Cosa succede in città

“Ritratti…”. 90 e tutti “da incorniciare”

In mostra al “Museo Nazionale del Risorgimento Italiano”, un secolo di grande Fotografia internazionale in arrivo dalla “Collezione Bachelot”

Fino al 5 ottobre

Correva l’anno 1960. Una bellissima, poco più che ventenne e dal sorriso irresistibile Romy Schneider (icona cinematografica della “Principessa Sissi”), accanto a un cinquantenne, un po’ distratto, Luchino Visconti, ammicca divertita al “paparazzo” che la “punta”, benevolmente “minacciandolo” di diventare lei la fotografa e lui, a breve tiro, il bersaglio del suo scatto. Il “povero” malcapitato fotografo è il celebre americano Sanford H. Roth (grande amico e fotografo quasi “personale” di James Dean che considerava Roth e la moglie come una sorta di “genitori adottivi”) e la foto è una delle circa 90, originali, esposte, fino a domenica 5 ottobre, negli spazi del “Corridoio della Camera Italiana” – Museo Nazionale del Risorgimento” di piazza Carlo Alberto (Palazzo Carignano) a Torino. Tutte in arrivo  da Parigi, dalla “Collezione Florence e Damien Bachelot”, fra le più importanti raccolte fotografiche private a livello europeo, rappresentano una suggestiva, protratta nel tempo, “città di ritratti” – secondo la calzante definizione assegnata alla mostra dalla curatrice Tiziana Bonomo (“ArtPhotò”) cui si deve anche, quale immagine guida, la scelta di “Lanesville”, 1958, di Saul Leiter – promossa dall’Associazione Culturale “Imago Mundi” di Torino e titolata, in linea con i soggetti esposti, “Ritratti. Collezione Florence e Damien Bachelot”.

 Una “città di ritratti”, per l’appunto: antologia di volti e figure che sono narrazioni di vite, le più varie e intense, immagini glamour e di umane miserie, di infinite gioie e struggenti dolori, di amori e odi senza fine, uno “sguardo rivolto – ancora Bonomo – alla nostra umanità fatta di miti, di emozioni e di concrete attuali realtà sociali”. Articolato, infatti, in quattro emblematiche sezioni – “Attualità”“Miti”“Società” ed “Emozioni” – l’iter espositivo ci porta dallo scatto iconico (che fece il giro del mondo) del neozelandese Brian Blake, immortalante Pablo Picasso mentre assiste a una corrida con la moglie Jacqueline Roque e Jean Cocteau alla potente capacità documentaria di Lewis Hine, che nella prima metà del Novecento fece dell’arte fotografica uno prezioso strumento di denuncia sociale, ritraendo i volti dei bambini migranti italiani negli States per raccontare la brutalità del lavoro minorile, fino ad arrivare ai toccanti ritratti dei soldati ritratti dal fotoreporter francese  Gilles Caron in Israele, durante la “Guerra dei sei giorni” (giugno, 1967) e in Irlanda del Nord, in occasione  del “The Troubles”, il conflitto fra comunità cattolica e i protestanti dell’Ulster, che durò circa trent’anni. Ma anche scatti meno “impegnativi” come quelli di un’inedita Nan Goldin, fotografa e attivista statunitense, oggi 71enne, con due immagini dedicate a una seducente (classe ’62) Jennifer Jason Leigh, attrice considerata, secondo la Rivista “Harper’s”, una delle dieci donne più belle d’America.

E’ davvero una lunga, suggestiva galoppata attraverso il Novecento della Fotografia fino alla contemporaneità, quella cui ci invita (e l’invito, in ogni istante, è sempre particolarmente ben accetto) dalla rassegna, “attraverso – si specifica in nota – un genere, quello del ritratto, che ben prima dell’era del ‘selfie’ e dei “social”, ha seguito un proprio percorso, riflettendo i mutamenti di costumi, identità e visioni del mondo”. Così, accanto a ritratti di “quotidiana umanità”, regalatici da grandi maestri come Dorothea LangeSaul LeiterWilliam KleinElliot Erwitt e la panamense Sandra Eleta (oggi, a 82 anni, la fotografa forse più famosa a livello internazionale) presente in mostra con “Siembra” (1976) eccezionale “reportage” sulla vita quotidiana degli abitanti e delle “campesinas” di Portobelo, troviamo anche un raro “lightbox” contenente immagini di Brigitte Bardot, firmato dal romano Elio Sorci, fotografo “maximus” della “Dolce Vita” e “cacciatore” super agguerrito delle più note celebrità del “jet set” americano.

Nota interessante: la mostra in naturale armonia con il “Museo”, propone anche in un video un saggio del patrimonio dei 17mila documenti fotografici custoditi. Tra i protagonisti del Risorgimento spiccano i ritratti della Contessa di Castiglione, pioniera nell’Ottocento nell’utilizzo della fotografia come strumento per costruire e diffondere la propria immagine e il proprio fascino. Sottolinea, in proposito, Luisa Papotti, presidente del “Museo”: “La fotografia, inizialmente percepita come surrogato del ritratto pittorico, diventa rapidamente linguaggio autonomo e strumento di propaganda e costruzione dell’identità nazionale. I ritratti di sovrani, patrioti, combattenti non solo eternano i volti del Risorgimento, ma diffondono l’ideale unitario. Esporre questi materiali accanto ai ritratti contemporanei della ‘Collezione Bachelot’ significa restituire continuità al racconto dell’identità attraverso l’immagine”.

Gianni Milani

“Ritratti. Collezione Florence e Damien Bachelot”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimento.it

Fino al 5 ottobre –  Orari: mart./dom. 10/18

Nelle foto: Roth H. Sanford “Romy & Luchino Visconti”, ca. 1960; Brian Brake “Picasso’s Bullfight, Valauris, 1955; Gilles Caron “Israel …” 1967; Sandra Eleta “Siembra”, 1976  

Ritorna il Cinema in 35 mm in Terrazza a Eataly Torino Lingotto

Dal 15 luglio appuntamento con la rassegna in pellicola assieme a Hiroshima Mon Amour e Museo Nazionale del Cinema.

Ritorna anche quest’anno un must dell’estate a Torino: l’appuntamento con il cinema all’aperto a Eataly Torino Lingotto, rigorosamente in pellicola in 35 millimetri!
Dal 15 luglio e per ogni martedì fino al 5 agosto ecco “Cinema in 35mm”, la rassegna cinematograficaorganizzata da Eataly in collaborazione con Hiroshima Mon Amour e Museo Nazionale del Cinema.

Sarà un’esperienza unica, con proiezioni che permetteranno di ritornare alle atmosfere del cinema di una volta: il proiettore azionato dal macchinista, buio in sala e l’inizio del film e poi l’intervallo a metà, la grande scritta FINE e i titoli di coda.

Location d’eccezione per questo viaggio nel passato, sarà come sempre la Terrazza al primo piano di Eataly Lingotto, con il suo piacevole e ampio spazio all’aperto e nel verde. E la programmazione non sarà ovviamente da meno.  La racconta così Fabrizio Gargarone, direttore artistico di Hiroshima Mon Amour: <<sono quattro film vertiginosi che trattano da diverse angolazioni uno dei temi centrali del nostro tempo: il vero o il falso. Si toccheranno i temi dello scambio di verità con l’iconico Il grande Lebowski dei fratelli Coen; quello della menzogna con L’avversario tratto dal libro omonimo di Emmanuel Carrère; quello della costruzione di una verità plausibile ma completamente falsa con I soliti sospetti di Bryan Singer; quello in cui vero e falso si scambiano nel capolavoro di Woody Allen, La rosa purpurea del Cairo>>.

Al centro dell’attenzione ci sarà quindi il modo in cui ci rapportiamo con i fatti, tematica sempre molto attuale. Prosegue infatti Gargarone: <<abbiamo scelto di addentrarci in questo tema perché mai come in questo tempo la ricerca della verità rientra sempre più tra i grandi argomenti. La diffusione di Fake News in grado di orientare scelte di marketing politico o commerciale o in genere; quella dell’AI generativa che produce contenuti; le alleanze geopolitiche consolidate da cinquant’anni che cambiano repentinamente; battaglie o guerre vinte che diventano improvvisamente perse e viceversa. Dov’è il Vero? Dov’è il falso? Nessuna arte come il Cinema è riuscita a entrare tanto in profondità su questi temi, addirittura con un’opera emblematica del più grande creatore di falsi della nostra storia, Orson Welles, con il suo F for Fakes costituisce la stella polare della nostra rassegna, pur non venendo proiettato. Un gioco di specchi. Cinema in 35 mm, in fondo, è questo. Un gioco di specchi in cui il pubblico spesso ritrae in video o in foto la nostra troupe tecnica guidata da Max Nicotra mentre cambia le pizze in pellicola del film, come fosse il momento più importante della serata. Qualche fotogramma rigato, qualche microsalto rendono quel film più vero del vero, lo rendono Cinema>>.

Ad arricchire la proposta delle serate, dalle ore 21 ecco ilservizio bar in Terrazza, a cura di Eataly, con una selezione di sfizi salati e dolci e una ricca carta bere, tra calici di vino, birre, cocktail e bevande analcoliche.

Per informazioni: www.eataly.it            
Apertura porte alle 21 e inizio proiezione alle 21.30.

Il programma:

Martedì 15 luglio | Il grande Lebowski (Joel e Ethan Coen, 1998)
Martedì 22 luglio | L’avversario (Nicole Garcia, 2002)
Martedì 29 luglio | La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985)
Martedì 5 agosto | I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995)

Prosegue a To Dream la “Summer Dream – Un’estate da sogno”

Musica, intrattenimento e divertimento per tutta la famiglia nel più grande Urban District del Piemonte

T”Summer Dream – Un’estate da sogno” entra nel vivo nel cuore dell’estate torinese. Il palinsesto estivo di To Dream, il più grande Urban District del Piemonte, continua ad animare le serate cittadine con un mix di musica, gusto e divertimento per tutta la famiglia. Mancano pochi giorni alla chiusura, prevista per domenica 27 luglio

Tra gli appuntamenti da non perdere, il food court musicale, attivo fino a venerdì 25 luglio: ogni sera, a partire dalle ore 19.00, DJ set, karaoke, musica dal vivo e aperitivi animeranno l’area ristorazione, grazie alla collaborazione con Rossopomodoro, Old Wild West, Signorvino, Löwengrube e Caffè Vergnano.
L’ingresso è libero, e registrandosi su Xceed si riceve un 10% di sconto sull’aperitivo durante l’evento.

E per i più piccoli (e le loro famiglie) c’è ancora tempo per godersi il parco giochi gratuito, aperto fino a domenica 27 luglio, tutti i giorni dalle 15.30 alle 20.00 – con apertura straordinaria fino alle 23.30 solo venerdì 25 luglio.
Tra le attrazioni: scivolo toboga, area gonfiabile, paintball estivo con pistole ad acqua, salterelli colorati e porta da calcio per sfide all’ultimo goal. Inoltre, i bambini potranno ritirare uno speciale “passaporto del divertimento” da completare con i timbri delle attrazioni visitate.

Anche la prevenzione contro le ondate di calore

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Le alte temperature di questi giorni non sono purtroppo un caso isolato: le ondate di calore, sempre più frequenti e persistenti nel periodo estivo, rappresentano un rischio concreto per la salute, soprattutto per le persone più fragili. E’ in quest’ottica che la Città di Torino ha attivato  il progetto sperimentale “ Emergenza Caldo – Estate 2025”.

L’iniziativa, promossa in collaborazione con la Protezione Civile Comunale, i Servizi Sociali, la Circoscrizione 7 e l’Università di Torino, punta a informare per informare e sensibilizzare la popolazione – in particolare anziani e soggetti vulnerabili – sui rischi legati al caldo sui corretti comportamenti da adottare per proteggere la propria salute.Dalle ore 18 alle 20, nel giardino Sesino di corso Farini, era presente nei giorni scorsi un gazebo dove è stato possibile ricevere informazioni e materiali informativi sul Piano Caldo della Città (disponibile anche online), con tutte le indicazioni utili per affrontare in sicurezza le ondate di calore: dalle misure di prevenzione ai contatti da chiamare in caso di necessità, fino all’elenco dei centri di incontro climatizzati disponibili sul territorio. I cittadini hanno potuto inoltre sottoporsi a un piccolo controllo sanitario, come la misurazione della pressione arteriosa, importante per monitorare le proprie condizioni di salute.

Dopo il primo appuntamento  l’iniziativa proseguirà con nuovi incontri – sempre con orario 18/20 – in programma il 22 luglio nella Casa del Quartiere di San Salvario, il 24 luglio al Parco di Vittorio nel quartiere Lingotto e il 29 luglio (location in via di definizione)

Con questa iniziativa prende ufficialmente il via anche il progetto “Protezione Civile itinerante”, reso possibile grazie al contributo di Fondazione CRT. Un nuovo modo di avvicinare i cittadini non solo durante le emergenze, ma anche come presenza attiva e vicina ai cittadini nel quotidiano.

TORINO CLICK

I segreti della Gran Madre

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo1: Torino geograficamente magica
Articolo2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo3: I segreti della Gran Madre
Articolo4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo10: Torino dei miracoli

Articolo 3: I segreti della Gran Madre

La città di Torino è tutta magica, ma ci sono dei punti più straordinari di altri, uno di questi è la chiesa della Gran Madre di Dio, o per i Torinesi, ël gasometro. La particolarità del luogo è già nel nome, è, infatti, una delle poche chiese in Italia intitolate alla Grande Madre. L’edificio, proprietà comunale della città, venne eretto per volontà dei Decurioni a scopo di rendere onore al re Vittorio Emanuele I di Savoia che il 20 maggio 1814 rientrò in Torino dal ponte della Gran Madre (la chiesa sarebbe stata edificata proprio per celebrare l’evento), fra ali di folla festante. Massimo D’Azeglio assistette all’evento in Piazza Castello. Il dominio francese era finito e tornavano gli antichi sovrani. Il passaggio del Piemonte all’impero francese aveva implicato una profonda trasformazione di Torino: il Codice napoleonico trasformò il sistema giuridico, abolì ogni distinzione e i privilegi che in precedenza avevano avvantaggiato la nobiltà, la nuova legislazione napoleonica legalizzò il divorzio, abolì la primogenitura, introdusse norme commerciali moderne, cancellò i dazi doganali. La spinta modernizzatrice avviata da Napoleone con il Codice civile fu di grande impatto e le nuove norme commerciali furono fatte rispettare dalla polizia napoleonica con un controllo sociale nella nostra città senza precedenti. Tuttavia il carattere autoritario delle riforme napoleoniche relegava i Torinesi a semplici esecutori passivi di ordini imposti dall’alto e accrebbe il malcontento di una economia in difficoltà. Quando poi terminò la dominazione francese non vi fu grande entusiasmo, né vi fu esultanza per l’arrivo degli Austriaci. L’8 maggio 1814 le truppe austriache guidate dal generale Ferdinand von Bubna-Littitz entrarono in città, e prontamente rientrò dal suo esilio in Sardegna il re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio dello stesso anno. Il re subito volle un immediato ritorno al passato, ossia all’epoca precedente il 1789, abrogando tutte le leggi e le norme introdotte dai Francesi. Il nuovo regime eliminò d’un tratto il principio di uguaglianza davanti alla legge, il matrimonio civile e il divorzio, e reintrodusse il sistema patriarcale della famiglia, le restrizioni civili riservate a ebrei e valdesi e restituì alla Chiesa cattolica il suo ruolo centrale nella società. Il 20 maggio 1814 fu recitato un Te Deum nel Duomo di Torino per celebrare il ritorno del re, che si fermò a venerare la Sacra Sindone. L’autorità municipale festeggiò il ritorno dei Savoia costruendo una chiesa dedicata alla Vergine Maria nel punto in cui il re aveva attraversato il Po al suo rientro in città. A riprova di ciò sul timpano del pronao si legge l’epigrafe “ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS”, (“L’autorità e il popolo di Torino per l’arrivo del re”) coniata dal latinista Michele Provana del Sabbione.

La chiesa, di evidente stampo neoclassico, venne edificata nella piazza dell’antico borgo Po su progetto dell’architetto torinese Ferdinando Bonsignore; iniziato nel 1818, il Pantheon subalpino venne ultimato solo nel 1831, sotto re Carlo Alberto. L’edificio ubbidiva all’idea di una lunga fuga prospettica che doveva collegare la piazza centrale della città, Piazza Castello, alla collina. La chiesa è posta in posizione rialzata rispetto al livello stradale, e una lunga scalinata porta all’ingresso principale. Al termine della scalinata vi è un grande pronao esastilo costituito da sei colonne frontali dotate di capitelli corinzi. All’interno del pronao vi sono ai lati altre colonne, affiancate da tre pilastri addossati alle pareti. Eretta su un asse ovest-est, con ingresso a occidente e altare a oriente, essa presenta orientazioni astronomiche non casuali: a mezzogiorno del solstizio d’inverno, il sole illumina perfettamente il vertice del timpano visibile dalla scalinata d’ingresso. Il timpano, sul frontone, è scolpito con un bassorilievo in marmo risalente al 1827, eseguito da Francesco Somaini di Maroggia, (1795-1855) e raffigura la Vergine con il Bambino omaggiata dai Decurioni torinesi. Ai lati del portale d’ingresso sono visibili due nicchie, all’interno delle quali si trovano i santi San Marco Evangelista, a destra, e San Carlo Borromeo, a sinistra. Fanno parte dell’edificio due imponenti gruppi statuari, allegorie della Fede e della Religione, entrambi eseguiti dallo scultore carrarese Carlo Chelli nel 1828. Sulla sinistra si erge la Fede, rappresentata da una donna seduta, in posizione austera, con il viso serio, sulle ginocchia poggia un libro aperto che tiene con la mano destra, con l’altra, invece, innalza un calice verso il cielo. Spunta in basso alla sua destra un putto alato, che sembra rivolgersi a lei con la mano sinistra, mentre nella destra tiene stretto un bastone. Dall’altro lato si trova la Religione, raffigurata come una matrona imperturbabile e regale: stringe con la mano destra una croce latina e sta seduta mentre guarda fissa l’orizzonte, incurante del giovane che la sta invocando porgendole due tavole di pietra bianca. I capelli sono ricci, e sulla fronte, lasciata scoperta dal manto, vi è una sorta di copricapo, come una corona, su cui compare un simbolo: un triangolo dal quale si dipartono raggi. Spesso, con un occhio al centro del triangolo, il simbolismo è usato in ambito cristiano per indicare l’occhio trinitario di Dio, il cui sguardo si dirama in ogni direzione, ma anche in massoneria è un importante distintivo iniziatico. Perfettamente centrale, ai piedi della scalinata, è l’imponente statua di quasi dieci metri raffigurante Vittorio Emanuele I di Savoia. La torre campanaria, munita di orologio, venne costruita sui tetti dell’edificio che si trova a destra della chiesa nel 1830, in stile neobarocco.

Entrando nella chiesa ci si ritrova in un ampio spazio tondeggiante e sobrio, c’è un’unica navata a pianta circolare, l’altare maggiore, come già indicato, è posto a oriente, all’interno di un’abside semicircolare provvista di colonne in porfido rosso. Numerose sono le statue che qui si possono ammirare, ma su tutte spicca la figura marmorea della Gran Madre di Dio con Bambino, posta dietro l’altare maggiore, il cui misticismo è incrementato dalla presenza di raggi dorati che tutta la circondano. Nelle nicchie ai lati, in basso, vi sono alcune statue simboliche per la città e per i committenti della chiesa, cioè i Savoia. Oltre a San Giovanni Battista, il patrono della città, anch’egli con una grande croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. La cupola, considerata un capolavoro neoclassico piemontese, sovrasta l’edificio ed è costituita da cinque ordini di lacunari ottagonali di misura decrescente. La struttura è in calcestruzzo e termina con un oculo rotondo, da cui entra la luce, del diametro di circa tre metri. Sotto la chiesa si trova il sacrario dei Caduti della Grande Guerra, inaugurato il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini. La bellezza architettonica dell’edificio nasconde dei segreti tra i suoi marmi. Secondo gli occultisti, la Gran Madre è un luogo di grande forza ancestrale, anche perché pare sorgere sulle fondamenta di un antico tempio dedicato alla dea Iside, divinità egizia legata alla fertilità, anche conosciuta con l’appellativo “Grande Madre”. Iside è l’archetipo della compagna devota, per sempre fedele a Osiride, simbolo della consapevolezza del potere femminile e del misticismo, il suo ventre veniva simboleggiato dalle campane, lo stesso simbolo di Sant’Agata. Si è detto che Torino è città magica e complessa, metà positiva e metà maligna, tutta giocata su delicati equilibri di opposti che sanno bilanciarsi, tra cui anche il binomio maschio-femmina. Questo aspetto è evidenziato anche dalla contrapposizione tra il Po e la Dora che, visti in chiave esoterica, rappresentano rispettivamente il Sole, componente maschile, e la Luna, componente femminile. I due fiumi, incrociandosi, generano uno sprigionamento di forte energia. Altri luoghi prettamente maschili sono il Valentino e il Borgo Medievale, che sorgono lungo il Po e sono anche simboli di forza; ad essi si contrappone la zona del cimitero monumentale, in prossimità della Dora, legata alla sfera notturna e femminile. L’importanza esoterica dell’edificio non termina qui, ci sono alcuni che sostengono ci sia un richiamo alle tradizioni celtiche con evidente allusione a un ordine taurino nascosto tra le parole della dedica: se leggiamo l’iscrizione a parole alterne resta infatti la dicitura: Ordo Taurinus. Ma il più grande mistero che in questa chiesa si cela è tutto contenuto nella statua della Fede. Secondo gli esoteristi, la donna scolpita in realtà sorreggerebbe non un calice qualunque ma il Santo Graal, la reliquia più ricercata della Cristianità, e con il suo sguardo indicherebbe il luogo preciso in cui esso è nascosto. Allora basta capire dove guarda la marmorea giovane -secondo alcuni la stessa Madonna – e il gioco è fatto! Sì, peccato che chi ha scolpito il viso si sia “dimenticato” di incidervi le pupille, così da rendere l’espressione della figura imperscrutabile, e il Graal introvabile. Se non per chi sa già dove si trovi.

Alessia Cagnotto

Torino può essere una città felice? Idee e sfide per il futuro

 

È uscita Building Happiness, la pubblicazione della Fondazione per l’architettura / Torino che mette in relazione lo spazio con chi lo attraversa, lo vive, lo trasforma e raccoglie le visioni e i contributi della ricerca omonima.

Mentre il mercato immobiliare milanese riceve attacchi da più fronti, a Torino da un anno ci si interroga sugli spazi che viviamo, siano essi pubblici o privati, affinché l’ambiente che ci circonda non sia respingente e nevrotico. Da tempo, la Fondazione per l’Architettura di Torino porta avanti studi fatti di ricerche, incontri e tavole rotonde anche aperte ai cittadini ed ora, con un libro, si tirano le somme.

Si chiama “Building Happiness. Esplorazioni sulla felicità degli spazi” ed è la pubblicazione della Fondazione per l’architettura / Torino, edito da FrancoAngeli, presentato in anteprima nazionale martedì 8 luglio al Circolo Esperia di Torino. In uscita nelle librerie e online da settembre, il volume prende le mosse da una domanda tanto semplice quanto rivoluzionaria: “Dove sta di casa la felicità?”.

Frutto di un percorso di ricerca lungo un anno, il volume raccoglie visioni, esperienze e contributi eterogenei – da architetti e urbanisti a filosofi, sociologi, economisti, attivisti, scrittori e cittadini – per indagare il rapporto tra spazio e benessere. Attraverso progetti, citazioni, immagini, disegni, fotografie e dialoghi narrativi, il libro propone un approccio trasversale, capace di parlare a pubblici diversi e restituire strumenti e riflessioni utili alla pratica progettuale, ma anche al vivere quotidiano.

Crediamo che la felicità sia un indicatore essenziale per misurare la salute delle persone e l’attrattività dei territori”, dichiara Gabriella Gedda, Presidente della Fondazione. “Building Happiness è un invito a considerare la felicità come leva concreta per rigenerare l’ambiente urbano e costruire città più inclusive, accoglienti e capaci di rispondere ai bisogni profondi di chi le abita.

Un libro multidisciplinare e corale perché “La felicità – come sottolinea Eleonora Gerbotto, Direttrice della Fondazione – ha molte facce, proprio come un diamante. E da questa molteplicità emerge una verità condivisa: tutti desideriamo uno spazio in cui poter fiorire. Con Building Happiness abbiamo scelto di non semplificare, accogliendo voci diverse e immaginari complessi. Perché progettare per la felicità significa abitare la complessità e riconoscere la pluralità come risorsa”.

Integrando prospettive architettoniche, neuroscientifiche, filosofiche, economiche e sociali, il volume mette in luce l’impatto diretto dello spazio costruito sull’esperienza emotiva. Non si tratta semplicemente di creare spazi gradevoli o funzionali, ma di progettare ambienti capaci di rispondere ai bisogni emotivi fondamentali delle persone, favorendone la fioritura psicologica e sociale. Building Happiness è, in questo senso, un invito a ripensare la progettazione a partire dalle emozioni che lo spazio è in grado di generare.

 

Otto figure relazionali per abitare lo spazio

Al centro del volume si trovano otto “figure relazionali”: metafore spaziali che aiutano a comprendere come si articola il rapporto tra l’essere umano e lo spazio. Non sono formule rigide, ma chiavi interpretative che emergono da discipline, vissuti ed esperienze. Rifugio, scala, tetto, parete, soglia, strada, piazza e giardino non indicano luoghi o forme architettoniche tout court, ma modi differenti — e complementari — di abitare il mondo. Nessuna figura esaurisce la complessità dello spazio e ogni spazio può accoglierne più d’una.

Per indagare in chiave quantitativa il legame tra spazio e benessere, la Fondazione ha promosso anche un questionario, coinvolgendo 747 persone. L’obiettivo era raccogliere percezioni e narrazioni legate ai luoghi della vita quotidiana. Dall’indagine è emerso un dato chiaro: per l’85,5% dei partecipanti, le caratteristiche dello spazio influenzano direttamente il proprio stato d’animo.

Dati che parlano di benessere

Abbiamo chiesto di rispondere alla domanda “Dove sta di casa la tua felicità”; i dati qualitativi e quantitativi raccolti si intrecciano con le otto figure relazionali, restituendo una mappa aperta e plurale degli spazi che ci fanno stare bene.

La famiglia e le relazioni sociali rappresentano il “luogo felice” per circa il 25% dei rispondenti tra i 26 e i 65 anni. A incarnare questa dimensione è la figura della piazza, simbolo di relazione e partecipazione collettiva. Segue la natura, indicata dal 21,42% del campione come spazio di benessere. Questo ambiente è trasversalmente riconosciuto da tutte le fasce generazionali e si associa spesso alla figura del tetto — che richiama protezione e senso di controllo attraverso una visione ampia sul mondo — o alla scala, metafora di introspezione e ricerca interiore. La casa continua a occupare un ruolo centrale nella costruzione della felicità, soprattutto per il suo valore affettivo e protettivo. È citata dall’11,78% dei rispondenti ed è riconducibile alla figura del rifugio che rappresenta un bisogno profondo di raccoglimento e sicurezza. I più giovani (<18 anni) tendono a privilegiare la dimensione della strada, evocata da quasi il 30% di loro. Questa figura esprime l’identità in formazione, la scoperta di sé, il movimento e la sperimentazione delle proprie passioni. Altri rispondenti fanno riferimento alla figura della soglia, spazio del cambiamento e dell’apertura all’inaspettato, o a quella del giardino, luogo della creatività e del desiderio che si traduce in progetto: metafore che restituiscono l’idea di una felicità dinamica, orientata al futuro. Una quota residuale del campione non ha indicato un luogo preciso, confermando la natura fluida e soggettiva della felicità, che resiste a ogni tentativo di classificazione univoca.

Verso una nuova progettazione

Il libro si apre a una pluralità di esperienze e contesti: dai Tulou cinesi reinterpretati da Xu Tiantian alle Terme di Vals di Peter Zumthor; dal Fuji Kindergarten di Tezuka Architects alle Superilles di Barcellona. Casi emblematici di architetture che mettono al centro il benessere, la relazione e la qualità dell’abitare. Non una rassegna sistematica, ma una costellazione di riferimenti capaci di attivare nuove domande sul progetto contemporaneo.

Felicità era la parola mancante, quella che avrebbe potuto estendere i confini del progetto allo stato d’animo delle persone”, scrive Fabrizio Polledro, Vicepresidente della Fondazione, nel suo contributo al volume.

Building Happiness invita dunque i progettisti ad aggiungere un nuovo layer alla pratica progettuale: quello dell’attenzione alle emozioni che lo spazio suscita.

Un diritto collettivo alla felicità

Building Happiness assume la felicità non come una dimensione privata o astratta, ma come un diritto collettivo. Un principio che attraversa le costituzioni, la filosofia e le politiche pubbliche, e che oggi può essere letto anche come leva per orientare la trasformazione degli spazi.

Il volume sollecita un cambiamento di paradigma: promuovere un’architettura capace non solo di rispondere a bisogni funzionali, ma di generare emozioni positive, relazioni significative e senso di appartenenza.

Come ricorda Eleonora Gerbotto, Direttrice della Fondazione: “La felicità non è un traguardo da raggiungere, ma un orizzonte da abitare”.

 

Lori Barozzino

Biennale di Venezia, c’è Andreas Angelidakis di Luci d’Artista

 Luci d’Artista Torino si congratula con Andreas Angelidakis, autore dell’opera luminosa VR Man realizzata per la scorsa edizione, per la nomina a rappresentare il Padiglione della Grecia alla 61ª edizione della Biennale d’Arte di Venezia nel 2026, uno degli appuntamenti internazionali più prestigiosi dedicati all’arte contemporanea.

Il curatore di Luci d’Artista, Antonio Grulli, esprime il proprio entusiasmo per questo importante traguardo:

Sono davvero felice della partecipazione di Andreas Angelidakis nella prossima Biennale Arte di Venezia come rappresentante della Grecia. Poter esporre alla principale rassegna d’arte al mondo è la consacrazione per qualsiasi artista.

Per noi di Luci d’Artista è motivo di grande orgoglio poter vantare, tra le nostre installazioni, una sua opera destinata a illuminare Torino negli anni a venire. Collaborare con Andreas è stato non solo un piacere, ma un vero onore.”

La nomina di Andreas Angelidakis al Padiglione della Grecia alla Biennale Arte di Venezia conferma il valore delle collaborazioni sviluppate nel tempo da Luci d’Artista. A lui vanno le congratulazioni di tutto il gruppo di lavoro e i migliori auguri per questo prestigioso riconoscimento.

Luci d’Artista, ha visto Andreas Angelidakis tra i protagonisti della 27ª edizione con l’opera luminosa VR Man, installata in Piazza Vittorio Veneto a Torino.

VR Man, figura luminosa ispirata alla statuaria classica greca e romana, rappresenta uno degli esempi più emblematici della poetica dell’artista: un dialogo costante tra memoria storica e tecnologie contemporanee, tra corpi antichi e visioni digitali. Un gigante di luce, al tempo stesso atleta e pensatore, cariatide e cyborg, testimonianza della capacità dell’artista di reinterpretare l’eredità classica attraverso un’estetica radicalmente attuale. L’opera VR Man, realizzata in occasione e con il supporto di Torino 2025 FISU Games Winter e il sostegno di Audemars Piguet Contemporary, si riferisce alla pratica atletica come fondamento dei giochi olimpici ma anche come disciplina indissolubile dall’attività intellettuale e spirituale, così come era vista durante il periodo classico greco.

Luci d’Artista è progetto e patrimonio della Città di Torino, realizzato da Fondazione Torino Musei con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, Unione Industriali Torino, Torino 2025 FISU World University Games Winter Audemars Piguet Contemporary. Main sponsor: Gruppo Iren.

 

Andreas Angelidakis (Atene, 1968), vive e lavora ad Atene. Le sue opere indagano lo spazio dove arte e architettura si sovrappongono e in cui le nuove tecnologie influenzano l’architettura e il modo di vivere.  Nel suo lavoro presenta riconsiderazioni delle rovine greche spesso sotto forma di video digitale, sculture morbide e mobili, dando vita a un’interpretazione giocosa che offre un’esperienza fisica diretta al visitatore. Ha partecipato come artista a diverse mostre internazionali, tra cui: The State of the Art of Architecture alla prima Biennale di Architettura di Chicago, la 12° Triennale del Baltico al Centro d’Arte Contemporanea di Vilnius. Nel 2019 ha partecipato alla Bergen Assembly, mentre ha contribuito al Parlamento dei corpi di Paul B. Preciado per documenta 14 nel 2017, nonché alla Biennale dell’Immagine in Movimento alle OGR di Torino. Nel 2020 ha realizzato la grande installazione POST-RUIN Bentivoglio a Palazzo Bentivoglio a cura di Antonio Grulli e nel 2022 Center for the Critical Appreciation of Antiquity l’opera d’arte più ambiziosa mai realizzata, commissionata da Audemars Piguet Contemporary e presentata all’Espace Niemeyer, Parigi (11-30 ottobre 2022) a Parigi. Tra le mostre che l’artista ha curato ricordiamo The System of Objects alla Deste Foundation di Atene, Super Superstudio al PAC di Milano, Fin de Siècle allo Swiss Institute di New York, Period Rooms al Het Nieuwe Instituut di Rotterdam e OOO Object Oriented Ontology alla Kunsthalle di Basilea.

 

Oriente a Torino: viaggio nel cuore asiatico della città tra arte, cultura e sapori

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SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO 
Torino è una città che sorprende.
Dietro la sua eleganza sabauda e l’ordine geometrico dei viali alberati e delle sue strade si nasconde un’anima meticcia, che mescola culture e tradizioni da ogni angolo del mondo. Se c’è una parte del mondo che ha saputo radicarsi con grazia e profondità nel tessuto urbano torinese è senza dubbio quella dell’Estremo Oriente. Dai musei ai templi del gusto, la città ha accolto nei suoi quartieri e nelle sue piazze un’Asia silenziosa ma viva, che racconta storie, offre esperienze, stimola i sensi e l’immaginazione.
Tutto inizia nel cuore del centro storico, in via San Domenico, dove si trova il MAO – Museo d’Arte Orientale. Aperto nel 2008 all’interno di Palazzo Mazzonis, il MAO è una delle realtà più affascinanti e meno convenzionali della Torino culturale. Non è solo una collezione: è un vero e proprio viaggio sensoriale e spirituale attraverso l’Asia. Le sue sale custodiscono reperti e opere provenienti da cinque grandi aree culturali: il Sud-Est asiatico, la Cina, il Giappone, il subcontinente indiano e la regione islamica dell’Asia. Le statue del Buddha, i paraventi giapponesi, le maschere rituali e le calligrafie cinesi dialogano con uno spazio che invita al silenzio e alla contemplazione. Visitare il MAO non è solo un’esperienza estetica: è un modo per rallentare, ascoltare e riflettere. Ogni esposizione temporanea, ogni laboratorio o conferenza ospitata al museo è un tassello in più per costruire ponti tra culture e aprire finestre su mondi che, seppur lontani geograficamente, oggi ci toccano da vicino.
Dall’arte alla tavola: quando l’Oriente si fa gusto.
Ma la scoperta dell’Oriente a Torino non si ferma alle sale museali. Basta uscire dal MAO e percorrere pochi isolati per accorgersi di quanto le influenze asiatiche abbiano messo radici anche nella vita quotidiana, soprattutto a tavola. Il centro storico e le vie limitrofe pullulano di ristoranti, botteghe e locali che propongono una cucina autentica, spesso gestita da famiglie arrivate in città molti anni fa e ormai parte integrante del tessuto sociale torinese.
Tra i nomi storici c’è Wasabi, in via Mazzini, uno dei primi ristoranti giapponesi a proporre sushi di qualità con una forte attenzione alla tradizione. Atmosfera minimalista, cura del dettaglio e una selezione di pesce sempre fresco lo rendono un punto di riferimento per gli amanti della cucina nipponica.
Poco distante, in via Maria Vittoria, troviamo Kensho, che ha portato in città l’idea del sushi contemporaneo e creativo, con accostamenti audaci e una filosofia estetica che ricorda la raffinatezza delle tavole di Tokyo.
Per chi cerca sapori decisi e speziati, il consiglio è dirigersi verso Via Principe Tommaso, dove si concentrano alcuni tra i migliori locali thailandesi e vietnamiti di Torino. Saigon, ad esempio, è un piccolo gioiello che propone autentica cucina vietnamita in un ambiente caldo e accogliente. I suoi “pho” fumanti e i “roll” estivi a base di carta di riso sono tra i più apprezzati in città. Non molto lontano, in via Berthollet, La Piccola Bangkok è invece il regno del curry e dei “pad thai”, serviti con gentilezza e generosità. L’arredamento è semplice ma pieno di colore e spesso ci si ritrova circondati da clienti affezionati che conoscono i titolari per nome.
Tradizione e contaminazione: l’Oriente che evolve.
Oggi, l’Oriente torinese è anche contaminazione e sperimentazione. Un esempio? Oh Crispa!, in zona Vanchiglia, dove l’Oriente incontra lo street food in chiave contemporanea: ravioli cinesi fatti a mano, bao bun con carne affumicata, noodles saltati con verdure locali. L’ambiente è giovane, conviviale, e rappresenta la nuova generazione di imprenditori asiatici (e non solo) che scelgono Torino come laboratorio di creatività gastronomica.
A fare da contraltare a questa vivacità culinaria c’è anche una crescente proposta culturale: corsi di lingua giapponese e cinese, pratiche di meditazione zen, yoga tibetano, workshop di calligrafia e cerimonia del tè sono sempre più presenti nei programmi dei centri culturali, delle librerie indipendenti e delle associazioni di quartiere. In questo senso, Torino non è solo un luogo che accoglie: è un crocevia fertile in cui l’Oriente non è un’esotica comparsa, ma un interlocutore stabile.
In un mondo sempre più connesso, la capacità di una città di far convivere tradizioni diverse diventa segno di intelligenza collettiva. E Torino, con la sua discrezione e il suo ritmo lento, sta costruendo un dialogo profondo con l’Asia, fatto di rispetto, bellezza e sapori indimenticabili. Un Oriente torinese che non fa rumore, ma che sa lasciare il segno.
NOEMI GARIANO