti da tempo nelle collezioni sabaude, forse già verso la metà del Seicento, come dimostrano numerosi disegni e tavole incise del periodo.

Nel piccolo Museo mi muovo piano, per una volta non mi trovo ad avere paura di non riuscire a vedere tutto e mi godo ogni singolo oggetto, dai rilievi, agli esempi di “autoctona”, ai ritrovamenti musivi della Domus romana di via Bonelli 11, al grande mosaico policromo fino ai bei gioielli della cosiddetta “Dama del Lingotto”. Il cuore della collezione è tutto contenuto in teche vicine e fortemente illuminate, si tratta del “Tesoro di Marengo”. Il tesoro è costituito da un sontuoso complesso di argenti, decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati, che originariamente dovevano costituire lamine di rivestimento di mobili e arredi di legno, oltre all’eccezionale busto-ritratto dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), forse anticamente montato al centro di uno scudo ornamentale (clipeo), oppure esposto su un supporto in legno o innalzato sui vessilli militari dell’esercito. Gli altri elementi sono costituiti da una tabella con iscrizione votiva alla dea Fortuna Melior, un disco con i simboli dello zodiaco, cornici, fregi decorativi con motivi figurati, geometrici, floreali e un rarissimo esemplare decorato con una catasta di armi.  Notevole è anche la  fascia di rivestimento (di un altare o della base di una statua) decorata con tredici figure di divinità in altorilievo, tutte ispirate a celebri modelli statuari del mondo greco.
Credo sia un mio inconscio tentativo di rielaborazione del trauma del Liceo Classico, ma mi scopro a giocare a riconoscere i vari personaggi mitici e ricordarne le vicende.
L’insieme si distingue da altre argenterie antiche note, sia per l’assenza di vasellame da mensa, sia per la rarità del ritratto imperiale di grandi dimensioni in metallo prezioso, oltre che per la peculiarità di alcune tipologie di oggetti, come i due elementi decorativi di una spalliera laterale di letto (kline).

Quasi tutti gli elementi che compongono il Tesoro si possono datare tra la seconda metà del II secolo e i primi decenni del III secolo d.C. La scoperta avvenne casualmente nel 1928, durante i lavori agricoli condotti presso la Cascina Pederbona di Marengo (Alessandria): gli argenti furono rinvenuti in una grossa cassa di legno ancora visibile in tracce, lacerati, schiacciati e deformati per essere più facilmente trasportati, forse a seguito di un saccheggio avvenuto in antico.
La mancanza di precisi confronti, l’assenza di dati circa la giacitura originaria e la dispersione di parte dei reperti dopo la scoperta rendono problematica l’interpretazione del ritrovamento: forse gli argenti furono saccheggiati in un sacello privato o forse in un santuario pubblico dedicato all’Imperatore oppure a un culto solare tra il III e l’inizio del V secolo d.C. Occultato in un luogo isolato e ritenuto sicuro, con l’intendimento di recuperare i beni per la loro rifusione, non fu poi più recuperato. Apprezzo davvero le dimensioni ridotte dell’esposizione, perché prima di “tornare a riveder le stelle” posso soffermarmi sui reperti che più mi hanno incuriosito, in questo caso il gusto femminile prevale e mi ritrovo a guardare nuovamente i preziosi gioielli longobardi che sfavillano all’interno della teca. Costituiscono l’eccezionale corredo funebre della “Dama del Lingotto” una coppia di orecchini in oro del tipo “a cestello”, con lunghi pendenti mobili e gocce di ametista, una collana a catena con maglie d’oro, una raffinata spilla (“fibula”) circolare a cloisonné con granati del tipo almandino e paste vitree colorate.
In effetti sì, devo ammettere che quelle preziosità antiche incontrano proprio i miei gusti: non c’è che dire, la vanità è donna.

Alessia Cagnotto

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Anthony Summers “Dea. Le vite segrete di Marilyn Monroe” -La nave di Teseo- euro 22,00

Il mistero della morte dell’infelice diva Marilyn Monroe probabilmente rimarrà senza una soluzione definitiva, oscillando tra le tre ipotesi avanzate: omicidio, incidente come conseguenza del costante abuso di barbiturici, oppure suicidio.

Migliaia di pagine sono state scritte sulla vita e la scomparsa a soli 36 anni della donna più desiderata del pianeta e anche tra le più infelici; ma questa corposa, esaustiva e scorrevole biografia del giornalista investigativo Anthony Summers è forse la migliore di tutte. Circa 600 pagine da leggere come un romanzo, piene di ricostruzioni e testimonianze che contribuiscono a restituirci le verità di una donna dall’infanzia difficile e con una madre pazza.

Norma Jean (il suo vero nome) riesce a farsi spazio nel mondo, tra mille difficoltà, insicurezze e contraddizioni, fino a trasformarsi in una bomba di femminilità che ne fa la stella più splendente di Hollywood. A tanto fascino purtroppo farà da contraltare la costante ricerca di affetto, quello più profondo e autentico, rivolto alla donna con la sua sensibilità a fior di pelle… e non al mito.

Il rischio è stato sempre quello di essere un trofeo da esibire, più che da conoscere e amare per quello che era. I suoi matrimoni con il campione Joe Di Maggio e il commediografo Arthur Miller partono con passione e poi si affossano nelle incomprensioni e nella sopraffazione, tra tradimenti e ripicche. Ma la ferita più profonda di tutte è la ricerca disperata di un figlio che ogni volta si infrange contro il trauma dei ripetuti aborti.

Questo libro scava a fondo nella vita e nei buchi neri della Monroe e ricostruisce anche i suoi legami con John Fitzgerald Kennedy che la considerò una conquista come le altre collezionate da impenitente ed egocentrico donnaiolo. Una volta perso l’interesse della conquista, il presidente le volta le spalle e a consolarla arriva il fratello Robert; uomo tendenzialmente fedele e con uno stuolo di figli, ma che per Marilyn rischia parecchio. Come capo del Ministero della Giustizia aveva per nemici lo spietato mafioso Sam Giancana e il controverso sindacalista Jimmy Hoffa, che tentarono di sfruttare la liaison con la Monroe per trascinarlo nello scandalo e rovinargli la carriera politica, oppure per riuscire a renderlo più malleabile e ricattabile.

La Monroe finì così impigliata nelle maglie di qualcosa molto più grande di lei. Mal consigliata da personaggi loschi come Frank Sinatra o ambigui come Peter Lawford, cognato dei Kennedy, e che in tutta la vicenda ebbe un ruolo poco limpido. Gli ultimi tempi della diva saranno all’insegna del senso di abbandono, ricerca insistente dei Kennedy ed un muro di indifferenza da parte loro che si riveleranno discutibili e meschini soprattutto a livello umano.

La Monroe era instabile, beveva sempre di più e parlava troppo vantandosi di essere a conoscenza di parecchi retroscena politici; diventata incontrollabile era un rischio enorme per la Casa Bianca e pare scrivesse tutto su un quaderno rosso mai ritrovato. Di qui i molti dubbi sulla reale dinamica della sua morte, sulle sue ultime ore che saranno abilmente occultate e coperte da versioni contrastanti.

Su questo Summers ha indagato a fondo e la parte forse più struggente del libro è proprio questa. Il mistero che avvolge la scomparsa della Monroe, accompagnata alla tomba dall’unico uomo che le rimase vicino, Joe Di Maggio. Resta la profonda amarezza di una vita apparentemente tanto splendente quanto invece pervasa di dolore, delusioni, abbandoni. Per certi aspetti una vita maledetta per un’icona che la morte precoce ha cristallizzato per sempre e consegnato al mito. Un destino sul quale meditare con infinita tristezza. Un libro assolutamente da leggere.

 

 

Miriam Toews “Notte di battaglia” -Einaudi- euro 19,00

La scrittrice americana nata in una chiusa comunità mennonita ci diletta nuovamente con la sua scrittura profonda e lieve, che sa mettere a nudo interi mondi interiori con ironia e sovrana intelligenza.

Qui ci racconta tre formidabili generazioni di donne, un po’ strampalate, ma fortissime e indimenticabili.

C’è la nonna Elvira: irriverente, scatenata, abituata a trovarsi con le amiche superstiti, con le quali riesce a mettere in leggerezza anche il tema tostissimo della morte che ha già afferrato altre compagne di vita e si appresta a ghermire anche loro.

Poi sua figlia Mooshie: attrice in cerca di fama e parecchio frustrata, single e incinta, sempre sull’orlo di una crisi di nervi e con ricorrenti accessi d’ira.

La sua bambina, voce narrante, è Swiv, 9 anni portati con grinta; è stata espulsa dalla scuola per via di una rissa e non vuole tornare assolutamente sui banchi.

E’ una sorpresa continua il rapporto che lega le tre donne. La nonna, la più combattiva e temprata dalle tante svolte di una lunga esistenza, si occupa dell’istruzione scolastica della nipotina; ma quello che le inculca è soprattutto la capacità di lottare sempre con coraggio e tenacia.

E Swiv è la piccola-grande donnina che ricambia l’affetto occupandosi della nonna che sta perdendo colpi, ma resta il faro principale che le indica la via.

Tra loro due e un po’ defilata è la giovane Mooshie, alle prese soprattutto con le sue difficoltà, a partire dai contrasti con l’ottuso regista della pièce teatrale in cui recita. Inoltre si ritrova ad affrontare quella gravidanza giunta al terzo mese, si porta dentro un non meglio precisato Gord, come lo chiamano in famiglia, e chissà se sarà maschio o femmina.

Gli eventi, piccoli e grandi, si susseguono nelle loro vite fino all’epilogo finale che è semplicemente strepitoso. Restiamo col fiato sospeso mentre seguiamo il barcamenarsi della giovane Swiv che si rivela matura oltremisura. Scopriamo la sua capacità di gestire in contemporanea i due eventi principale dell’esistenza: un nuovo inizio e una fine. Davvero un romanzo magistrale.

 

 

Francesco Costa “California. La fine del sogno” -Mondadori- euro 18,50

Francesco Costa è un giovane autore sotto i 40 anni, vicedirettore della testata online “Il Post” ed un mago della comunicazione che declina in più forme: articoli giornalistici, libri, ma soprattutto podcast come il suo “Morning”; una rassegna mattutina ragionatissima in cui analizza con cognizione di causa gli avvenimenti del giorno.

E’ anche un attento osservatore della realtà americana, un esperto a tutti gli effetti e lo dimostra con il suo ultimo libro “California”. Una sorta di reportage sullo Stato americano più mitico e ambito di tutti. Scopriamo così che non tutto brilla nella Gold Coast. Molti sono i segnali di derive e aspetti che ne segnano la decadenza; principalmente per tutta una serie di problemi interni che però sono anche paradigma delle difficoltà che stanno attraversando le democrazie avanzate.

Costa, con il suo occhio acuto, ripercorre la storia californiana, soprattutto di San Francisco e Los Angeles.

Si addentra in pagine che partono dai primi insediamenti agli sviluppi successivi, passa per terremoti e incendi devastanti, distruzione e ricostruzione, mito di un clima favorevole, sviluppi ed involuzione dell’economia, sistema scolastico, mecca del cinema, agricoltura e innovazione tecnologica.

Mette in luce anche le ragioni più profonde dei vari problemi che oggi investono la California. Tra le tante difficoltà: i costi proibitivi delle case e della vita, il rischio continuo di scivolare nella povertà, crescenti disuguaglianze e discriminazioni, crisi climatiche e stuoli di homeless e baraccopoli ai margini delle aree urbane.

Senza anticipare l’analisi documentata e approfondita dei vari aspetti dei cambiamenti in atto, queste pagine svelano come e perché l’immagine della California uguale a terra promessa, Golden State, vada ridimensionata al giorno d’oggi.

 

 

Patricia Cornwell “Livore” -Mondadori- euro 22,50

L’anatomopatologa più famosa che ci sia questa volta è impegnata nella testimonianza in un caso di omicidio mediatico e di complessa risoluzione. La sua comprovata esperienza professionale la trasforma nella testimone chiave nel processo dell’anno che cerca di far luce sull’omicidio dell’ex reginette di bellezza April Tupelo, il cui cadavere sfigurato è stato ritrovato su una spiaggia della Virginia. Imputato è il fidanzato Gilbert Hooke; ma quello a cui assistiamo non è un processo facile.

Giudice è Annie Chilton, amica di lunga data di Kay Skarpetta e sua coinquilina ai tempi dell’università. Ma è proprio l’atteggiamento della Chilton ad apparire subito strano, incomprensibile.

A complicare tutto poi c’è l’omicidio della sorella della giudice. La bellissima Rachael Stanwyck, 47enne griffata e addetta stampa della Cia, in fase di divorzio dal marito miliardario e ancora innamoratissimo di lei.

Rachael è stata trovata senza vita in casa della sorella che la stava ospitando mentre il divorzio procedeva. Ad un primo sopralluogo sembra sia stata vittima di una violazione di domicilio sfociata in tragedia. Ma nulla sarà come sembra. E a complicare il quadro ci si mette anche una nuova arma capace di uccidere: raffiche di intensa energia a microonde che cuociono le persone come farebbe un forno a microonde.

Dell’autopsia si occupa Kay Scarpetta.

E’ anche l’occasione per fare luce sui controversi rapporti tra le due sorelle che mal si sopportavano ed erano parecchio in competizione per accaparrarsi l’affetto del padre. Emergono dinamiche familiari e d affettive complicate e poi…..Kay riuscirà ovviamente a risolvere il delitto inusuale in cui compare un’arma mai vista prima. Pathos e colpi di scena sono assicurati.

 

 

Nicolò Castellini Baldissera “Inside Milan” -Vendome Press- euro 95,00

E’ un libro prezioso con i testi del designer di fama mondiale Nicolò Castellini Baldissera e le immagini del fotografo Guido Taroni, specializzato in moda e interni, ispirato dal famoso zio Giovanni Gastel al quale il libro è dedicato. Ci conducono nelle case di una Milano esclusiva e un po’ nascosta, dove dimore antiche convivono con il più moderno design.

Ad aprire le loro lussuose case sono stati 40 proprietari di alto livello, tra i quali Barnaba Fornasetti, Martina Mondadori, Veronica Etro e Lapo Elkann.

Castellini Baldissera, erede di una dinastia milanese di raffinati architetti e designer, ha saputo sviluppare un suo stile.

Il colore la fa da padrone nelle case fotografate, declinato in svariate tonalità in pareti, mobili, tessuti e oggetti, anche con accostamenti audaci e decisamente innovativi. Nelle oltre 300 pagine del prestigioso volume spicca anche l’alchimia dosata e vincente che accosta antico e moderno, sempre con gusto e raffinatezza.

E’ il secondo libro nato dalla cooperazione tra i due, dopo il successo del precedente “Inside Tanger”. Una sinergia vincente. Non vi resta che ammirare le foto, gettare lo sguardo sui particolari che più vi colpiscono, o trarre anche spunti e ispirazione da questi interni di una città sempre glamour.

Rock Jazz e dintorni a Torino. I Maneskin e Paolo Fresu

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Lunedì. Allo Spazio 211 suonano i Timber Timbre. Al teatro Colosseo si esibisce Achille Lauro.

Martedì. Al teatro Carignano lo spettacolo “Tango Macondo”, viene musicato in scena da Paolo Fresu in trio con Daniele di Bonaventura e Pierpaolo Vacca. Repliche fino a domenica 26.

Mercoledì. Al Jazz Club sono di scena i Four Jam. Al Lambic si esibisce Marco Parente. All’Off Topic è di scena Voodoo Kid.

Giovedì. Al Jazz Club suona la R.Z Blues Band. All’Hiroshima Mon Amour prima di 2 serate consecutive per Gio Evan con il recital “Sull’Emani”. Al Dash si esibiscono i Sucker Punch. Al Blah Blah sono di scena i Safari e gli Brxit. Al Cafè Neruda suonano i Jazz Device Five.

Venerdì. Al Concordia di Venaria Neri Marcorè interpreta “Le mie canzoni altrui”. Al cinema Massimo inaugurazione di “Seeyousound” con lo show audiovisivo “Sequenze parallele” con protagonista il violoncellista Manuel Zigante. Al Jazz Club suona il trio The Last Coat of Pink. Al Folk Club è di scena il cantautore Jono Manson accompagnato dai Mandolin Brothers. Al Magazzino sul Po si esibiscono i Fuh e Tanz Akademie. Al Magazzino di Gilgamesh per la rassegna blues, suona Norman Beaker mentre allo Spazio 211 è di scena Alessandro Fiori.

Sabato. Al Blah Blah si esibiscono i Conflict. Al Pala Alpitour arrivano i Maneskin. Per “Seeyousound” suona il batterista Khompa e viene proiettato il documentario su Cesària E’vora. Al Magazzino di Gilgamesh blues con con il quartetto US Rails.

Domenica. Al Jazz Club suona il duo del pianista Emanuele Sartoris e i corni di Martin Mayes. Per “Seeyousound” lungometraggio sulla cantante di bossa nova Miùcha e sulla band Rema Rema dal titolo “What You Could Not Visualize” con dal vivo i Larsen.

Pier Luigi Fuggetta

“L’assassino dei pupazzi” Una scia di sangue percorre Torino

Venerdì 24 febbraio prossimo, presso il centroVol.To di via Giolitti 21 a Torino, presentazione del terzo libro della trilogia del commissario Montelupo, dal titolo “L’assassino dei pupazzi”(Golem Edizioni, 2022), scritto dal giornalista Gioele Urso

 

Venerdì 24 febbraio prossimo, alle ore 19:00,verrà presentato, presso il centro di volontariato Vol.To, il terzo volume della trilogia del Commissario Montelupo. Come gli altri due libri della  trilogia di Montelupo, personaggio ideato dal giornalista e scrittore Gioele Urso, anche “L’assassino dei pupazzi” è un testo di ambientazione e contenuto che riguardano l’ambito del thriller sociale, e può essere letto singolarmente senza per forza aver seguito le precedenti opere “Le colpe del nero”(Edizioni del Capricorno, 2018) e “Calma & Karma” (Golem Edizioni, 2020).

Ne “L’assassino dei pupazzi” il protagonista è ancora una volta il Commissario Montelupo, che affonda le mani in un terreno insidioso e sconosciuto, dove a farla da padroni sono l’omertà, la connivenza e gli interessi, e in cui il confine tra criminalità e legalità non appare così marcato .

Torino è percorsa da una scia di sangue e da una serie di truci omicidi che rappresentano l’epilogo di una carneficina insensata. Nel romanzo non è presente un luogo fisico, ma un elemento più duraturo nel tempo, che approda alla ricomposizione di tutti i pezzi del puzzle sparsi sul tavolo. I personaggi presenti sono sempre gli stessi e sono rappresentati dal commissario Montelupo, da Ignazio La Spina, dal giornalista Gianni Incerti, cui si aggiunge la figura di Corrado Tarantella, un vigile urbano con il sogno di diventare poliziotto. Insieme tentano di portare alla luce ciò che qualcuno voleva nascondere sotto un cumulo di sabbia. Il killer prende di mira il sistema di potere della città, un sistema che non può essere annientato e all’apparenza invincibile. Esiste un sottile fil rouge che lega questi tre volumi noir e che va al di là del singolo episodio, e è rappresentato dalla solitudine in cui versa chi vive ai margini della società. Questo sentimento diventerà  l’ossessione del Commissario Montelupo. I fatti narrati sono di pura finzione, anche se all’interno di queste pagine vi sono tratti di verità. “L’assassino dei pupazzi rappresenta la conclusione di questo percorso, avviato da “Le colpe del nero”, in cui il racconto faceva riferimento al Centro di Identificazione ed Espulsione di Torino.

MARA MARTELLOTTA

Achille Lauro unplugged Al Teatro Colosseo

Stagione 2022-2023

Lunedì 20 febbraio ore 21
ACHILLE LAURO

poltronissima € 80,50 | poltrona A € 70,50 | galleria € 60,50 |galleria B € 50,50 | galleria C € 40,50
Arriva ance al Teatro Colosseo Achille Lauro Unplugged, occasione per ascoltare live la performance di Achille Lauro in una nuova versione intima ed essenziale.
L’artista, reduce dal successo dell’Achille Lauro Superstar with Electric Orchestra tour della scorsa estate insieme all’Orchestra della Magna Grecia e alla sua rock band che si è esteso per oltre dieci settimane ai festival e alle arene estive più importanti d’Italia, nel 2023 porterà sul palco tutta la musica prodotta negli anni, dai primissimi dischi a oggi, tra cui l’ultimo singolo Che sarà (Elektra Records / Warner Music Italy) una ballad intima che segna il ritorno di Achille Lauro in una nuova veste essenziale e introspettiva come si evince nel videoclip fuori su youtube girato per intero nella città eterna tra l’Ara Pacis e le iconiche vie del centro storico.
Nel 2023 Achille Lauro sarà anche in tour negli istituti superiori italiani per il progetto Achille Lauro nelle scuole con il supporto di H-farm, Amazon e Code.org, un’occasione speciale dedicata alle nuove generazioni per stabilire un dialogo tra gli studenti e il cantante, da sempre sensibile alle tematiche che riguardano i ragazzi stimolandoli a misurarsi con aspettative e timori, e con la consapevolezza delle tante opportunità che oggi hanno a disposizione.

Al “Pannunzio” la storia della Resistenza di cattolici e autonomi

LUNEDÌ 20 FEBBRAIO ALLE ORE 18, presso la sede di Via Maria Vittoria 35h a Torino

Marco CASTAGNERI parlerà su “LA RESISTENZA DEGLI AUTONOMI E DEI CATTOLICI IN PIEMONTE”. Si tratta di un tema ancora poco conosciuto. Oltre a Martini Mauri e al partigiano santo Giorgio Catti è stata anche la Resistenza di tanti militari, di Cadorna, di Mattei, di Sogno, di Curreno, Gastaldi “Bisagno”, Taviani, Vian, Viglione, che il Centro “Pannunzio” iniziò a far conoscere con un ciclo storico al Circolo Ufficiali aperto da Raimondo Luraghi.

Garage rock USA 1966. Discografia minore / 25

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60


Eccoci infine giunti alla venticinquesima ed ultima sezione della discografia garage rock a stelle e strisce del 1966 riservata alle bands meno note al grande pubblico. Con quest’ultima tappa si chiude un viaggio articolato e un’indagine su una realtà tuttora ingiustamente poco rivalutata, quella del garage rock “minore”, che tuttavia riserva continuamente sorprese e scoperte inaspettate per studiosi e cultori del genere. C’è inoltre da rilevare un’altra realtà (ancor meno studiata): quella delle demo e degli acetati (ossia le “prove di stampa” preliminari dei vinili, prodotte per valutare l’esito della preparazione del disco matrice). In questa sezione conclusiva s
ono state inserite anche alcune bands di piccolo cabotaggio che riuscirono ad incidere 45 giri in assoluta economia di risorse e con esiti musicali e discografici a volte sinceramente mediocri; la loro presenza risulta tuttavia efficace, poiché costituiscono un ideale ponte di collegamento proprio con tutta quell’area delle “prove di stampa” suddette…

–  The West Coast Branch “Linda’s Gone / Spoonful”  (Valiant Records V-753);

–  Jack Eely & The Courtmen “Louie Louie ‘66 / David’s Mood”  (Bang Records B-520);

–  Zoofs “Get To Know Yourself / Not So Near”  (Deesu 310);

–  Larry Mack “Last Day Of The Dragon / Can’t You See Me Crying”  (Ty Tex TT-126);

–  The Echomen “Long Green / Chocolate Chip”  (Fox N. 1);

–  The Aftermath “Messing With The Kid / Bury My Body”  (Tortoise Records T-66003);

–  Secret Agents Of The Vice Squad “I Saw Sloopy / Things Happen”  (Jerden 784);

–  Tommy Tucker & The Esquires “Don’t Tell Me Lies / What Would You Do”  (IGL Records 45-121);

–  The Wonders “I’m Not Willin / Baby Come Back”  (MMC 45-011);

–  The Tortians “Vibrations / Red Cadillac”  (Karry Way Records 106);

–  The Lazy Eggs “I’m Gonna Love You / As Long As I Have You”  (Enterprise Records E-5060);

–  The Capes Of Good Hope “Shades / Lady Margaret”  (Round Records 1001);

–  Vic Pernell & The Hangmen “Live For Today / Sad Boy”  (Century Records 23830);

–  The Reactors “Do That Thing / 1 – A”  (Cameo C-446);

–  The Gee Tee’s “Put You Down / Dog”  (Perfection Rock Sound Studios 566);

–  The Gamins “Ridin’ High / Freeway”  (Soma 1459);

–  The Sky “I’m Not A Fool / I Know What’s Up”  (Dynovoice Records 224);

–  Michael-John & The Pendulums “You’re Wrong Girl (voc.) / “You’re Wrong Girl (instrum.)” (Bob-Ke 275C-121237);

–  [The] Bird[-]Dogs “Shoppin Around / Unchain My Heart”  (IGL Records 45-118);

–  The Mercy Boys “This Girl / Long, Tall Shorty”  (Panorama 45);

–  The Cholos “Last Laugh / Whistling Surfer”  (Farad Records 45-1485);

–  The Lagnafs “Your Money Couldn’t Buy Me / Yes I Do”  (45-101);

–  The Stonemen “No More / Where Did Our Love Go”  (Big Topper Records 1107/1108);

–  The Gremlins “Eeverybody Needs A Love / Wait”  (SS-8430-01).

Gian Marchisio

Torino e i suoi musei. Museo Lombroso – antropologia criminale

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Torino e i suoi musei / Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lombroso – antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

9 Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Il Museo di Antropologia Criminale espone gli studi che Cesare Lombroso (Verona 1835-Torino 1909) eseguì tra l’Ottocento e il Novecento: fanno parte della raccolta preparati anatomici, disegni, schizzi, fotografie, corpi di reato, e le particolari produzioni artigianali degli internati dei manicomi e delle carceri.
Non deve essere stato semplice per la famiglia di Cesare accettare che il celebre studioso organizzasse la sua prima esposizione di “scheletri e armi del delitto” proprio nella sua stessa casa. Chissà se fu proprio la signora Lombroso a spostare, l’anno successivo, nel 1877, un pezzo alla volta, gli attrezzi del mestiere del marito in Via Po 18, dove si trovava lo studio.
Superati i probabili battibecchi familiari, Cesare espose nel 1884 due vetrine ricolme di crani, maschere, fotografie criminali e altri oggetti a dir poco inquietanti, all’ Esposizione Generale di Antropologia Italiana.

Il tempo passa e il materiale si accumula, ecco nuovamente il problema di dove contenere questa raccolta in continua crescita. Nel 1896, quella che poi diverrà la collezione del Museo, viene esposta in via Michelangelo 26, sotto la supervisione dell’amico e assistente Mario Carrara, il quale provvede a riordinare la miriade di oggetti in sei sale differenti, arricchendola a sua volta con reperti inerenti agli sviluppi della polizia scientifica e della medicina legale.
Gli appassionati studi di Lombroso e di Carrara devono sopportare un periodo di dimenticanza, fino alla riscoperta avvenuta intorno agli anni Settanta del Novecento, in occasione della fortunata mostra “La scienza e la colpa”.

Solo nel 2001 la collezione riesce a trovare una sistemazione definitiva presso il Palazzo degli Istituti Anatomici, inserendosi nel progetto “Museo dell’Uomo”, che prevedeva una sede comune per i musei di Anatomia Umana, Antropologia Criminale, Antropologia ed Etnografia (ora in via Accademia Albertina); nella stessa residenza venne poi affiancato il simpatico Museo della Frutta.
Ogni tanto trovo la scusa per andarci, al Museo Lombroso, non è eccessivamente grande e non richiede chissà quanto tempo, certo tutto dipende dagli intenti personali e dalla relatività dei termini “tanto tempo”. Incominciamo dunque la visita.
Nella prima sala sono accompagnata dal sonoro di un dialogo immaginario tra due individui che discutono sugli studi di Lombroso; le voci cadono su alcuni mobili e macchinari che sono scenograficamente disposti per riprodurre lo studio del criminologo. Ciò che i due protagonisti dicono è importante per capire il contesto sociale in cui Cesare opera e per comprendere le valide riflessioni che vengono affrontate sul progresso e sui suoi limiti.

Nella seconda sala mi ritrovo in un luogo a metà tra scienza e fantascienza, una moltitudine di strumenti tecnici per rilevazioni morfologiche e funzionali dimostrano la tesi lombrosiana, per cui follia, delinquenza e genialità sono fenomeni quantificabili e oggetto di studio con metodo scientifico.
Impattante è la terza sala: l’ambiente ricorda i musei di antica concezione, teche e pavimento scricchiolante, decisamente i miei preferiti. Qui facciamo conoscenza con Cesare Lombroso in persona, solo un po’ più magro di com’era in realtà: per volontà testamentaria il suo scheletro è esposto nel Museo, sorridente come i teschi dei tesori dei pirati, guarda i visitatori, come se non volesse smettere di continuare ad osservare e a studiare, sempre alla ricerca di nuove prove a favore della sua tesi.

Superato – credo, non ci è dato saperlo- l’esame di Cesare, possiamo dedicarci a guardare la numerosa rassegna di reperti umani, maschere mortuarie, corpi di reato, manufatti carcerari e manicomiali, nonché ritratti di criminali che ornano le pareti. Non c’è che dire, un po’ si accappona la pelle davanti a quei volti cerati, costretti ad essere esangui per sempre. In questa sala ci sono gli oggetti che più mi affascinano, si tratta dei mobili realizzati da Eugenio Lenzi, uno dei tanti sfortunati reclusi nel manicomio di Lucca. Sono mobili senza definizione, abilmente intarsiati e scolpiti, con una dovizia di particolari che solo un matto avrebbe potuto concepire. Tutte le volte che li osservo non posso che domandarmi: se fossero esposti alla GAM o al Castello di Rivoli, sarebbero giudicati allo stesso modo o diventerebbero magicamente opere di inestimabile valore artistico?
Mi prendo il mio tempo prima di proseguire, quegli oggetti hanno il potere d’incantarmi e tutte le volte scopro dettagli nuovi che mi fanno rimanere a bocca aperta. Qualcuno mi osserva, mi sento giudicata e proseguo verso la quarta sala. Mi trovo di fronte a dei teschi tagliati e a qualche scheletro, le didascalie mi ricordano che questa stanza spiega la teoria atavica di Lombroso, il quale sosteneva che il criminale regredisse ad una sorta di condizione primitiva dello stadio evolutivo; un video ricorda, a chi se lo fosse dimenticato, che la malformazione cranica della fossetta del teschio Villella è solo una variabilità individuale, non un fondamento scientifico.

La quinta sala è dedicata agli abiti realizzati da Giuseppe Versino, internato a Collegno, e altri oggetti creati da persone affette da disturbi mentali. Il binomio “genio-follia” è presente da sempre nella storia dell’uomo e nella storia dell’arte, si pensi all’ iconica e stereotipata figura di Vincent Van Gogh (1853-1890), artista inequiparabile, internato nel manicomio di Saint Remy, dopo essersi amputato l’orecchio e dove realizzò 150 opere in soli 53 giorni. Del resto proprio questo luogo mi fa venire in mente che la “lista dei pazzi” è decisamente ampia: Fancisco Goya (1746-1828) era affetto da encefalopatia, (causata da intossicazione da piombo presente nei colori), la malattia lo portò alla sordità e a disturbi di personalità; lo stesso Michelangelo (1475-1564) secondo alcune fonti era piuttosto schizofrenico, come dimostrerebbero le ricerche di Gruesser collegabili allo studio dei volti realizzati dal Buonarroti.

Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.

Continuando nel percorso espositivo, alla sala 6 si trovano le uniche tracce di vite anonime e maledette: graffiti e incisioni sugli orci per l’acqua dei detenuti del carcere di Torino. La sala 7 presenta il modellino del carcere di Filadelfia e la ricostruzione di una cella ottocentesca, qui si affronta la problematica della detenzione, divenuta nel corso dell’Ottocento architrave dei sistemi penali.
Sono quasi alla fine della visita e nuovamente incontro Lombroso, ma se prima era solo un silenzioso scheletro scrutatore, ora è una voce incorporea che mi parla come dall’Aldilà: è un discorso immaginario che ripercorre l’esperienza di studio, i pensieri, i dubbi che attanagliarono il grande pensatore, umanizzandolo e quasi tramutandolo in un normale “figuro” della bella époque torinese.

Uscendo, attraverso un lungo corridoio che mi riassume i punti principali della mostra: qui ho l’opportunità di rabbrividire ancora una volta alla vista della forca, proprio quella un tempo situata al “rondò” la piazza che ancora oggi in città così si chiama. Giustamente, a mio parere, perché il passato va studiato e compreso, ricordato e contestualizzato: se cancelliamo gli errori che abbiamo commesso, come possiamo correggerli e non ripeterli?

Alessia Cagnotto

Ramy. The voice of Revolution. A Racconigi

La “voce della rivoluzione egiziana” in scena sul palco della “Soms”

Domenica 19 febbraio, ore 17

Racconigi (Cuneo)

Partire dalla drammatica, intollerabile vicenda di Giulio Regeni (il giovane ricercatore friulano, 28 anni, scomparso al Cairo il 25 gennaio del 2016 e ritrovato cadavere per strada, torturato e massacrato, nove giorni più tardi, senza ancor oggi, dopo vari depistaggi e l’assenza di collaborazione dell’Egitto, aver fatto piena luce sulla reale “verità”) per riflettere su cosa significhino, ovunque nel mondo, parole come “Stato”, “Giustizia” e “Legalità”. Parte di qui l’idea dello spettacolo “Ramy. The voice of Revolution” di Valeria Raimondi e Enrico Castellani (“Babilonia Teatri” – Produzione “Teatro Metastasio” di Prato), inserito nella rassegna teatrale “Raccordi” di “Progetto Cantoregi” e “Piemonte dal Vivo” programmato per domenica 19 febbraio (ore 17) sul palco della “Soms” (ex Società Operaia di Mutuo Soccorso) in via Costa 23 a Racconigi (Cuneo). In scena, accanto alla Raimondi, a Castellani, ad Amani Sadat e a Luca Scotton, ci sarà anche Ramy Essam, conosciuto oggi in Egitto come la “ voce della rivoluzione egiziana”, fra i dimostranti in piazza Tahrir il 25 gennaio 2011 (allo scoppio della rivoluzione, che, nel giro di pochi giorni portò alla destituzione di Moubarak), dal 2014 in esilio e su cui pende un mandato di cattura per terrorismo da parte dell’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi.  Nel mandato di cattura non si fa alcun riferimento alla sua arte e ai contenuti delle sue canzoni (Ramy è uno dei pochi cantanti in Medio Oriente a cantare hard rock), ma è palese che il regime egiziano non gradisce in nessun modo la richiesta di libertà e giustizia per il suo popolo che lui canta senza sosta e che l’accusa di terrorismo è del tutto infondata. Le canzoni di Ramy, in Egitto e non solo, le conoscono tutti, i suoi video arrivano ad avere milioni di visualizzazioni, ma lui, per la sua gente, non può cantare. Neanche una nota. Una parola. La sua bocca deve restare chiusa. Può entrare in contatto con chi lo segue solo attraverso uno schermo. “Ramy – sottolineano gli organizzatori dello spettacolo – ha aperto i nostri occhi e ci pone domande che chiedono risposte. Domande che da soli non avevamo le parole per formulare, ma che oggi, lavorando sul palco fianco a fianco con Ramy diventano profondamente concrete, profondamente umane, profondamente politiche, profondamente autentiche”. “Con questo spettacolo – continuano – vogliamo dare voce a queste domande. Cosa significa Stato. Cosa significa giustizia. Cosa significa potere. Cosa significa polizia. Cosa significa processo. Cosa significa legalità. Cosa significa carcere. Cosa significa tortura. Cosa significa opinione pubblica. Cosa significano giornalismo e libertà d’informazione. Ramy lo canterà e lo griderà con la grazia, la poesia, la rabbia e la nostalgia di chi paga tutti i giorni un prezzo altissimo, l’esilio, per le proprie scelte. Vogliamo interrogarci sulla nostra debolezza. Sulla debolezza di uno Stato che non sa dare delle risposte trasparenti. Vogliamo raccontare come il nostro essere cittadini liberi in uno Stato libero incontri e si scontri con delle dinamiche da vittima e carnefice. Con delle dinamiche che ledono, offendono e giocano con la dignità delle persone. Crediamo che questo non sia mai ammissibile e che valga sempre la pena di ribadirlo con forza e determinazione. Per non smettere di essere cittadini liberi in uno stato libero”. Ramy, che oggi vive in Svezia e in Finlandia, nell’inverno scorso ha dedicato proprio a Giulio Regeni lo spettacolo “Giulio meets Ramy/Ramy meets Giulio”, andato in scena a Prato.

Per info e prenotazione: tel. 349/2459042 o info@progettocantoregi.it o www.progettocantoregi.it

g. m.

Nelle foto: Ramy Essam (Ph. Eleonora Cavallo)

Doppio debutto con l’Orchestra Sinfonica della Rai di Torino per Petr Popelka e Marie Ange Nguci

Giovedì 16 febbraio all’Auditorium Rai di Torino, con replica venerdì 17 febbraioanche in live streaming su Rai Cultura.it e in diretta su Radio 3.

Popelka, direttore principale della prestigiosa NDR Elbphilarmonie Orkester ad Amburgo è regolarmente invitato a lavorare con le più importanti orchestre europee. Attivo come compositore, vanta un passato da contrabbassista all’interno della storica formazione della Sachsishe Staatskapelle di Dresda.

In apertura di serata, Popelka proporrà “Three questions with twoanswers di Luigi Dallapiccola, scritta tra il 1962 e il 1963, anni nei quali il compositore italiano si stava avvicinando all’avanguardia artistica europea. Musicista italiano, Luigi Dallapiccola mise in rilievo l’importanza per la sua formazione dell’ambiente istriano, inquieto punto d’incontro di tre diverse culture. Il periodo di confino trascorso a Graz, dal marzo 1917 al 1918, segnò profondamente la sua adolescenza, sia nella formazione del carattere sia nelle esperienze musicali. All’OpernHouse di Graz, ebbe la possibilità di ascoltare quasi tutte le opere di Wagner, il Fidelio di Beethoven, il Don Giovanni di Mozart, Opere di Verdi, tra cui l’Otello e Un ballo in maschera e composizioni sinfonico corali come il Messia di Haendel, la Creazione di Haydn, la IX Sinfonia di Beethoven e lo Schicksalsied di Brahms. Dopo il rientro a Pisino, Dallapiccola riprese gli studi liceali e continuò quello della musica a Trieste, con Alice Andrich Florio per il pianoforte e Antonio Illersberg per l’armonia, che gli fece conoscere la tradizione polifonica italiana del ‘500 –‘600 sia esperienze musicali contemporanee, tra cui opere di Ravel e Schoenberg. Significativo fu il suo soggiorno a Firenze, dove studiò pianoforte con Ernesto Consolo, diplomandosi il 10 novembre 1924, e la composizione con Roberto Casiraghi, Corrado Barbieri e Vito Frazzi, conseguendo il diploma nel 1931.

Nel 1930 fu significativo un viaggio a Berlino e Vienna, al seguito della danzatrice americana La Meri, che costituì per Dallapiccola un’esperienza particolarmente significativa perché gli permise di assistere alle rappresentazioni di Salomè e Elektra di Strauss e all’esecuzione della Prima Sinfonia di Mahler. Il decennio ’30 – ’40 fu per il Dallapiccola un periodo di intensa attività basata sull’approfondimento della musica dodecafonica, e la partecipazione alle più importanti manifestazioni musicali di quegli anni.

Per il suo debutto con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Nguci, balzata all’attenzione del pubblico nel 2018 con il cd “En miroir” propone il Concerto n. 24 in do minore per pianoforte e orchestra k 491 di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguito per la prima volta il 3 aprile del 1786. Il Concerto per pianoforte e orchestra N.24 in do minore k 491 rappresenta una via di mezzo tra il troppo facile e il troppo difficile. Nonostante l’uso del modo minore sia nel k 466 che nel k 491, la timbrica delle due composizioni risulta assai diversa per l’uso di due clarinetti nell’organico orchestrale, e per l’assenza, nel finale, di una risoluzione luminosa, come avviene nel k 466, che rappresenta una coda da dramma giocoso. L’orchestra risulta la più ampia che Mozart abbia mai impiegato in un concerto, con impiego di un flauto, due oboi, due clarinetti, due fagotti, oltre che due corni, due trombe e timpani. La tavolozza orchestrale è usata al massimo dal compositore nel movimento lento, e nel finale, nel quale, al posto del classico rondò, è utilizzata la forma del tema con variazioni. Il concerto termina in modo assolutamente coerente in un clima drammatico e con un cambio di tempo.

Il concerto si chiude con “Also sprach Zarathustra” opera 30 di Richard Strauss, che si apre con una delle più sfolgoranti apparizioni del sole mai descritte in musica. Stanley Kubrick l’ha utilizzata fin dai primi fotogrammi del suo “2001 Odissea nello spazio”.

Il brano fu eseguito per la prima volta nel 1896 a Francoforte, e è ispirato all’omonimo poema filosofico di Nietzsche. Questa composizione del poema sinfonico assorbì Richard Strauss per un periodo di sette mesi, tra il febbraio e l’agosto del 1896, quando l’autore diresse la prima esecuzione il 27 novembre dello stesso anno a Francoforte, con la Museum Stadtlisches Orkester. A quell’epoca, all’età di 32 anni, Strauss era all’apice del suo successo, era un personaggio di punta della vita musicale tedesca, non solo per la sua brillante attività di direttore d’orchestra, ma anche per la sua immagine di compositore d’avanguardia. Si confermava erede della corrente neotedesca di Wagner e Liszt, quella corrente che insisteva sulla necessità di donare alle composizioni musicali un contenuto programmatico, letterario o narrativo, capace di integrare e chiarire il contenuto musicale esposto da una orchestra di grandi dimensioni. Risale all’epoca tra il 1886 e 1898 il lungo ciclo di poemi sinfonici, che costituisce un monumento di un credo musicale annunciato.

Also Sprach Zarathustra” rappresenta la terz’ultima delle prime otto composizioni, a metà strada dell’intero percorso. Fu giudicata in termini controversi dai commentatori, e punto d’arrivo di una fase “ascendente” della produzione sinfonica di Strauss. Per alcuni fu considerata la prima manifestazione di una fase discendente, in cui alla dilatazione delle partiture corrispondeva una dispersione del materiale musicale e una involuzione ideologica delle tematiche trattate. E’ il primo dei poemi sinfonici di Strauss a estendersi per una lunga durata e a comportare forti connotazioni ideologiche, apparendo una delle più importanti partiture dell’intero ciclo. L’omonima opera letteraria di Nietzsche risale agli anni tra il 1883 e il 1885, con sottotitolo “Un libro per tutti e per nessuno”, espressione con la quale egli intendeva riferirsi alla scelta di creare uno scritto filosofico capace di operare una riforma chiarificatrice nell’esposizione, sottraendo il contenuto filosofico a un linguaggio tecnicistico. Si tratta dell’opera di Nietzsche che tratta la morte di Dio, concetto ripreso dalla “Gaia Scienza”, ovvero il progressivo distacco dell’Occidente da Dio, che equivale alla sua uccisione, e che comporta il crollo dell’impalcatura di certezze e credenze che hanno accompagnato l’umanità per duemila anni. Viene espressa l’idea dell’ “Oltreuomo”(Ubermensch), l’uomo nuovo che supera il vuoto di valori perché ha reciso il legame col trascendente, scoprendo il valore della propria natura corporea e terrena, grazie alla forza creatrice che gli permette di sostituire ai vecchi doveri la propria volontà.

MARA MARTELLOTTA

 

Biglietti: da 9 a 30 Euro, in vendita online sul sito dell’OSN Rai e presso la biglietteria dell’Auditorium Rai di Torino. Informazioni 0118104653.

Biglietteria.osn@rai.it

www.osn.rai.it