L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.
Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.
Tornato a Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.
Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.
Marco Travaglini
“Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio
Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.
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Nella storia i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.
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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.
Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.
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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmo. Evidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore e incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.
Marco Travaglini
Filetti di nasello gratinati. La bontà è croccante
Questo piatto si prepara facilmente con ingredienti semplici, particolarmente sfizioso grazie alla gratinatura dorata e croccante
Apprezzato per le sue proprieta’ nutritive, il nasello e’ un pesce magro, facilmente digeribile, carne bianca e delicata ideale anche per chi non ama il pesce. Questo piatto si prepara facilmente con ingredienti semplici, particolarmente sfizioso grazie alla gratinatura dorata e croccante.
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Ingredienti:
4 filetti di nasello
4 fette di pan carre’
1 ciuffo di prezzemolo
1 spicchio di aglio
50gr. di parmigiano grattugiato
50gr. di pecorino grattugiato
Olio, sale, pepe q.b.
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Tostare leggermente le fette di pan carre’. Lavare e asciugare il prezzemolo. Frullare le fette di pane con il formaggio grattugiato, l’aglio, il sale, il pepe e l’olio. Disporre i filetti di nasello in una pirofila da forno unta di olio, cospargere il composto sul pesce, condire con un filo di olio e cuocere in forno a 200 gradi per circa 20 minuti o sino a completa doratura.
Paperita Patty
Gli spiedini che vi propongo questa settimana sono ideali come finger food per un aperitivo o come antipasto per un menu’ a base di pesce. Le polpettine, croccanti fuori e morbide dentro, si adattano ad essere preparate con diversi tipi di pesce, sono semplici e gustose, ottime servite calde o tiepide.
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Ingredienti
300gr. di filetti di nasello
1 fetta di pancarre’
2 uova
2 cucchiai di pecorino grattugiato
Latte q.b.
Prezzemolo q.b.
Succo di 1/2 limone
Olio per friggere
Sale e pepe q.b.
Pangrattato q.b.
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Cuocere a vapore i filetti di nasello acidulati con il succo del limone poi frullarli con la fetta di pancarre’, precedentemente bagnata nel latte, il pecorino, il sale, il pepe, il prezzemolo tritato e l’uovo intero. Con il composto ottenuto preparare delle piccole polpette che passerete prima nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Friggere in abbondante olio caldo, sgocciolare su carta assorbente ed infilzare sullo spiedino. Servire subito. Delicate e deliziose.
Paperita Patty
STORIE PIEMONTESI / La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine Ottocento
“Pattuglia senza ritorno”, il racconto storico felicemente uscito dalla penna di Elio Motella, si legge tutto d’un fiato e propone – nel quadro di una ben congeniata storia d’amore tra la maestra elementare Assunta Pedroli e il fuochista di Marina Matteo Ferrari – uno dei misteri ancora insoluti del lago Maggiore: quello del naufragio della “Locusta”. La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago Maggiore, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine Ottocento. Mescolando realtà e finzione, l’autore tratteggia la vita sulla sponda occidentale del Verbano tra il 1893 al 1896, dove i protagonisti sono i marinai e i militari della Guardia di Finanza del locale distaccamento, addetti al controllo lacuale con le torpediniere, gli “sfrusitt” ( i contrabbandieri ) che sfidavano leggi e autorità dedicandosi – tra fatiche e pericoli – al contrabbando, considerato a quel tempo una delle poche risorse per la sopravvivenza degli abitanti del lago e poi la gente e i luoghi tra Cannobio e Pallanza. Le rare foto d’epoca, a corredo degli avvenimenti, rendono bene l’atmosfera di quei luoghi e di quegli anni, in una terra di frontiera.
Ma veniamo alla storia della “Locusta”, la torpediniera della “Regia Finanza” che – affondò la notte tra l’8 ed il 9 gennaio 1896 dopo esser salpata dalla base di Cannobio per un normale servizio di pattugliamento sul Lago Maggiore. Quello della “Locusta” è stato uno dei più grandi punti interrogativi delle vicende che hanno interessato il lago. L’ unità, classificata come “torpediniera costiera di quarta classe” (lunga 19,20 metri, capace di una velocità di 17 nodi e dotata di un cannone a ripetizione “Nordenfeldt” ) era tra quelle acquistate dalla Regia Marina nei cantieri Thornycroft di Londra nel 1883, per essere imbarcata su navi da battaglia. All’atto pratico si dimostrò inadatta all’impiego bellico e quindi ( insieme ad altre ) fu dislocata sul lago Maggiore ed affidata alla “finanza” per essere adibita alla vigilanza doganale sul confine con la Svizzera. Cosa accadde quella notte, è rimasto un mistero. Come se la torpediniera fosse sparita in una specie di “buco nero”. Dalle cronache dell’epoca si evince che era salpata da Cannobio in direzione di Maccagno, e il tempo risultava buono: “cielo sereno e lago calmo, con una fredda brezza spirante da nord dalla vicina Svizzera”. L’equipaggio era al completo. Erano in dodici, a bordo: otto marinai della Regia Marina e quattro guardie di finanza. Stando sempre alla cronaca, alla partenza, si trovavano a bordo anche il tenente dei “canarini”, comandante del reparto di confine, ed un elettricista,che però sbarcarono poco dopo sulla linea confinaria – al valico di Piaggio Valmara- per effettuare una ispezione a terra. Durante la navigazione notturna sul lago, all’improvviso, il tempo volse al brutto: si alzò un vento impetuoso con raffiche di tramontana e, subito dopo la mezzanotte,si scatenò una furiosa tempesta.Le acque si agitarono, le correnti diventarono impetuose, i lampi squarciarono il cielo gonfio di nubi nere. La “Locusta”, sorpresa dall’improvvisa burrasca, dovette mutar rotta ,dirigendosi verso la vicina Punta Cavalla sulla riva lombarda del lago, per cercare riparo alla violenza della tramontana. Il riflettore della torpediniera venne avvistato da Cannobio per l’ultima volta poco dopo la mezzanotte del 9 gennaio 1896. Poi il buio e più nulla.Non ricevendo risposta ai ripetuti segnali di richiamo lanciati da terra, venne subito fatta uscire la torpediniera-gemella – la “21T Zanzara”- per le ricerche immediate ed il soccorso ai naufraghi, ma nonostante la lunga e minuziosa perlustrazione su tutto lo specchio d’acqua tra Cannobio e Cannero ( sulla sponda piemontese), Maccagno e Pino ( su quella lombarda), non venne trovata traccia alcuna di superstiti né di relitti. Il lago si eraletteralmente “inghiottito” l’unità navale con tutto l’equipaggio di bordo. I dodici militari risultarono così “dispersi in servizio, nell’adempimento del dovere”. Cosa accadde alla “Locusta”, quella notte, fu oggetto di molte ipotesi. Forse il natante venne “rovesciato da una raffica impetuosa” e le acque si rinchiusero sull’equipaggio “rifugiatosi sotto coperta per ripararsi dalla burrasca, tranne il capo-timoniere comandante, bloccato anch’esso, ma nella cabina di governo”. Non si poteva neppure escludere che “in quel momento fatale, furono i portelli aperti dell’osteriggio di macchina, a determinare l’allagamento dei locali di bordo”. E come non prendere in considerazione l’eventualità di “ una esplosione delle caldaie esterne, dovuta ad un’onda improvvisa”.
Supposizioni a parte, resta il fatto che tutte le ricerche ed anche l’inchiesta che venne aperta non diedero alcun risultato.Anche i vari tentativi intrapresi nel tempo, basati sulla ricostruzione della rotta e delle posizioni indicate dalle cronache dell’epoca, si sono conclusi senza troppa fortuna e nessuno con successo. Negli anni ’80 il relitto era stato ricercato in due occasioni: dapprima con il batiscafo dell’esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, poi con l’intervento di una unità della marina militare italiana, guidata da un ammiraglio, con l’intento di recuperare almeno il natante per esporlo al museo nazionale di Ostia, in quanto unico esemplare rimasto della serie di torpediniere costruite all’epoca. Ma, come già detto, ambedue le immersioni diedero esito negativo poiché il fondale del lago è coperto da grandi depositi di terra e di melma. E anche gli ultimi tentativi non hanno sortito alcunché. A memoria dei dodici dell’equipaggio della “Locusta” resta il monumento ( un timone sorretto da putrelle di ferro sopra un blocco di pietra con i nomi delle vittime), realizzato sul Poggio delle Regie Torpediniere, nei pressi del porto militare della Guardia di Finanza a Cannobio. Elio Motella, con il suo “Pattuglia senza ritorno”, ha avuto il merito di riportare all’attenzione del pubblico questa vicenda. E di farlo con un libro davvero ben costruito e ancor meglio scritto.
Marco Travaglini
Soffice torta di mele e albicocche
Delicatamente profumata da una nota agrumata ed arricchita dall’aggiunta di morbide albicocche
Chi resiste al profumo di una soffice torta di mele che cuoce nel forno? Le mele, particolarmente gradevoli e ricche di virtu’, sono magici ingredienti per creare irresistibili dolci, tra questi, la regina e’ la torta di mele, il classico dolce che piace a tutta la famiglia qui riproposto in una versione insolita, delicatamente profumata da una nota agrumata ed arricchita dall’aggiunta di morbide albicocche.
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Ingredienti:
2 grosse mele Renette
10 albicocche secche
120gr. di burro
120gr. di farina 00
50gr. di fecola
100gr.di zucchero a velo
2 uova intere e 2 tuorli
1 limone
1 arancia
1 pizzico di sale
1 bicchierino di rum
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Lasciare in ammollo in acqua e rum le albicocche per almeno 12 ore. Sbucciare e tagliare le mele a dadini, grattugiare la scorza dell’arancia e del limone, strizzare e tagliate a pezzettini le albicocche, mescolare il tutto e lasciar di macerare con il succo di mezzo limone. Nel mixer montare prima il burro con lo zucchero a velo e un pizzico di sale poi, le uova. Unire la farina e la fecola setacciate. Mescolare bene. In un largo stampo foderato con carta forno versare il composto e sopra la frutta spolverizzata con zucchero a velo. Infornare a 180 gradi per 45 minuti poi, passare sotto il grill per altri 5/10 minuti. Lasciar raffreddare e spolverizzare con zucchero a velo.
Paperita Patty
Un secondo fresco e sempre adatto
Una preparazione semplice e sfiziosa che potete personalizzare secondo i vostri gusti per un piatto sempre diverso.
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Ingredienti:
3 grosse patate
1 scatoletta di tonno sott’olio
4 cucchiai di maionese
1 limone
1 pizzico di curcuma (facoltativo)
1 fetta spessa di prosciutto di Praga
Sale, pepe, prezzemolo o basilico
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Pelare le patate, tagliarle a bastoncini e cuocerle a vapore.
Frullare il tonno, mescolare alla maionese, aggiungere il succo del limone, il sale, il pepe, e la curcuma. Tagliare a listarelle il prosciutto privato dell’eventuale grasso, unirlo alle patate, aggiungere la salsa tonnata ed il prezzemolo. Mescolare con cura. Servire freddo guarnito con fette di limone.
Paperita Patty
“Vi ricordate del Quintino? Quello che era stato pizzicato dal maresciallo Valenti?! Ve lo rammentate? Beh, è stato visto dalle parti di Armeno. Ormai conduce una vita randagia. Un po’ qua, un po’ là, senza fissa dimora.
Quando gli riesce si fa ospitare da qualcuno che gli offre un piatto di minestra e lo fa dormire nel fienile o dentro alla stalla. Quando “marca picche”, invece, chiede la carità sul sagrato delle chiese e quand’è stanco s’infila in qualche androne con la sua coperta. Che vita grama…In fondo mi dispiace, ma guardate.. è meglio che stia lontano da qui perché di guai ne ha combinati tanti, troppi“.
Il macellaio Belmonti era ossessionato da Quintino. Da quando aveva rilevato l’attività del vecchio Aurelio, ritiratosi in pensione più per via dell’artrite che gli aveva deformato le mani che per l’età, si riforniva di carne bianca quasi esclusivamente dai “locali”. Cioè, per farvi capire meglio, da tutti quelli che allevavano polli, anatre, oche o conigli tra le farzioni di Stresa e Baveno. Principalmente si serviva dalla “signorina” Rosa Princisvalli, una donnetta secca e nervosa di quasi ottant’anni che viveva sola dopo che il marito – il droghiere Brunello Pinzocchi – non era più tornato a casa dopo essere uscito per prendere il giornale, una domenica mattina. Il fatto, accaduto più di trent’anni prima, aveva suscitato grande scalpore. E solo qualche tempo dopo si era saputo che il droghiere aveva lasciato la moglie per trasferirsi “oltralpe”, cioè in Francia. C’era chi giurava che si fosse invaghito di una trapezista del circo di Lione che aveva frequentato le piazze dei paesi affacciati sul lago Maggiore con qualche spettacolo.
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C’era chi era pronto a scommettere, invece, che la “fuga” fosse stata l’epilogo di una lunga e mal sofferta convivenza con la “signorina” che non voleva sentir ragione di cedere alle lusinghe del povero commerciante. “Un matrimonio in bianco”, dicevano le malelingue. “E per di più con una donna dal carattere impossibile”, aggiungevano quelli che sapevano tutto di tutti. Così la nostra Rosa Princisvalli finì con il restare ,per tutto il paese, “la signorina”. La poveretta si era così buttata, anima e corpo, nell’allevamento intensivo degli animali da cortile. Che, una volta raggiunta la “pezzatura” giusta, venivano ceduti ,a modico prezzo, al macellaio Belmonti. Tutto andava via liscio come l’olio finché non iniziarono i problemi. Era da un po’ che in località Viscania, tra la parte bassa di Oltrefiume e la massicciata della ferrovia, i pollai – nottetempo – venivano visitati da faine o volpi. Erano vere e proprie razzie di polli. Sparivano, come d’incanto, quasi senza lasciar traccia, se si escludevano poche penne sparse qua e là. Un lavoro fin troppo “pulito” che aveva suscitato molti dubbi e interrogativi. Poi erano iniziati a sparire anche i conigli. E questo sì che era un fatto molto, ma molto strano. Stavano rinchiusi nelle loro gabbie con tanto di chiavistello. Come facevano i predatori a ghermirli? “ Altro che faina o volpe. Qui i predatori sono sì dei gran animali, ma a due gambe. E, lo giuro sul Padreterno, se mi capitano a tiro di schioppo non ci metto neanche un attimo a premere il grilletto. Brutti manigoldi! Guardate qui anche voi! Guardate che roba. Mi hanno fregato dieci conigli, tre anatre e una mezza dozzina di galline ovaiole. Delinquenti del boia!“.
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Amedeo Scozzari , che abitava vicino alla “signorina” Rosa, era stato “visitato” pure lui, ed era infuriato come un toro. Seduto al tavolo d’angolo del circolo operaio, raccontava la sua disavventura, rosso in faccia e in preda all’ira, stringendo il collo della bottiglia di Barbera quasi volesse strangolarla. Le denunce dei furti erano poi finite, in carta da bollo, sulla scrivania del maresciallo Ovidio Valenti che incaricò il brigadiere Alfio Birilli di effettuare i necessari sopralluoghi per avviare l’ormai inevitabile indagine. Del resto, di fronte alle denunce, l’Arma non poteva chiudere gli occhi. E così, dopo un paio di settimane di verifiche, controlli e appostamenti, il mistero venne svelato, smascherando i responsabili delle azioni criminose. Infatti, ottenuto un mandato di perquisizione, il maresciallo – accompagnato dal brigadiere e dall’appuntato Jannuzzi – si presentò alla porta di casa di Quintino, a fianco della foresteria di Villa Mussi. Al bussare insistente del maresciallo Valenti l’uomo non si fece pregare, aprendo la porta.
Agli occhi dei carabinieri, varcata la soglia, si presentò una scena incredibile. C’erano galline e conigli che scappavano in ogni angolo. Piume dappertutto e polli – defunti e spennati – messi in fila sul tavolone di legno della grande cucina. Un paio di oche starnazzavano sul vecchio divano sfondato che metteva in mostra le sue molle. Persino un tacchino che, a occhio e croce poteva pesare una quindicina di chili, correva su è giù per la stanza goglottando. E Quintino? Con una flemma anglosassone guardò negli occhi il maresciallo e, indicandogli il cugino che stava seduto di fronte al lavello , colto di sorpresa mentre era tutto intento a spennare un’anatra, gli disse: “Maresciallo, è il cielo che la manda. Mi aiuti lei a dire a mio cugino che non mi piace vedere tutti questi animali per casa. Io, per parte mia, gliel’ho rammentato un sacco di volte di non portare queste bestie in casa ma lui, niente. E’ un gran testone. Dice che gli piacciono tanto, che ama gli animali!”. I carabinieri ascoltarono attoniti e poi, pur tenendo conto della disarmante confessione di Quintino, non potendo far altrimenti, arrestarono entrambi, denunciandoli a piede libero come “ ladri di polli”. A sua volta, il giudice del tribunale di Pallanza che li giudicò per direttissima, pur condannandoli, inflisse loro la pena minima, con tutte le attenuanti: tre mesi, con la condizionale, una multa di centomila lire e la raccomandazione di non manifestare più in quel modo illegale la “passione” per gli animali.
Marco Travaglini
Per palati raffinati l’insalata di pollo e avocado
Un abbinamento consolidato quello tra il pollo e l’avocado, semplice ma non banale, una ricetta decisamente light dal tocco esotico e sfizioso. L’insalata di pollo e’ una ricetta gustosa, una soluzione veloce e pratica, perfetta in qualsiasi occasione.
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Ingredienti
½ petto di pollo
1 avocado
1 lime
1 limone
Prezzemolo
Olio evo
Pepe, sale q.b.
Mandorle a lamelle
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Lessare il petto di pollo con una carota, un gambo di sedano, una foglia di alloro e poco sale. Lasciar raffreddare poi, tagliare a tocchetti. Pelare l’avocado, tagliarlo a dadi e spruzzarlo con il limone per evitare che annerisca. In una scodella emulsionare il succo del lime con 4 cucchiai di olio evo, il sale e il pepe. In una terrina, mettere il pollo, unire la polpa dell’avocado, condire con l’emulsione di olio, mescolare bene e servire cosparso con mandorle a lamelle.
Paperita Patty