CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 117

Cara vecchia Rai: il 3 gennaio 1954 nasceva la Tv

La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio

 Di Marco Travaglini

Domenica è sempre domenica. Si sveglia la città con le campane”. Evaristo Sgancia, come è solito fare, entra fischiettando nel bar in Piazza Salera, a Omegna. La melodia è sempre la stessa da cinquant’anni, da quando rimase folgorato davanti alla televisione che trasmetteva Il Musichiere.

Un’aria orecchiabile che al vecchio operaio della Cobianchi è rimasta indelebilmente impressa nella memoria. Più invecchia e più vive di ricordi. E di abitudini che ormai non si scrolla più da dosso. Tra queste, quella di portarsi la sedia da casa quando va a vedere le partire al bar o al Circolo. Come un tempo, quando la gente si radunava davanti ai pochi apparecchi televisivi per vedere Lascia o raddoppia?, Campanile Sera o, appunto, Il Musichiere. Quando poi incrociava Gino Denti, coscritto e compagno di lavoro nel far tondi e laminati al tempo della ferriera, erano scintille. Divisi su tutto, litigavano che era un piacere. Ogni pretesto era buono, dalla passione per la pesca allo sport, dalle donne alla televisione. Anzi, “alla Tv di una volta, non quella robaccia che si vede adesso”.

Parola del Denti che, pur non portandosi appresso la sedia, in quel caso non solo evitava di contraddire l’amico (una rara eccezione) ma lo comprendeva, rammentando i bei tempi andati. Dopo di ché, rimessa in moto la memoria, infuriava la polemica. “ Il Mario sì che era un ganzo. Conduceva il Musichiere alla grande”, asseriva Evaristo con voce possente. “Tutte balle. Il migliore è sempre stato il Mike e già ai tempi si vedeva di che stoffa era fatto”, ribatteva Dino, rosso in viso. La discussione, per quanto fosse concitata, s’incanalava immancabilmente sull’onda dei ricordi. Su un punto concordavano: la superiorità della “tele” degli anni ruggenti, quando iniziarono le trasmissioni del “Programma Nazionale”. “La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio.  E alla sera prese  il via la prima puntata ufficiale de“La Domenica Sportiva”, con le immagini della partita Inter-Palermo ( per la cronaca, vinsero i nerazzurri per 4-0 e il campionato li vide poi conquistare il settimo scudetto mentre i rosanero siciliani retrocedettero in serie B). Fin qui, tutto liscio. L’intesa era solida. Ma da lì in poi, apriti cielo: le trasmissioni erano il loro muro di Berlino. Uno per l’altra e l’altro per l’una, ardentemente critici e polemici. Evaristo era un fans de Il Musichiere, un gioco a quiz basato sulle canzoni, condotto da Mario Riva- pseudonimo di Mariuccio Bonavolontà dove  i concorrenti, seduti su di una sedia a dondolo, dovevano ascoltare l’attacco di un brano musicale e, una volta riconosciuto, precipitarsi a suonare una campanella a dieci metri di distanza per avere diritto a dare la propria risposta, accumulando gettoni d’oro per il monte premi finale.

A eseguire i  motivi musicali ci pensava l’orchestra di Gorni Kramer , affiancata da due cantanti: Nuccia Bongiovanni e un giovane alle prime armi, un tal Johnny Dorelli. La trasmissione andò in onda il sabato sera per novanta puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960 e ben presto diventò il contraltare di Lascia o raddoppia? ( per la quale stravedeva Dino Denti ). Lascia o raddoppia? , condotto da Mike Buongiorno, andò in onda a partire dal 26 novembre 1955 ogni sabato sera, alle ore 21,00, fino all’ 11 febbraio 1956 e ogni giovedì sera dal 16 febbraio1956 al 16 luglio 1959. Il primo, e più famoso, programma a quiz della RAI, ipnotizzava i telespettatori, incollandoli davanti allo schermo in bianco e nero. Nel corso della prima serata il concorrente doveva rispondere ad otto domande, nel tempo massimo di trenta secondi per ciascuna. Il montepremi iniziale era di 2.500 lire. Ad ogni risposta esatta il montepremi raddoppiava, ma se sbagliava non c’era pietà: veniva eliminato. Se invece rispondeva esattamente a tutte le otto domande, raggiungendo così la quota di 320.000 lire, aveva diritto a ritornare alla settimana successiva. Al ritorno, il conduttore rivolgeva al concorrente la domanda: Lascia o raddoppia? Se il concorrente “lasciava” intascava la somma vinta fino a quel momento, altrimenti doveva entrare in una cabina, con una cuffia attraverso la quale poteva sentire solo la voce di Mike. Di domanda in domanda, con il tempo scandito da un orologio e da una musica d’archi a far da sottofondo, cresceva la suspence. Rispondeva esattamente? Il montepremi raddoppiava e tornava la settimana successiva. Ma se la risposta era sbagliata il suo montepremi andava in fumo ed era eliminato dal gioco.

A dire il vero non andava via a mani vuote. Le poteva stringere attorno al volante di una Fiat 600 che rappresentava la “consolazione “ ( e buttala via! ). Di raddoppio in raddoppio, la somma che il concorrente poteva vincere era di 5.120.000 lire (al massimo poteva partecipare a cinque puntate consecutive). Se intascava il premio passava alla storia del quiz altrimenti “raddoppiava” la consolazione, portandosi a casa una Fiat 1200. La popolarità della trasmissione fu tale che la RAI, nel 1956, dovette spostarne la programmazione dal sabato al giovedì a seguito delle proteste dei gestori delle sale cinematografiche, che avevano visto assottigliarsi vistosamente i loro incassi proprio nella serata settimanale tradizionalmente più redditizia. Ma le cose non andarono per il verso giusto e il rimedio si rivelò, paradossalmente, peggiore del male, quando la serata del sabato, rimasta libera, fu occupata dal Il Musichiere, a sua volta popolarissimo, tanto da costringere molti cinema, ad installare televisori in sala per non perdere la  clientela. Così capitava che i militari in libera uscita erano costretti a vedere i film a metà, poiché dopo il primo tempo “andava in onda” il quiz televisivo e, ad una certa ora, dovevano per forza ritornarsene in caserma. La concorrenza tra il conduttore italoamericano e il cantante romano si mostrò anche sul versante del “gentil sesso” e dei concorrenti famosi.

A Lascia o raddoppia venne inventata la figura della valletta, dove spopolò Edy Campagnoli, diventando una delle beniamine del grande pubblico (accrebbe la sua popolarità sposando il portiere del Milan e della Nazionale, Lorenzo Buffon ). E qui il ricordo si fa languido: “Ah, la Edy! Che donna. Aveva una grazia ed un’eleganza che oggi se la sognano quelle lì, pronte a far vedere la mercanzia quasi fossero al mercato”, sospirava, sognante, il Denti. Evaristo, per non essere da meno, ricorda che al fianco di Mario Riva di vallette ce n’erano addirittura due, le “Simpatiche“. “ Altro che “letterine”, “figurine”, “plastichine” e balle varie: in quel ruolo si sono avvicendate delle donne bellissime come Carla Gravina e Marilù Tolo”, sottolineava stirandosi i baffetti. E i concorrenti,eh? Al Musichiere le vincite erano più magre e l’unico campione che emerse dall’anonimato, con una vincita di otto milioni di lire circa, fu  un cameriere di Roma, Spartaco D’Itri, che con il premio vinto aprì un’attività in proprio. “ La nostra, caro il mio Gino, era una trasmissione per i proletari”, sottolineava con malizia lo Sgancia. Il quale, di rimando, tesseva le lodi del torinese Gianluigi Mariannini che, in cinque puntate, rispondendo esattamente a domande sulla storia del costume,  mise “ in cascina” la cifra-record di cinque milioni e 120 mila lire (poco più di 60 mila euro attuali).

Stravagante, dai modi eccentrici, con gli occhialini tondi e spessi e la barbetta cavouriana, il filosofo-dandy era stato uno dei più pittoreschi personaggi della Tv di quel periodo. I due amici con il gusto della polemica, prima di comandare un litro di barbera per farsi compagnia ( anzi: “un mezzo a testa, così non litighiamo”), ricordano una famosa puntata del 1959 de Il Musichiere, quando  i due nemici Fausto Coppi e Gino Bartali (annunciati dal roboante “nientepopodimenoché” di Mario Riva) fecero la pace sulle note di “Come pioveva”, trasformata per l’occasione in “Come perdevi”. “Erano come noi, eh Gino. Peccato che io non mi chiamo fausto, altrimenti pensa un po’ che roba: uguali in tutto e in tutto differenti, come cani e gatti”. Evaristo scoppia a ridere . La risata contagia anche Gino. Si alzano, salutano e se ne vanno a casa. Ognuno per la sua strada. Evaristo portando in spalla la sua sedia impagliata.

“La locandiera” di Miriam Mesturino, femminismo e languori

Repliche all’Erba nel mese di gennaio

È stata definita la più bella commedia di Carlo Goldoni, nata al teatro Sant’Angelo di Venezia negli ultimi giorni del 1752, “La locandiera”, anche “la più morale, la più utile, la più istruttiva”, stando alle parole dell’autore. In una Firenze che mette l’autore al riparo dai malumori della maggiore classe veneziana, un brillante personaggio femminile, tratteggiata con pieno realismo e a tutto tondo (lontano da quelle maschere che erano ancora materia della commedia dell’arte e che possono essere qui incarnate dalle due comiche), una donna non priva di difetti ma dalle molte virtù, intraprendente e combattiva, onesta e corteggiata, un esempio ante litteram di donna manager, antesignana evidente del femminismo odierno, inequivocabile esempio di donna ”moderna” che bada giorno dopo giorno ai propri interessi, esempio, seppur piccolo, di una borghesia mercantile che nel secolo di Goldoni si sta espandendo, una donna capace di tenere a bada gli assalti amorosi dei nobili e nobilastri che arrivano nelle stanze della sua locanda. Una donna che usa parole secche e abili moine, che lusinga e che allontana, che sa tenere a bada, che usa attenzioni e che non esita a mettere all’angolo un atteggiamento o una parola di troppo dell’avversario: con lei non vince il Conte che forte del proprio denaro sfoggia regali preziosi, né tantomeno il Marchese, capace ancora di vantare una nobiltà ormai trascorsa e di trincerarsi dietro azioni che salvaguardino le sue debolissime sostanze. Nè il Cavaliere, “disprezzator delle donne”, campione di misogenia, che, pure desideroso di alzare una inviolabile barriera e sbandierando ogni sua personale convinzione, scivola a poco a poco travolto dai gesti d’attacco sempre guantati della locandiera.

A fronte di una nobiltà verso cui l’autore è profondamente critico, si pone il “popolano” Fabrizio, che non accampa aspirazioni sociali ma ad ogni apparizione rivendica il suo innamoramento, strenuo e antico, per Mirandolina. Di cui il lieto fine, “amoroso”, non riuscirà a scalfire il carattere malizioso ma soprattutto l’intraprendenza e l’indipendenza, irrinunciabili.

Da tredici anni Torino Spettacoli porta in scena, appuntamento d’obbligo della compagnia, il che vuol anche dire aggiornamenti nei ruoli, con la svelta regia di Enrico Fasella, il testo goldoniano, interprete Miriam Mesturino: la quale ormai si rigira tra le mani il personaggio come vuole, con intelligenza e con grande divertimento, esatta a ogni estro e a ogni sospiro, languori e svenimenti e quotidiane filosofie, aspra e dolce secondo chi le stia davanti. Con lei, Alessandro Marrapodi che dà una bella corposità al suo Conte di Albafiorita, dagli occhi alle invenzioni vocali è tutto da goderselo, come il Cavaliere di Ripafratta di Luciano Caratto denuncia un più che convincente percorso di robustezza iniziale per poi mostrare con giusti ritmi il proprio cedimento. E ancora il godibilissimo Stefano Fiorillo come Marchese, Barbara Cinquatti e Maria Elvira Rao nei ruoli delle due comiche. Stefano Bianco è Fabrizio: emozione e imperizia forse gli fanno nascondere in più occasioni il peso e la presenza determinante del personaggio, la voce gli si soffoca e pare abbia voglia sul termine degli interventi di sparire in fretta dalla scena. Le repliche (nei prossimi 11, 15 e 16 gennaio alle ore 10, il 12 alle ore 11, sabato 13 alle 21 e domenica 14 alle 16) sono lì a dargli più coraggio. Nota a margine per uno spettacolo applauditissimo da un pubblico numeroso, davvero divertito, nella sala dell’Erba di corso Moncalieri.

Elio Rabbione

Nuove repliche per Extreme Magic Show

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Successo straordinario per l’appuntamento natalizio con la magia alla Casa del Teatro che ha già venduto oltre 4000 biglietti

Fino al 7 gennaio in scena un varietà per tutta la famiglia prodotto da Muvix con gli artisti del Circolo Amici della Magia di Torino, la più importante realtà magica italiana. Arrivano così a 22 le repliche programmate di cui numerose sold out

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Gli artisti del Circolo Amici della Magia sono abituati allo stupore e alla meraviglia ma questa volta si sono superati. Il loro Extreme Magic Show, prodotto da Muvix Europa e in cartellone alla Casa del Teatro fino al 7 gennaio sta inanellando una serie di sold out a catena superando i 4000 biglietti già venduti. Un successo straordinario che ha indotto gli organizzatori ad aggiungere, a grande richiesta, due ulteriori repliche (mercoledì 3 e giovedì 4 gennaio alle 15.30) che portano a 22 il totale degli spettacoli previsti.

Lo spettacolo porta in scena il tentativo del giullare Nespolo di diventare principe attraverso il bacio di una principessa, ma per raggiungere il suo obiettivo, dovrà superare le prove del Grande Maestro di Magia, Marco Aimone (primo prestigiatore laureato alla Silvan Magic Academy, da diversi anni Presidente del Circolo Amici della Magia di Torino). L’inedita coppia sarà protagonista di istanti di divertimento e meraviglia.

Guest star di questa edizione, Ottavio Belli, uno degli Illusionisti Italiani di maggior successo nel mondo, laureato in Cina come “Excellent Act Award” e “Special Prize of the Jury” al “Chimelong International Circus Festival”. Ottavio Belli e Claudia Veneziano sono specializzati nelle grandi illusioni, effetti magici di grande impatto visivo in grado di regalare istanti di suspense e stupore e proporranno una serie di effetti di notevole spettacolarità. Diego Allegri, artista molto seguito dai giovani su YouTube nei suoi tutorial magici, coinvolgerà il pubblico in numeri di manipolazione sorprendenti. Ma ci sarà spazio anche per la poesia e la magia delle ombre cinesi, forma d’arte visuale antichissima e ricca di suggestione e meraviglia.

Meraviglia, dunque, sorpresa e divertimento per trascorrere 75 minuti di grande spettacolo tra realtà e illusione, dove manipolazione di oggetti misteriosi, sparizioni, riapparizioni e coinvolgimento del pubblico sono solo alcuni degli ingredienti di uno spettacolo divertente e per tutta la famiglia.

La produzione è curata da Muvix Europa, realtà di produzione artistica capace di coniugare l’illusionismo con le più diverse discipline dello spettacolo, per realizzare soluzioni su misura.

I biglietti sono acquistabili presso la biglietteria della Casa del Teatro (Corso Galileo Ferraris 266), oppure sui siti www.magic-show.it e casateatroragazzi.it.

EXTREME MAGIC SHOW

Prodotto da Muvix Europa in collaborazione con il Circolo Amici della Magia di Torino

Con Marco Aimone, Diego Allegri, Ottavio Belli e Claudia Veneziano e Nespolo Giullare (Manuel Bruttomesso)

Fino al 7 gennaio 2024

Mercoledì 3 gennaio ore 15.30 e ore 18

Giovedì 4 gennaio ore 15.30 e 18
Venerdì 5 gennaio ore 18 e 21

Sabato 6 gennaio 15.30, 18 e 21

Domenica 7 gennaio 15.30 e 18

CASA DEL TEATRO RAGAZZI E GIOVANI – Corso Galileo Ferraris 266, Torino

Intero € 20
Ridotto € 16 (over 65, abbonati stagione 2023/2024, associazioni e CRAL convenzionati)
Ridotto ragazzi € 12 (under 14)

Info e prenotazioni Tel. 389.2064590 – biglietteria@casateatroragazzi.it

magic-show.it – casateatroragazzi.it

BIGLIETTERIA

Fondazione TRG c/o CASA del TEATRO RAGAZZI e GIOVANI
c.so Galileo Ferraris, 266 – 10134 Torino
tel. 011/19740280 – 389/2064590
biglietteria@casateatroragazzi.it     www.magic-show.it –  www.casateatroragazzi.it

“Fotografia è donna”…  in 120 scatti “da donna a donna”

In mostra, a “La Castiglia” di Saluzzo e al “Filatoio” di Caraglio, suggestive visioni dell’ “universo femminile”, cristallizzato da dodici donne-fotografe appartenenti alla “Magnum Photos”

Fino al 25 febbraio 2024

Saluzzo (Cuneo)

Donne fotografe e donne fotografate. Donne davanti e donne dietro l’obiettivo. Sono decisamente tutti “scatti d’autore”. Nel complesso 120, pagine di nitida, poetica o delicata o bruciante interpretazione di un “universo femminile” che corre e scorre con tutto il suo carico di affetti, ansie, gioie e paure lungo settant’anni di Storia, dal Dopoguerra ad oggi. Dietro a tutte, un marchio che è assoluta garanzia: quello dell’Agenzia “Magnum Photos”, fra le più importanti agenzie fotografiche del mondo, fondata nel lontano 1947 (dopo vari incontri al ristorante del “Moma” di New York) niente meno che da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger e William Vandivert. Come dire: dal gotha dell’arte fotografica del tempo. E di oggi, ancora. Dodici sono le autrici, ma con loro anche sei autori della “Magnum” appassionati interpreti delle tematiche in gioco, intorno a cui ruota “Fotografia è donna. L’universo femminile in 120 scatti dell’agenzia ‘Magnum Photos’, dal Dopoguerra a oggi”, mostra ospitata fino al 25 febbraio 2024, nelle sale dell’antico Castello, oggi Museo, de “La Castiglia” a Saluzzo (Cuneo).

Curata da Walter Guadagnini (direttore di “CAMERA”) e da Monica Poggi, la rassegna vede l’organizzazione del “Comune di Saluzzo” e di “Fondazione Artea”, in collaborazione con la torinese “CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia”, “Magnum Photos” e “Fondazione Amleto Bertoni”. Sei i nuclei tematici, cui è affidato il compito di descrivere il “Pianeta-Donna”, visto, recepito e fermato nello spazio e nel tempo attraverso molteplici punti di osservazione, in ottiche diverse ma “corali” nella definizione della specifica essenza della condizione femminile, immortalata nei più disparati luoghi del mondo e in epoche temporali assolutamente diverse. “Il contesto famigliare”“La crescita”“L’identità”“I miti della bellezza e della fama”“Le battaglie politiche” e “La guerra”: su questi “passaggi” fondamentali e identificativi ruota un iter espositivo in cui passano e si manifestano i grandi cambiamenti sociali che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo ed i primi decenni del XXI, in un continuo intreccio di vicende individuali ed episodi di più complessa e larga attualità. Fra le 12 firme al femminile rappresentate in mostra, le prime due “capostipiti” – donne ad essere accolte alla “Magnum Photos”: l’austriaca Inge Morath e l’americana Eve Arnold“Pioniere del protagonismo femminile nella narrazione per immagini della realtà, Inge ed Eve hanno aperto la strada – sottolineano i curatori – a una visione empatica e più attenta alla vita degli esseri umani. In molte ne hanno seguito le orme, smettendo i panni di muse dei grandi artisti dinanzi all’obiettivo e ponendosi invece dietro ad esso, per divenire le testimoni dirette dei mutamenti del loro tempo”.

Fra di esse, le altre dieci raccolte a “La Castiglia”, autrici di fama internazionale e giovani fotografe contemporanee, presenti con reportage realizzati in situazioni anche molto diverse sotto l’aspetto storico e geografico, ma sempre attente a mai sprecare, fino all’ultima carta, le difficoltà e le opportunità di un mestiere scelto in tutto e per tutto. E , in certi casi, nonostante tutto. I loro nomi: le inglesi Olivia Arthur e Marylin SilverstoneMyriam Boulos (Libano), le spagnole Cristina De Middel e Lùa RibeiraBieke Depoorter (Belgio), Nanna Heitmann (Germania), le americane Susan Meiselas e Alessandra Sanguinetti e l’iraniana Newsha Tavakolian. In parete anche i grandi scatti di alcuni celebri fotografi “che hanno saputo dar forma all’identità femminile, contribuendo a denunciare un contesto sociale che ha visto e vede ancora troppo spesso i diritti delle donne messi in discussione”: da Robert Capa (fra i fotografi di guerra più famosi e influenti del XX secolo) a Bruce Davidson ed Elliot Erwitt, per finire con Rafal Milach e gli italiani Paolo Pellegrin e Ferdinando Scianna.

In stretto collegamento con la mostra di Saluzzo, la “Fondazione Artea” propone inoltre al “Filatoio” di Caraglio (Cuneo), sempre fino al 25 febbraio 2024, la monografica “Inge Morath. L’occhio e l’anima” che celebra, nel centenario dalla nascita, la prima fotogiornalista nella storia della “Magnum”, portando oltre 200 delle sue opere nelle sale dello storico opificio.

Gianni Milani

“Fotografia è donna”

“La Castiglia”, piazza Castello 2, Saluzzo (Cn); tel. 0175/240006 o comune.saluzzo.cn.it

Fino al 25 febbraio 2024

Orari: ven. 15/19; sa. Dom. e festivi 10/19

Nelle foto (“Magnum Photos”): Eve Arnold “A baby’s first five minutes”,1959; Inge Morath “Untitled”, 1961; Marilyn Silverstone “Mrs Kennedy and her sister Princess”, 1962; Nanna Heitmann “Anti-war protests in Moscow”, 2022;  Robert Capa “In the middle Simone Segouin French Resistance fighter”, 1944

I libri più letti e commentati: dicembre

Un anno se ne va e quali letture accompagnano il fatidico passaggio? Nel nostro gruppo FB Un Libro Tira L’Altro Ovvero Il Passaparola Dei Libri i titoli più discussi del mese di dicembre sono stati: Le Armi Della Luce, ultimo romanzo di Ken Follett, che senza entusiasmare ha comunque incontrato il giudizio favorevole dei lettori; Giù Nella Valle, di Paolo Cognetti, che ha convinto tutti i lettori;  Apeirogon, di Colum McCann che tratta un argomento tragicamente attuale.

Incontri con gli autori

Questo mese vi invitiamo a conoscere Emanuele Martinuzzipoeta dalla ricca produzione lirica, Marianna Scagliola che esordisce con  Una Famiglia Allargata Cane Compreso(Graus, 2022) ovvero le avventure esilaranti della famiglia Schiattarella; segnaliamo qui anche il nostro speciale su Francesca Ceccherini e la saga di Sofia.

Per questo mese è tutto: vi ricordiamo che se volete partecipare ai nostri confronti, potete venire a trovarci su FB e se volete rimanere aggiornati sulle novità in libreria e gli eventi legati al mondo dei libri e della lettura, visitate il nostro sito ufficiale all’indirizzo www.unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Successo anche per il concerto – bis di Capodanno

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Ottima affluenza di pubblico anche per il secondo concerto di capodanno, in questo caso di musica classica, oggi alle 16,30 in piazza Castello a Torino. “Abbiamo voluto iniziare l’anno scommettendo ancora una volta sulla cultura, celebrando insieme il 2024 e una delle nostre eccellenze, il Museo Egizio, Torino, che entra nell’anno del suo primo bicentenario e a cui è dedicato il programma eseguito sul palco di Piazza Castello”, ha commentato il sindaco di Torino Stefano Lo Russo. Trasmesso  in diretta su SKY Classica HD, il concerto verrà riproposto questa sera su Rete 4 alle 23:45.

Piemontesi di Britannia

Raccontare la storia non è mai un fatto scontato e quando si cerca di superare gli steccati disciplinari, travalicando metodi, aggregando diversi elementi in un disegno composito, l’operazione diventa molto interessante e originale.

E’ il caso di Piemontesi di Britannia, importante libro di Andrea Raimondi sui legami spesso invisibili che intercorrono tra la regione subalpina occidentale e il Regno Unito. Se poi la scrittura mantiene una efficacia comunicativa che si accompagna al rigore della ricerca delle fonti e dell’argomentazione, il risultato può essere piacevolmente sorprendente. Andrea Raimondi, novarese di nascita, laureato in Lingue e Letterature dell’Europa e delle Americhe presso l’Università del Piemonte Orientale e con un dottorato in Italian Studies presso l’irlandese University College Cork, collaboratore della la rivista Savej, impegnatissima a divulgare la cultura piemontese, si era già segnato per l’impegno di ricerca su diversi temi. Tra le sue pubblicazioni più note si segnalano Il multilinguismo degli scrittori piemontesi – Da Cesare Pavese a Benito Mazzi (Edizioni Grossi, Domodossola) e Emigrazione piemontese – Una storia che si ripete, in Rapporto Italiani nel Mondo 2017, a cura di Delfina Licata per la Fondazione Migrantes. Nel poderoso volume Piemontesi di Britannia si sofferma su aspetti che spesso vengono scarsamente considerati dalla storiografia generale come se non avessero la dignità che meritano le indagini sugli scambi e rapporti individuali, le contaminazioni culturali che influiscono nel corso del tempo tra Stati, Imperi e regioni. Raimondi si è posto l’obiettivo di affrontare una prospettiva storiografica capace di mettere in rilievo i molteplici rapporti tra entità territoriali differenti, prendendo come riferimento le relazioni “speciali” che nei secoli hanno avvicinato il Regno Unito all’attuale regione piemontese. Le ragioni che spiegano i motivi di questa originale e antica “amicizia” sono seguite da dieci capitoli dedicati ad altrettanti personaggi (incluso un personaggio particolare: il Vercelli Book, conosciuto anche come Codex Vercellensis, uno dei quattro antichissimi manoscritti in lingua anglosassone, datato intorno al 975) che, in modo diverso, hanno contribuito a tracciare e irrobustire il ponte che idealmente unisce le isole britanniche al Piemonte. Per parecchi dei personaggi trattati (come il cardinale Guala Bicchieri, il musicista Felice Giardini, il pittore vigezzino Giuseppe Mattia Borgnis e sir James Hudson, ultimo rappresentante britannico nel Regno di Sardegna) non esistono biografie aggiornate, mentre per Samuel Morland (matematico, inventore e diplomatico ingiustamente dimenticato) sono stati pubblicati profili biografici in lingua inglese, ma mai in italiano. Interessantissimi anche gli altri profili da David Rizzio, politico e compositore, segretario privato di Maria Stuarda, regina di Scozia, al critico e poeta torinese Giuseppe Baretti, noto anche lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, dal leggendario maleschese Giovan Maria Salati, autore dell’impresa di attraversamento del canale della Manica a nuoto fino al grande scrittore albese Beppe Fenoglio del quale quest’anno si celebra il centenario della nascita. Gli intrecci  e le dinamiche  delle loro vite si intersecano con la grande storia, accompagnando il lettore alla ricerca dei fili invisibili ma ben saldi che legano il Piemonte dalle dentate e scintillanti vette di carducciana memoria al Regno sul quale sventola l’Union Jack.

Marco Travaglini

Quando i “lusciàt” si trovavano in piazza a Capodanno

La zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna

I “lusciàt”, cioè gli ombrellai ambulanti, hanno sempre fatto un mestiere duro, macinando chilometri su chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, arrangiando il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. La maggior parte proveniva dal Vergante, la zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava, appisolandosi, stanchi morti, sotto un cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile, quando tirava vento o scrosciava la pioggia. La loro vita era così, prendere o lasciare. Già da piccoli s’apprendeva  il mestiere, girovagando al seguito degli ombrellai adulti per le pianure piemontesi e lombarde, cercando di sfuggire alla miseria. Giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne.. à ghè l’ ombrelè!”, portando a tracolla la  “barsèla”, la cassetta nella quale erano riposti  tutti i “sápitt” , i ferri del mestiere del lusciàt: dai “ragozz”,le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici,  rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare, sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme. Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Per arrotondare il magro guadagno, spesso accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro , come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si trovavano a parlar d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione, le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza  che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo la povertà e l’indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin“, che tradotto equivale a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino” , come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi  nella piazza di Carpugnino. Reclutata così la manodopera  gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca di quei guadagni che potessero garantir loro un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella  famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Così, lontano da casa e dai propri cari, si accompagnavano nei lunghi tragitti con i loro canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il “tarùsc”. Sì, perché tra di loro, per tradizione e abitudine,  comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Secondo alcune ricerche etimologiche, più che  plausibili, basate sulla presenza di termini derivati dal tedesco nel tarùsc, e pensando a parole come  tarnen (maschera) e tarnung (mascheramento), è intuibile la volontà di crearsi una lingua tutta loro, adatta a  camuffare i loro discorsi. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano così comunicare con  rapidità e segretezza , scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” ed il cuoco un “brusapignat“. “Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano, riferendosi al fatto che  “L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli”.  Pensando alla vita comoda, scuotevano la testa sentenziando “la repenta ha biò l’elban in su la frisa” (la gallina ha fatto l’uovo sulla paglia). Era una critica, e guai a contraddirli, perché la “ghéna”, la fame, era tanta e ci si poteva considerare “brisòld” (ricchi) solo quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si può tradurre così: piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare , fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando veniva chiesta all’ombrellaio quale fosse la ragione di quel nome così strano, veniva raccontata anche la leggenda che individuava nel Tarùsc uno gnomo scontroso e permaloso che viveva  alle pendici del Mottarone e sulla Motta Rossa.  Poco incline a tollerare i forestieri ,si teneva ben nascosto nei boschi. Era lui che, in un tempo remoto, aveva insegnato agli uomini come costruire gli ombrelli, oltre a  trasmetter loro la sua lingua. Alto circa mezzo metro, dal pelo rosso ( come la sue scarpe), con un copricapo a forma di tricorno, era sempre vestito di verde. Combinare piccoli dispetti era uno dei suoi passatempi. Ma c’era un rimedio infallibile, qualora si era presi di mira da un Tarùsc: rovesciare sul pavimento alla sera un sacchetto di riso o di segale. Essendo lo gnomo un tipo  ordinato e pignolo, era costretto a passare l’intera nottata  a raccogliere granello per granello quanto versato. Ai Tarùsc  piacevano i rospi ma non è dato a sapere il perché. Oltre alle storie e alle leggende, quando tornavano a casa, raccontavano le avventure della loro vita randagia. E manifestavano un certo orgoglio  per quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e s’usavano le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili  sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone.  Molti di questi ombrelli fanno mostra di se nel museo a loro dedicati, a Gignese. Questo museo è l’unico al mondo dedicato al tema dell’ombrello e del parasole e vi sono conservati oltre mille pezzi fra ombrelli, parasole e impugnature di varie fogge e materiali. Nelle sale espositive sono ospitati pezzi curiosi e di notevole valore storico-culturale: dall’ombrello della regina Margherita di Savoia a quello appartenuto a Giuseppe Mazzini, tra i tanti. Gli esemplari nelle vetrine sono di rara fattura e squisitamente lavorati. Nel settore dedicato alla vita degli ombrellai si possono vedere le foto dei “pionieri” di quest’attività, i loro rudimentali attrezzi recuperati dalle antiche botteghe e quelli che li accompagnavano per le strade d’Italia e del mondo. Un itinerario storico, ricco di immagini e di testimonianze di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere e apprezzare un po’ ovunque. Non molto distante, a Massino Visconti, nel centro del paese, si può ammirare il monumento dedicato agli ombrellai. Realizzato nel 1972 dallo scultore Luigi Canuto, è stato eretto a ricordo dei molti “lusciàt” che, dalla fine del Settecento fino al primo Novecento, praticarono questo mestiere.

Marco Travaglini

 

“Ivo Saglietti. Lo sguardo nomade”. Al Museo del Risorgimento la prima retrospettiva del grande fotografo

“Nomade” e ribelle, una vita a raccontare gli ultimi del mondo

Fino al 28 gennaio 2024

… Quando si dice … il destino! E nel destino Ivo Saglietti ci credeva. Eccome, se ci credeva! “Ho aperto gli occhi – scriveva – nella luce del Mediterraneo, a Tolone, nel sud  della Francia, dove, se lo guardi a lungo, il sole diventa un cerchio nero. Credo che il primo sguardo determini anche un destino: quasi sicuramente è grazie a questa luce che sono diventato fotografo”. E di “destino” gli parlava anche l’amico scrittore Paolo Rumiz“Amico mio, alla fotografia hai sempre chiesto qualcosa che va molto oltre gli effetti speciali, qualcosa  che si chiama destino”. Già, il destino. Ognuno di noi ha il suo, si dice. Ed è un susseguirsi di eventi che ti accompagnano, senza vie d’uscita, per tutta la vita. E a volta ti giocano anche brutti scherzi che sarebbe bene non accadessero. In forme inaccettabili. Crudeli. Come quella, per un artista, di trasformare l’omaggio di una mostra a lui dedicata nella sua prima “retrospettiva”. La prima mostra del “dopo”. E’ il caso proprio di Ivo Saglietti (Tolone, 1948 – Genova, 2023), scomparso il 2 dicembre scorso, a poco più di una settimana dall’avvio della personale a lui dedicata nella “Manica” della Camera Italiana al “Museo Nazionale del Risorgimento” di Torino.

Personale divenuta dunque (per destino!) “mini-retrospettiva” volta ad omaggiare, fino a domenica 28 gennaio prossimo“la storia professionale dell’artista entrata a titolo definitivo nel Pantheon che raccoglie i grandi fotoreporter del nostro Paese”. Parole accorate, queste di Michele Ruggiero, presidente de “La Porta di Vetro” (impegnata dal 2013 in importanti attività di social engagement) promotrice della mostra – è ormai la quarta – realizzata con la curatela di Tiziana Bonomo (“ArtPhotò”), in collaborazione con il “Consiglio Regionale del Piemonte”, il “Comitato Diritti Umani e Civili” e “Intesa San Paolo”. 53 sono gli scatti esposti, tutti in bianco e nero (cifra linguistica ideale per esaltare i contrasti formali e quell’arsura di luce che impregna a fondo ogni immagine), quasi tutti di piccolo formato all’interno dei passepartout e incorniciati di nero, come la grande “scuola francese” (da Saglietti intensamente amata) ha sempre insegnato.

In parete troviamo un saggio, che va dagli anni ’80 al 2018, di un’importante carriera professionale ((ben tre i “World Press Photo Award” vinti, oltre ad altri numerosi e prestigiosi riconoscimenti) che si srotola per oltre quarant’anni, dall’inizio delle rivolte in Centro America – Cile e Perù – ad Haiti e ancora dal vicino Oriente al “Mar Musa” in Siria, dove Ivo incontra padre Paolo Dall’Oglio con cui stringe un sodalizio importante ed una complicità di idee sfociata in alcune mirabili foto presenti in mostra (“Padre Dall’Oglio sale nella luce verso la montagna”) e nel libro (negli anni ne ha realizzati otto) “Sotto la tenda di Abramo” (Peliti Editore), prima del rapimento nel 2013 del gesuita italiano mai più ricomparso. Si tratta di lavori in assignement come quelli per il “New York Times Magazine”, “Time”, “Der Spiegel”, “Newsweek” e collaborazioni con prestigiose agenzie di fotogiornalismo come “Sipa Press”, “Stern” e “Zeitenspiegel”. Ma ad Ivo non piaceva il lavoro “mordi e fuggi” sottoposto ai ritmi frenetici della cronaca. Da “cavallo solitario” e di gran razza, amava – l’immancabile Leica sempre a portata di scatto – la “lentezza”. Diceva: “La lentezza è un fondamento della fotografia …  Quando arrivo sul luogo del mio lavoro, il primo giorno raramente estraggo la macchina fotografica. Avanzo torno indietro, passeggio, giro intorno, osservo, prendo appunti. Tutto con grande lentezza, lasciandomi penetrare dalle sensazioni, cercando di entrare in sintonia con i luoghi e con le persone”. Mirabili, in questo senso, la foto dei “Braceros” a Cuba o quella dell’infermiera che bacia sulla fronte, sempre a Cuba, un bambino vittima del disastro di Chernobyl o ancora a Srebrenica l’immagine delle due donne vestite di bianco, con il velo sul capo, chinate in preghiera sopra le bare dei propri cari, premio “World Press Photo” 2010. Cristallizzazioni di sofferenze e dolori e tragedie indicibili. Vuote però di rabbia, di urla sguaiate, di esibizionismi rancorosi.

La fotografia, secondo Saglietti, non ha nulla da “dimostrare”, ma tanto da “mostrare”. Scrive Tiziana Bonomo:  “Neri intensi, ombre lunghe, colpi di luce muovono le magie che Saglietti usa per commuoverci. In lui sono inseparabili amore, disperazione e speranza”. E coraggio. Tanto. Quel coraggio “che non si  esprime soltanto – conclude Michele Ruggiero – nella ricerca di un bianco e nero che vuole snidare l’indifferenza dalle nostre coscienze, ma nell’amore che esprime per gli ultimi, che sono anche i più deboli”.

Gianni Milani

 

“Ivo Saglietti. Lo sguardo nomade”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimentotorino.it

Fino al 28 gennaio 2024

Orari: dal mart. alla dom. 10/18

Nelle foto: “Braceros il giorno della paga”, Repubblica Domenicana, 1993; “Padre Dall’Oglio sale nella luce verso la montagna”, Mar Musa – Siria, 2002; “La città dei bambini”, Cuba, 1993; “Due donne piangono dopo aver trovato le bare dei propri cari”, Srebrenica-Potočari (Bosnia ed Erzegovina), 2009

Il “Natale” di Eduardo, un capolavoro di risate anche oggi

Sino al 7 gennaio sul palcoscenico del teatro Alfieri

Dici Eduardo e dici “Natale in casa Cupiello”. L’autore e la “sua” commedia. Dici il groppo in gola, dici il divertimento, dici la risata come pure il dramma di una famiglia che si sta sgretolando, sotto l’occhio non più troppo vigile di quel padre che crede di avere tutti e ogni cosa in pugno ma che al contrario, ora, inciampa in una moglie, Concetta, che dentro quell’aria devota che ha stampata in faccia trova gli spiragli della derisione, in un figlio, Tommaso, fannullone, mariuolo sempre teso a rovistare nelle tasche e nella “robba” altrui, bamboccione ante litteram, pienamente contestatore (“nun me piace ‘o presepio”), in una figlia, Ninuccia, che piomba in casa, la vigilia della festa, a sbandierarti, senza un po’ di pudore, che ha tutta l’intenzione di lasciare quell’uomo ricco che le hanno dato per marito, con la sua fabbrica di bottoni, e di fuggirsene con il bel Vittorio per godersi tutta la vita sua. Una valanga che cala scena dopo scena, sempre più pesante, mentre il capofamiglia si rifugia in quel presepe che va a fatica costruendo, mentre il caso e la disattenzione di qualcuno sono lì pronti a distruggerlo.

Un capolavoro di sentimenti, ormai bacati e tutti sghembi, datato 1931, nato come atto unico che poi, negli anni successivi, in più occasioni, Eduardo ampliò sino a renderlo come oggi lo vediamo. E continuiamo ad ammirare. Vincenzo Salemme – che lo porta a Torino, al teatro Alfieri, sino al 7 gennaio, con una numerosa quanto variopinta compagnia – è nato, era la fine degli anni Settanta, alla scuola del grande autore napoletano, gli si avvicinò un giorno a Cinecittà mentre erano in corso le riprese televisive della commedia. “Aveva sulle spalle lo scialle color vinaccia pallido, un camicione da notte e i mutandoni che finivano dentro i calzettoni di lana”: quello era, per sempre, Luca Cupiello. Una scuola che ha dato i suoi frutti ma che poteva anche avviluppare del tutto, sostituirsi, non lasciare un respiro: invece il Luca di Salemme vive di vita propria, mostra i segni concreti di questo autunno del patriarca, il carattere sbiadito, è quanto di più personale ci si possa aspettare, segue certo la vecchia strada ma attualizzandola la ringiovanisce con convinzione, con spirito inesplorato, con estro decisamente maturo. L’attore accresce in quel personaggio la sbadataggine mentale, i chiaroscuri della vita, tutta la cecità che si porta appresso, il tragico e il tragicomico che lo seguono ad ogni battuta: ne firma la sconfitta, propria e di quella atmosfera natalizia costruita ora dopo ora. Mentre le tragedie si compiono, Luca crede che sia ancora tempo di comparire in scena con le candeline accese e con i mantelli e le corone dei re magi, come se tutto continuasse a essere un gioco.

Nella commedia “più bella, più amara, più divertente, più sentimentale, più intensa, più malinconica, più festosa, più struggente della storia” Salemme ha riversato tutto lo spirito di Eduardo, il suo desiderio di rovistare, anche a costo di ferirsi, all’interno di tanti nuclei familiari, come tutta l’allegria possibile: ne sono prova l’inizio della tournée fatta di tutti esauriti e il debutto a Torino, fitto di risate e applausi ritmati a scena aperta da un pubblico letteralmente e piacevolmente coinvolto. Un successo: di un interprete e regista, di una compagnia tutta in cui ha avuto un proprio giusto spazio la Concetta di Teresa Del Vecchio: l’attrice è stata chiamata da Salemme soltanto il giorno prima del debutto torinese, soltanto un unico giorno di prove per un ruolo che la vede sempre in scena, chiamata a sostituire la collega che sino a quel momento aveva ricoperto il ruolo, impossibilitata per un serio problema di salute che l’aveva costretta al ricovero in ospedale. Sostituzione eccellente, con la messa a fuoco di un carattere pieno di concretezza e di realismo, del pragmatismo vissuto tra le quattro mura, ma pure delle difficoltà, dei segreti tenuti per sé, delle quotidianità da portare come un grosso peso. Una bella prova, di grande sicurezza, anch’essa rimarcata dagli applausi finali del pubblico che riempiva la sala come di rado s’è visto.

Elio Rabbione