redazione il torinese

L’imbarazzante presentazione…

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File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore

La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e  e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria  era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca  che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva  e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava.

Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensato Tomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto.

Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle  spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!

Marco Travaglini

Daniele Lunelli e la “comunità dei pesci” del lago Maggiore

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Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics

Il mio amico Daniele Lunelli è l’ultimo discendente di una famiglia di pescatori che si tramandano il mestiere di generazione in generazione. Con il tempo è diventato bravo nel maneggiare le “reti volanti” quasi come suo padre Gioacchino e suo zio “Lisca”, al secolo Mariano Lunelli. Con le “volanti”, zavorrate di sotto coi piombi o con dei sassi tondi e tenute  di sopra a pelo d’acqua grazie alle file dei galleggianti, bisogna saperci fare. Soprattutto occorre aver “naso” per i venti e le correnti e farsi un’idea più o meno precisa sui posti dove si può trovare il pesce. Quasi nulla viene lasciato al caso anche se  il movimento di quelle reti calate al largo nel tardo pomeriggio e lasciate libere di muoversi fino all’alba, a seconda delle “rotte” delle correnti dominanti, può apparire casuale. “ In realtà, quando le ritiriamo in secca – mi dice Daniele – troviamo che sono rimasti impigliati , a seconda delle maglie della rete,  trote di lago e coregoni, agoni ed alborelle”. Quando invece si “punta” su tinche, scardole, persici o lucci sono necessarie le reti fisse, “da posta”,  posizionate sul litorale. Ma la sua vera abilità il pescatore provetto la mette in mostra con il tramaglio. Ormai, sulle rive del lago, erano rimasti in pochi ad utilizzarli con abilità nella cattura dei persici. Formati da tre strati di reti sovrapposte ( i due esterni, le “armature” o “mantelli”, a maglie grosse; quello interno, il “velo” più alto e più fine ), vengono disposti in acqua a perpendicolo così che i pesci – attraversato il mantello – finiscono imprigionati e senza scampo nella trama fitta del “velo”. “ E’ una pesca che richiede occhio e abilità”,dice Daniele, a cui non pare vero poter spiegare le varie tecniche di pesca. “ Oggi non interessa quasi a nessuno conoscere questi particolari. Forse pensano che il pesce persico ci va da solo sul banco della pescheria e, strada facendo, per non far perdere tempo, trova anche il modo di sfilettarsi. Comunque, i tremagli possono essere usati “in posa” o “al salto”. In quest’ultimo caso si calano e si tirano su di giorno, spaventando i pesci con un remo o buttando dei sassi in acqua, così che scappano verso la rete e noi..zacchete!..li catturiamo, appunto, al salto” .

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Da lui ho imparato un sacco di cose. Ad esempio che nelle acque meno profonde, per la cattura del pesce più pregiato, cioè persici , lucci e anguille, si usa il bertovello, “al bartravel”, una specie di “nassa di lago”,  cilindrica e con delle aperture a cono, cosicché il pesce- una volta entrato – non può più uscire, restandovi imprigionato. Sono state vietate, invece, le reti a strascico e le “bedine” con le quali, un tempo,  era stata fatta strage di pesci. Le prime, trascinandosi sul fondale del lago, lo “aravano”, provocando danni seri all’ambiente mentre le seconde- calate a cerchio in pieno lago – “insaccavano” il pesce senza tanti complimenti e senza discriminazioni, mettendo a rischio la fauna ittica. “ Ma sai com’è..Una volta non c’era una gran coscienza e la fame era la fame. Per far guadagno non si andava tanto per il sottile anche se i veri pescatori stavano comunque attenti perché dal lago e dai pesci dipendeva la vita delle loro famiglie”. Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics. Si narra ancora di quella trota catturata ad Ascona che, lunga più di un metro e mezzo, pesava ben 22 chili, a dimostrazione che ne giravano di belle dentro il lago. Sui coregoni, ad esser sinceri, va fatta qualche precisazione. Alla  loro famiglia , presente nei nostri laghi prealpini, appartengono due specie : il  “lavarello” e la “bondella”. Non si tratta dello stesso pesce, nonostante la bondella sia più minuta, ma spesso solo gli ittiologi – ed i pescatori di mestiere –  sono in grado di distinguerli fra loro. Entrambi non sono propriamente nati qui. Il Lavarello è stato introdotto alla fine dell’800 dai laghi elvetici mentre la Bondella proviene dal lago di Neuchatel ed è stata “introdotta” nel Maggiore nel 1949 ed in quello di Como agli inizi degli anni’ 60. Andando avanti nell’elencazione troviamo, tra i frequentatori più diffusi delle acque del lago, il prelibato Persico e l’Agone. Il Luccioperca, una specie di via di mezzo tra il persico ed il luccio, forte predatore che vive nei  litorali dove  la corrente è modesta e la vegetazione è scarsa, è arrivato nel Maggiore provenendo dal lago di Lugano. Originario dell’est europeo, ai primi del secolo scorso era stato immesso nelle acque del Ceresio e da lì, attraverso il fiume Tresa ,suo principale emissario, che sfocia nei pressi di Luino, ha raggiunto a nuoto il lago Maggiore. E, vista la proliferazione, si dev’essere sentito a suo agio, a casa propria. Viceversa, di anguille ne sono rimaste poche. E quelle poche non hanno tanta voglia di finire in umido o in carpione. Questo pesce ha un ciclo vitale straordinario e misterioso.  Ad un certo punto della sua vita  abbandona le acque dolci  dei fiumi e dei laghi europei per dirigersi verso il mare e, raggiunta la grande tinozza di acqua salata, continuano il loro viaggio fino ad arrivare in una certa zona dell’oceano Atlantico – il mar dei Sargassi –  per deporvi le uova in primavera. E poi ? Poi tornano indietro, affrontando un viaggio a ritroso che dura anche più di tre anni per coprire le migliaia e migliaia di chilometri che separano il Mar dei Sargassi dalle coste europee, dal Mediterraneo, dai fiumi e dai laghi. Da noi, con le dighe sul Po e sul Ticino a far da barriera, il loro ritorno diventa una sorta di “corsa ad ostacoli”.

 

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Chissà perché, dopo tutte queste peripezie,tornata in acqua dolce,  l’anguilla diventa un pesce con abitudini notturne, che durante il giorno vive nascosto in tane oppure immerso nel fondo; forse per riposarsi del viaggio? Se così fosse, bisognerebbe lasciarle un po’ in pace. E i pescatori, quando pescano, stanno zitti e non parlano mai anche per non disturbare il sonno delle anguille. E gli altri pesci? Cavedani, scardole, tinche,alborelle, “trollini”, pighi, savette, persici sole ( i tremendi e famelici “gobbini”) ce ne sono in quantità ed ognuno ha la sua parte della grande famiglia ittica. Infine, sua maestà il luccio che, con la sua bocca a “becco d’anatra”, dominata da robusti e acuminati denti, è il re dei predatori d’acqua dolce. Caccia restando immobile fra le piante acquatiche fino a mimetizzarsi, in attesa che la preda si avvicini. E’ il terrore  dei pesci più piccoli ma, quando ha fame, non disdegna rane, piccoli mammiferi e giovani uccelli acquatici. Un signore di Helsinki, conosciuto un’estate a Feriolo dov’era ospite di un campeggio, mi disse che nel suo paese – e non solo lì – nel corso dei secoli, il luccio è diventato un simbolo araldico,indicante i diritti di pesca ed  usato negli stemmi di famiglie nobili o di  città. Io però ricordo quello che prese Gilberto Camòla, pescando  con il cucchiaino sulla spiaggetta della Villa Fedora, a Baveno. Aveva fatto un lancio lungo e stava recuperando piano piano  quando uno strappo violento quasi gli portò via la canna a mulinello dalle mani. Ci mise poco a capire che aveva abboccato qualcosa di grosso e dopo una battaglia lunga quasi mezz’ora, riuscì – in un bagno di sudore – a portare sulla battigia un luccio enorme. Al peso risultò di quasi undici chili. Una bestia con una bocca che incuteva timore. Provate voi  a pensare com’erano quelli di taglia e di peso quasi doppio, che erano stati pescati sulle due sponde del Verbano. “Se vuoi essere un buon pescatore devi conoscere bene i pesci. Oggi c’è gente a cui capita di pescare così, una volta tanto e di allamare una butrisa, spaventandosi quasi avesse catturato un mostro. E’ vero che la bottatrice ha un aspetto sgradevole, paragonabile a quello di un gigantesco girino e ricorda un po’ il pesce gatto, con quella  grossa testa piatta, gli occhi piccoli e quel corpo cilindrico che si va assottigliando verso la coda ma, vivaddio ,è pur sempre una creatura del nostro lago”.Daniele non si mette mai il cuore in pace e s’arrabbia quando chi vive sulla terraferma non porta rispetto a chi vive sott’acqua. Ricordo quando gli feci conoscere un altro mio amico, un professore che lavora all’istituto Idrobiologico di Pallanza e quest’ultimo gli raccontò che un tempo il lago Maggiore arrivava fino a Bellinzona e che bisognava preservarlo dall’inquinamento. Non ebbe esitazioni: lo abbracciò commosso. Aveva trovato un nuovo amico. Anzi, un altro amico di quel lago che era casa sua. E quella sì che  era una cosa importante, da festeggiare con un mezzo litro di rosso all’osteria dei Gabbiani.

Marco Travaglini

Torino e le sue donne: Carol Rama

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Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Con la locuzione sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nellespressione sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto sesso forte, uno stereotipo che ne ha sancito lesclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna Darco, Elisabetta I dInghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nellelenco anche Coco Chanel, lorfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel sesso debole” che non si è addomesticato, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. 
Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario letimologia della parola donnadomna, forma sincopata dal latino domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

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5 Carol Rama
Torino è anche arte. Molte sono le Gallerie, le Fondazioni e i Musei che promuovono larte in tutte le sue sfaccettature, dalla scultura allarte figurativa fino al cinema, sia che si tratti di arte classica, medievale, o contemporanea.  La storia di oggi è una storia darte, che ha per protagonista una delle donne che larte lha creata, lha vissuta e allarte si è completamente dedicata.  Carol Rama nasce a Torino nel 1918, inizia a dipingere ancora adolescente, senza alcuna formazione accademica ma sostenuta nella sua passione da alcuni incontri fondamentali, primo fra tutti Felice Casorati. Molti sono gli amici intellettuali da cui trae informazioni, conoscenze e stimoli: Edoardo Sanguineti, Massimo Mila, Albino Galvano, Carlo Mollino, Paolo Fossati, Carlo Monzino, Luciano Berio, Eugenio Montale e ancora Luciano Anselmino, grazie al quale entra in contatto con Andy Warhol e Man Ray. Della pittura fa una pratica ininterrotta, è il filtro attraverso cui elabora oggetti, situazioni, persone della quotidianità per convertirli in qualcosa di artistico. Carol è sempre aggiornata sulle varie tendenze darte, ma mantiene grande autonomia di lavoro, sviluppando nel corso del ventesimo secolo un percorso tutto personale, attraverso luso di materiali, temi e stili diversi. Negli acquerelli degli anni Trenta e Quaranta, la rudezza e la scabrosità dei soggetti è decantata nelleleganza compositiva del quadro. Si tratta di lavori eseguiti a cavallo dei suoi ventanni, con noncuranza verso i ben pensanti e le mode artistiche del momento, produzioni che denotano grande maturità tecnica e di ideazione. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra, lartista si accosta anche alla pittura a olio, con dense paste di colore e soggetti spesso non tradizionali. La sperimentazione continua: agli stessi anni Quaranta risale linteresse per lincisione che si concretizzerà nella splendida serie delle Parche, (linteresse per tale tecnica rispunta verso la fine degli anni Novanta). Dopo una esperienza astrattista negli anni Cinquanta allinterno del gruppo torinese del MAC (Movimento Arte Concreta), Carol attua negli anni Sessanta una svolta decisiva: su macchie di colore di derivazione informale applica oggetti duso quali strumenti medicali, trucioli metallici, occhi di bambola. Loggetto 
è inserito con tutta la sua fisicità nel dipinto, diventa colore e forma del quadro, pur rimanendo cosa. Negli anni Settanta, sostenuta da colui che sarà il suo gallerista per i decenni successivi, Giancarlo Salzano, un nuovo materiale entra a far parte della sua composizione pittorica, si tratta di camere daria segnate dalluso e di guarnizioni in gomma, utilizzate in sostituzione del colore e incollate su tele monocrome. Questi lavori conservano tutta lincisività dellessere materia (gomma come pelle e carne) e sono un rimando allattività aziendale del padre (specie luso della gomma richiama il lavoro paterno). Nel 1979 Carol espone per la prima volta alla Galleria Martano di Torino gli acquerelli realizzati una quarantina di anni prima, poi scelti lanno seguente da Lea Vergine per la mostra itinerante sulle grandi artiste del Novecento, Laltra metà dellavanguardia. A partire dagli anni Ottanta, lartista ritorna alla figurazione e realizza mirabili quadri in cui dipinge figure e animali fantastici su carte prestampate. La conoscenza internazionale di Carol è dovuta alle mostre pubbliche, come la sala personale alla quarantacinquesima Biennale di Venezia nel 1993, a cura di Achille Bonito Oliva, allestita dallamico Corrado Levi, e lantologica allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1998, a cura di Maria Cristina Mundici. Il grande riconoscimento pubblico sul suolo Italiano le arriva nel 2003, quando le viene conferito il Leone doro alla carriera in occasione della cinquantesima Biennale di Venezia. Nel 2004 anche la sua città natale le dedica una ampia antologica presso la Fondazione Sandretto-Rebaudengo a cura di Guido Curto. Nel gennaio 2010, rappresentata da Corrado Levi, riceve il prestigioso Premio Presidente della Repubblica” da Giorgio Napolitano. Nel 2014 inaugura al Museo dArte Contemporanea (MACBA)  di Barcellona una importante mostra monografica a cura di Teresa Grandas, Beatriz Preciado e Anne Dressen, poi allestita anche a Torino nell’ ottobre 2016 alla GAM. Il consenso internazionale è ulteriormente consolidato nel 2017 dallampia personale tenutasi al New Museum di New York. Il suo ultimo lavoro conosciuto è del 2007 e chiude una intensa carriera durata oltre settantanni. Muore nella sua casa-studio torinese, il 24 settembre 2015.

 

Alessia Cagnotto

Fumetti cult: 1952, nasce Tiramolla

Erano anni, quelli, in cui in Italia nasceva e prosperava un’originale linea di fumetti comici. Ne facevano parte, a buon diritto, fra i tanti, tre personaggi che raggiunsero una grande popolarità: Cucciolo, Beppe e Tiramolla. Il loro creatore grafico è stato Giorgio Rebuffi

Gli anni Cinquanta, oltre ad essere il periodo in cui la Rai iniziò le trasmissioni televisive in bianco e nero, s’avviava la corsa allo spazio e l’Olivetti realizzava la mitica “Lettera 22”, sono stati anche anni formidabili per il fumetto italiano. Le tirature diventarono importanti per una rinata industria del fumetto che portava sul mercato una concorrenza “made in Italy” ai classici d’oltreoceano targati Usa.

Tex, Pecos Bill, Kinowa, Capitan Miki, il Grande Blek, il Piccolo Ranger e le loro epopee avventurose, in primo luogo, ma non solo. Erano anni, quelli, in cui in Italia nasceva e prosperava un’originale linea di fumetti comici. Ne facevano parte, a buon diritto, fra i tanti, tre personaggi che raggiunsero una grande popolarità: Cucciolo, Beppe e Tiramolla. Il loro creatore grafico è stato Giorgio Rebuffi, prolifico inventore di protagonisti e comprimari del fumetto comico italiano.

Nato a Milano nel 1928, Rebuffi ( che è morto nell’ottobre scorso, ad 86 anni) iniziò la sua attività di professionista del fumetto nel 1949, creando lo Sceriffo Fox ( un corvo nero, con tanto di pistole e stella) per le edizioni Alpe: le stesse che porteranno al successo Cucciolo e Beppe che, di lì a poco, saranno affidati proprio alle cure di Rebuffi per un decisivo “restyling”. I due, infatti, avevano fatto il loro esordio nel 1941, disegnati da Rino Anzi. Quelli che in origine erano due cagnolini antropomorfi, sotto la penna e i pennini di Rebuffi, si trasformeranno in una coppia (uno alto e smilzo, l’altro basso grassottello) che farà il verso un po’ a Topolino e Pippo (anche qui il piccoletto è scaltro e l’allampanato è un po’ svampito) e anche ad analoghe coppie comiche del cinema, come Gianni e Pinotto e Stanlio ed Ollio. Nell’agosto del 1952 compare per la prima volta al pubblico dei bambini e ragazzi italiani, a pagina 12 del numero 8 di Cucciolo mensile, un nuovo protagonista dei fumetti: si chiama Tiramolla. L’episodio in questione è il primo di una storia lunga che si concluderà con la quarta puntata nel n. 11 (novembre 1952).

Dieci anni dopo, i quattro episodi verranno unificati e ristampati con il titolo “Il mistero della villa” (Le storie di Tiramolla – anno II n. 18, 23 agosto 1962). La penna che lo tratteggia è quella dell’eclettico Rebuffi e Tiramolla (ideato da Roberto Renzi), elastico personaggio di caucciù con il cilindro in testa, aristocratico e pigro ma, suo malgrado, coinvolto in guai ed avventure andrà a formare il trio con Cucciolo e Beppe. I tre, assieme ad una serie di straordinari comprimari (il malvagio Bombarda, il menagramo Giona,il maggiordomo Saetta,il cane Ullaò, il nipotino Caucciù e, soprattutto, Pugacioff, il perennemente affamato e sovversivo “luposki della steppaff”), segneranno in modo indelebile il fumetto comico di quegli anni. Un fumetto fatto di storie semplici e un po’ ingenue, ricche di invenzioni e di gag, storie che hanno accompagnato i lunghi e spensierati pomeriggi di tanti di noi quando eravamo bambini e ragazzi.

 

Marco Travaglini

Conegrina e “il Carabiniere”, inflessibili guardapesca

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Conegrina, al secolo Aquilino Bonello, messa alle spalle una vita da ambulante, si è riciclato come guardapesca, ereditando la mansione che, per più di trent’anni, è stata il pane quotidiano di Alighiero Dentoni. Il passaggio delle consegne è avvenuto da poco, quasi per caso.

Una sera che i due si erano trovati a condividere un mezzino di rosso all’osteria dell’Onda la cosa è venuta fuori con naturalezza. Alighiero Dentoni , era noto ai più come “il Carabiniere”, poiché da giovane aveva indossato la divisa dell’Arma. Quasi nessuno lo chiama per nome e cognome. Non per cattiveria o noncuranza, e nemmeno con l’intenzione di ignorare l’anagrafe; è solo che, con il tempo, il soprannome ha spodestato il cognome, sostituendolo nella vita di tutti i giorni, lasciandogli solo il compito di rappresentarlo nei documenti ufficiali. Comunque, “il Carabiniere”, in procinto di raggiungere il traguardo della pensione come dipendente della Provincia, stava da tempo lambiccandosi su chi potesse prendere il suo posto. Arcigno,inflessibile,incorruttibile e poco incline alle smancerie si era guadagnato il rispetto di tanti ma la simpatia di pochi. Conegrina era tra i rari amici con cui da anni, alla sera, scambiava due parole all’osteria, bevendo insieme o giocando alle carte. Quest’ultimo, dai paesi ai piedi dei monti fino in pianura, godeva di una certa notorietà. Per anni aveva battuto in lungo e in largo il territorio con il suo scassatissimo autocarro proponendo nei mercati e sulle “pubbliche piazze” i suoi prodotti. Nel suo campionario aveva un po’ di tutto: aghi, ditali, filo per cucire, soda, lisciva, candeggina, sapone, mollette per stendere la biancheria, spazzole per lavare i pavimenti, pettini e tante altre utili cose. Il suo grido di battaglia era arcinoto: “Forza, forza  donn! Conegrina e savon! “.

 

A volte risuonava anche un possente “Donne, oggi il tempo volge al bello, è arrivato in piazza l’Aquilino Bonello”. Gli affari andavano a gonfie vele. Praticava dei prezzi onesti e non faceva storie quando, di fronte a un acquisto importante, gli veniva richiesta una dilazione nei pagamenti. Spesso accettava, dimostrando di gradirlo più del denaro, una sorta di baratto: io do una cosa a te e tu ne dai un’altra a me. Molte sue clienti intravedevano così una specie di doppio vantaggio: si liberavano di cose inutili ottenendo in cambio oggetti che potevano servire. Nessuno può dire con certezza le ragioni dell’amicizia tra i due ma era plausibile che fosse proprio il buon Conegrina ad aver attaccato bottone all’anziano guardapesca, scalfendone la riottosità fino a conquistarsi l’amicizia. Comunque fossero andate le cose è certo che Alighiero Dentoni raccomandò con insistenza l’ambulante all’assessore provinciale Fernando Chiurlazzi, titolare della delega alla pesca. Quest’ultimo, potendo decidere come procedere alla sua sostituzione, optò per l’atto diretto di nomina, raccomandando al Dentoni un adeguato periodo di affiancamento.Mi raccomando,eh? Non perdiamo tempo con tutte quelle balle della burocrazia ma, attenzione: non voglio guai. Quello lì che mi hai segnalato dev’essere all’altezza e ne rispondi tu di persona se succede qualcosa,intesi?”. Il “Carabiniere”, borbottò delle rassicurazioni: “ Stia tranquillo, assessore. Garantisco io”. Il Chiurlazzi, di fronte ad una frase del genere si tranquillizzò, rammentandosi che veniva spesso pronunciata anche dal suo grande maestro del quale teneva in ufficio, appeso al muro, una gigantografia con il petto sporgente, copia uguale e sputata del ritratto che teneva sulla scrivania suo padre che, negli anni trenta, era stato il podestà del paese. Nel frattempo,espletate le pratiche e venduta a buon prezzo la licenza mercatale che , considerata l’entità del giro d’affari e di clientela, faceva gola a molti, per Aquilino Bonello iniziò una nuova vita. L’affiancamento dimostrò quello che già s’intuiva: l’incredibile affiatamento tra i due che andavano non solo d’amore e d’accordo ma si comportavano come se l’uno fosse l’esatta copia dell’altro. Regolamento alla mano, sembrano le controfigure di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, i due famosissimi arbitri svizzeri di Giochi senza Frontiere. Mancava solo il celebre conto alla rovescia ( “Attention… Trois, Deux, Un… Fiiit!“) ma il doppio fischio finale, quello sì che c’era. Eccome se c’era: uguale, tremendo, inconfondibile. Due  acuti, perforanti sibili. Come ignorarli? Non si poteva far finta di niente. Quei suoni intimidatori, all’unisono e in perfetta sincronia, segnalano l’infrazione. Oppure, nel migliore dei casi, l’ammonimento. Entrambi in divisa, si comportano da veri e propri “sceriffi d’acqua dolce”. Conegrina, che è sempre stato uno sveglio, il regolamento se l’é studiato a memoria. Niente carte e foglietti ( che se vanno in acqua si rovinano) ma tutto in testa, ben impresso nella zucca ormai priva di capelli. Non sfuggiva nessun particolare, ai due. Nessun dubbio o incertezza su quali attrezzi fossero consentiti e quali altri proibiti; una precisione invidiabile per i periodi e le situazioni in cui si potevano usare gli attrezzi a inganno, come il bertovello o la nassa . La lenza da fondo, la “lignola”? “Al massimo con 30 ami e mai e poi mai dal 25 aprile al 31 maggio”.

 

Il lato delle maglie della rete interna di un tremaglio? “Non inferiore a trenta millimetri”. E la  sciabica, quella che un tempo veniva  chiamata  la  “persichéra”, una rete con una sacca particolarmente allungata, utilizzata per la pesca del pesce persico? “ Guai a metterla in acqua, ora come ora”. Si aveva quasi il sospetto, e a pensar male si fa peccatomi si indovina, che si divertissero a comportarsi da carogne. Al Dentoni, pur incassando già l’assegno della pensione, non passava nemmeno dall’anticamera del cervello l’idea di mollare. Si era riciclato come guardapesca volontario. Giorni addietro sono stati visti all’opera, con uno sprovveduto pescatore della domenica che aveva chiesto ad entrambi delle informazioni. Sono partiti a raffica: “ Deve sapere che la pesca è consentita a partire da un’ora prima del levar del sole sino ad un’ora dopo il tramonto, da queste parti. Dovesse recarsi invece sul lago Maggiore è tutta un’altra storia perché là valgono le disposizioni della convenzione Italo-Elvetica. Le raccomandiamo i divieti; stia molto attento perché qui non si può sgarrare”. Il malcapitato si è sorbito l’intero calendario di pesca.”Dal 25 aprile al 31 maggio, niente persici. Per la trota di lago , da metà ottobre alla fine di gennaio. Luccio da metà febbraio a metà marzo. Niente carpe, cavedani, tinche per tutto giugno. La pesca all’anguilla è consentita anche nelle ore notturne, ma solo sul Maggiore. Qui da noi, stia tranquillo, non ne prenderà nemmeno una”. Il sorrisetto sornione di Aquilino tradisce una punta, tutt’altro che impercettibile, di cinico sarcasmo. E via con le misure minime delle specie pescabili: dai 18 centimetri del persico ai 30 del luccio. Aggiornatissimi, non si fanno sfuggire le novità. Un esempio? Eccolo: “ La misura minima per la pesca della trota? Modificata da cm. 22 a cm 30. Con esclusione della trota mormorata,  la cui lunghezza minima è confermata in cm. 35 e della trota iridea,  la cui cattura è disciplinata a parte. Entrata in vigore, seppure in via sperimentale? Dall’alba dell’ultima domenica di febbraio”. Annichilito e esausto, il tipo ha ringraziato e, fatto dietrofront, ha riposto la canna da pesca nel baule dell’auto e se n’è andato. Forse, agli “sceriffi”, bisogna che qualcuno gli dica di non esagerare. Ammesso che si trovi qualcuno che abbia tanto coraggio e che, in ogni caso, non sia pescatore, evitando ritorsioni.

Marco Travaglini

Sua maestà il maiale

Del maiale (ma non solo) e di ciò che, suo malgrado, ci regala…

Al dì dal porc”, il giorno del maiale, cadeva tra novembre e febbraio, tra i Santi e Carnevale e rappresentava  un giorno di gran festa per la famiglia contadina. Quello era il periodo canonico dell’uccisione e della pressoché immediata concia delle carni del maiale

Un tempo che si snodava dal 30 novembre, Sant’Andrea fino  – ma non sempre venivano rispettati gli andamenti stagionali – al 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, protettore sacro degli animali domestici, della stalla e del cortile.


Un santo considerato, in particolare, protettore del maiale tanto da essere raffigurato nell’ iconografia popolare con accanto un maialino, fissando il “santino” sulla porta del porcile. Anche la fase lunare aveva la sua importanza nel rito della macellazione del maiale (fase di luna calante e luna nuova). Quel giorno non si poteva fare né il pane né la pasta, per timore che la carne potesse lievitare e deperire in breve tempo. Quando il norcino gli affondava il coltello nelle rosee carni si era certi che dell’animale nulla fosse buttato via: testa, orecchie, lingua, gola, lardo, coppa e lonza, spalla e zampino, pancetta e filetto, culatello, coscia e cotiche. Sì, perché del maiale si utilizza tutto. E avere il “maiale da ingrassare”, nella civiltà contadina, prima e dopo l’epoca degli “alberi degli zoccoli” ( descritta in modo straordinario da Ermanno Olmi), era segno di benessere. Il maiale -versione domestica del cinghiale – dalla notte dei tempi ha assolto un compito del tutto particolare: sfamare la gente. Infatti, era il solo animale allevato per puri scopi alimentari.

A differenza degli equini e dei bovini, animali da tiro e da soma, utili ai lavori nei campi o come “mezzo di trasporto” negli spostamenti,  o delle pecore e delle capre  – che  fornivano latte e pelli –  il maiale era invece  solo ( e quasi tutto) carne commestibile, che costituiva la stragrande maggioranza delle riserve di “ciccia” già dalla preistoria. Un nobile animale, preziosissimo, che offriva il meglio di se per condimenti, grassi e sapori, sugna, lardo, strutto, cotenne (basti pensare che, in origine, la bagna càoda piemontese era fatta con lardo o sugna). La sugna serviva a tanti scopi: dall’ingrassare gli scarponi ( per mantenerli morbidi e protetti ) e le ruote dei carri, fino a farne candele e ceri. Nemmeno le ossa e i “peli” si buttavano del maiale: con le migliori veniva prodotto del sapone, dalle unghie si ricavava uno straordinario concime e con le setole s’imbastivano robustissimi ancorché rozzi, tessuti. Disporre di un maiale era un ottimo  investimento: non è forse evocativo il fatto che, spesso se non sempre, i salvadanai hanno la forma di un porcellino? Fino a più di un secolo fa i  maiali erano cresciuti liberi di ingozzarsi di ghiande nei boschi dove prevalevano querce e farnie. Finite quelle, esaurita la scorta di cibo, per così dire, “naturale”, non avendo altro cibo per ingrassarlo ancor più, il maiale passava al macello. E, sezionato in tutto e per tutto, finiva per gran parte sulla tavola. Spesso dire maiale equivale a dire prosciutto e salume anche se non solo col porcello si fanno ottimi insaccati. Dove sono nato, nel profondo nord del Piemonte e  dell’Italia di “mezzanotte”, quando si parla di salumi è naturale pensare alle valli ossolane ed alle produzioni locali. Dal prosciutto crudo della Val Vigezzo alle mocette, dai violini di cervo e di capra alla mortadella. Nella valle Anzasca, ai piedi del Rosa, da Macugnaga a Castiglione, con carne della testa e del guanciale  – cotta e aromatizzata –  si produceva il salame di testa. Salamini, salamelle e salsicce da grigliare si trovano un po’ ovunque, mentre è difficile trovare ancora, la salsiccia di riso: un divertente salame povero con riso bollito e maiale che si conserva sotto grasso. C’è sempre, nelle lavorazioni artigianali, il “tocco” di qualità, il vanto di tradizioni che si trasformano in prelibatezze che, spesso, non ammettono confronti.

Ma non c’è solo il “made in Ossola” sul tagliere. C’è anche la scuola degli insaccati della “bassa” che, dalle sponde dei laghi Maggiore e d’Orta scende, tra colline e baragge, fino alle risaie del novarese. Una scuola antica, contadina, che vede per l’appunto nel maiale e nelle sue carni un punto di riferimento che, pur non essendo l’unico, è di gran lunga il principale. Immaginando di tracciare una “via del salame” è curioso vedere dove ci porta, accompagnando il rilievo gastronomico a quello geografico. Iniziamo dal cacciatorino, piccolo, gustoso e conosciutissimo salamino stagionato da mangiare crudo. Confezionato il più delle volte in “collane”, è diffuso un po’ dappertutto ma è particolarmente prelibato quello di Borgomanero e dintorni. I ciccioli ( in piemontese “garisole”) di maiale o d’oca, sono invece dei piccoli pezzi di carne fritti e croccanti che si ottengono facendo sciogliere il lardo e il grasso dell’animale per ricavare lo strutto. Il “collo d’oca”, invece, è un caratteristico insaccato ottenuto nella bassa novarese imbottendo con carne e grasso d’oca aromatizzati la pelle del collo di questo pennuto. Si trova in due versioni, cioè cotto o crudo. Ed eccoci ad una delle parti migliori del maiale: la coppa ( o capocollo ). C’è da sbizzarrirsi. Fresca, questa carne dà lonze, filetti e braciole. Intera è nota come “carrè” mentre il capocollo è un insaccato che si ottiene con la carne della testa e delle parti posteriori tritata, salata, conciata ed “infilata” nell’involucro di budello cieco.

La stagionatura, in media, dura quattro mesi ed è una specialità molto diffusa in Valsesia. Il cotechino ( cudighin ), re delle feste di carnevale e piatto tradizionale per il fine d’anno ( accompagnato da fumanti, e beneauguranti, lenticchie) è un salume fatto con cotenne e carne di maiale, tritate per bene ed insaccate nelle budella grosse con l’aggiunta di spezie. Saltando la cotenna, pelle del maiale indispensabile per dar gusto ad alcuni piatti, e tralasciando il lardo che meriterebbe, da solo, una gustosissima riflessione ( “nobilitatosi” agli occhi del grande pubblico grazie a quelli d’Arnad e di Colonnata ), ecco la lonza (o lombata) e le luganighe. La prima, riconducibile a quella parte del maiale macellato che comprende uno dei lombi, con tutta la parte dorsale (costolette e coscia o spalla ), in alcune zone della bassa novarese o del vercellese è trattata e aromatizzata, quand’è fresca, come un salume. Le seconde sono tipiche di Cannobio, ultimo borgo dell’alto lago Maggiore prima di varcare – a Piaggio Valmara – il confine con la confederazione elvetica. Si consumano per tradizione a gennaio, con l’avvio del nuovo anno: salamini con un impasto ottenuto mescolando, in varie quantità, carni di maiale, lardo, aromi, pepe e vino rosso. Uniche nel loro genere e assolutamente da non perdere. Poi c’è il sanguinaccio, composto appunto da sangue di maiale, latte, lardo, pane grattugiato, spezie, aglio e vino. Il tutto insaccato a dovere nel budello dello stesso maiale. Antico piatto contadino nelle lunghe giornate d’inverno della pianura novarese e vercellese, si consumava arrosto o lessato. Sulle mortadelle c’è molto da dire. Vanno spese subito due parole per quella della Val d’Ossola, tutelata e “certificata” anche da Slow Food. Simile al salame ma con l’aggiunta di una piccola percentuale di fegato, che le conferisce un gusto del tutto particolare, è da provare. E’ prodotta in due differenti forme: una é insaccata in budello sottile ed è ripiegata ad “U” e legata in modo tradizionale; nell’altra versione é insaccata in budello grosso e legata a stella. La stagionatura é di circa un paio di mesi e il prodotto è consumato sia crudo che cotto. Una delle “regine” è la mortadella di fegato d’Orta.

Costituita da un impasto a grana fine di fegato di maiale con carne di suino, grasso di sottogola e spezie, si presenta a forma di ciambella. Un particolare non secondario è  l’impasto. Alcuni lo condiscono con del vin brulé, preferibilmente barbera; altri invece usano del vino bianco per dare “tono” alla mortadella che, in ogni caso, sarà poi fatta stagionare per qualche mese. A detta di alcuni ricorda la “salama” ferrarese e si può mangiare sia cotta ( con la purea di patate )che cruda o affumicata. In dialetto cusiano quest’insaccato è conosciuto come “fidighin”e trova la sua terra d’elezione sulla sponda orientale del lago d’Orta, tra il paese dell’isola di San Giulio e Gozzano, oltre che nell’areale tra l’aronese e Borgomanero. La pancetta drogata di montagna (conciata con spezie, aglio ed un “fiato” di grappa) non si trova solo dove i sentieri s’inerpicano e si devono fare i conti con le “ragioni della montanità”( asprezza dell’ambiente, altrimetria in crescita, clima conseguente, accessi ardui) ma anche in collina.Se ne producono di buonissime nel Vergante, nell’entroterra del lago Maggiore, sulle “motte” che fanno da contorno al vasto panettone del Mottarone, la “montagna dei milanesi”. Ma, tornando alla pianura del riso e variando sul tema del maiale, ci si può imbattere di nuovo nell’oca o nell’anatra e, parlando questa volta di prosciutto, è d’obbligo spendere almeno un cenno al petto affumicato d’oca. Minuscolo e signorile prosciutto senz’osso, ottenuto dal petto di uno dei più interessanti e prelibati protagonisti della vita sull’aia, si conserva a lungo e si consuma crudo. Raro da trovare, riserva delle sorprese molto piacevoli al fortunato che lo gusta, lentamente, con la stessa assenza di fretta con cui si confeziona. In subordinata si può deviare sul prosciutto d’anatra: una piccola coscia speziata, salata, lasciata all’aria o affumicata.

Per chiudere, almeno virtualmente, il cerchio dei volatili, due parole sul salame d’oca o, come dicono nella bassa novarese, il “graton d’oca”. Famoso quello di Fara – terra di buone uve e di buon vino – con l’impasto di carne cruda tritata e insaccata nella stessa pelle dell’animale. Alla voce salami, ritornando al maiale ed allargandoci a cavallo e asino, c’è un lungo elenco da scorrere: dal “cotto” d’Oleggio al crudo di Sillavengo, dagli “asinini” di Bellinzago ai “cavallini” di Castelletto Ticino, Arona, Borgomanero e Cressa. Ma un occhio di riguardo va dedicato al “salam d’la doja”, l’insaccato fresco di maiale immerso nel suo grasso e conservato nel tradizionale orcio di terracotta, la doja piemontese. Appena preparati si lasciano asciugare per una decina di giorni per poi infilarli nell’orcio e annegarli nel grasso fuso di maiale. Prodotti tipici della terra delle risaie, sono uno dei componenti fondamentali della “panisa” o “paniscia”. Sull’origine dell’arte di far salumi c’è chi giura che occorra scavare fino alla preistoria, all’età del ferro. Per non voltar troppo indietro la testa e poter dare, comunque, un giusto peso alla “gloria del maiale” si può citare un celebre gastronomo francese, Grimod de La Reynière che, all’inizio dell’ottocento, sui suoi Almanach des Gourmands, scriveva così: “..é il re degli animali immondi, le cui qualità sono del tutto incontestate. Niente lardo senza di lui e di conseguenza niente cucina, niente prosciutto, né salsicce, né sanguinacci, né insaccati e di conseguenza niente salumieri”. E dopo averne tracciato un profilo dal quale non si scartava nulla, concludeva così: “..Qualunque buongustaio se sente pervaso da una profonda gratitudine verso il maiale ed è indegno di quel titolo se non nutre questo sentimento nel suo cuore”. Che dire, di più? Oui, monsieur de La Reynière…nous sommes d’accord avec vous: la viande de porc c’est trop bonne!

Marco Travaglini

Garibaldi, l’animalista in camicia rossa

Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, uno dei padri della patria, oltre ad essere sempre pronto – come dice Massimo Bubola nel testo della sua bella canzone, “Camicie rosse” – “a menare le mani per la libertà”, nutriva uno sconfinato amore per gli animali. Ed è questo,  probabilmente, uno degli aspetti meno conosciuti della sua complessa e poliedrica personalità. Un amore, il suo, che lo spinse nel  1871 a fondare, assieme alla contessa di Southerland, la “Società Reale per la protezione degli animali“, divenuta poi l’attuale Enpa.

 

Sfogliando le note storiche dell’ Ente Nazionale per la Protezione degli Animali  – che custodisce documenti e lettere firmate di suo pugno da Garibaldi – si scopre infatti che le origini stesse dell’associazione vanno fatte risalire al 1° aprile 1871, anno in cui Giuseppe Garibaldi, su invito di una nobildonna inglese – lady Anna Winter, contessa di Southerland –  incaricò con una lettera inviata da Caprera il suo medico personale, dottor Timoteo Riboli, di costituire una società per la protezione degli animali, annoverando la signora Winter , il medico e se stesso come soci fondatori e presidenti onorari. Un atto fondamentale che costituisce il più antico documento conosciuto contro il maltrattamento degli animali.

 

Fu così che nacque la “Società Reale per la Protezione degli Animali“, con un ufficio provvisorio a Torino, al primo piano del n. 29 di via Accademia Albertina, di cui la storica tipografia di Vincenzo Bona stampò, nel 1872, uno Statuto Sociale, stilato in lingua italiana, inglese, francese e tedesca.

Marco Travaglini

Via dell’Arcivescovado, da Gramsci a Einaudi

In questo palazzo ebbe sede la redazione del giornale di Gramsci e degli altri futuri fondatori del Pcd’i, come prima l’aveva avuta l’edizione piemontese de “L’Avanti!” e, in seguito, si sarebbe insediata, il 15 novembre del 1933 e per qualche tempo, la casa editrice Einaudi

In via dell’Arcivescovado, a Torino, quasi all’angolo con via XX Settembre, su uno dei muri dell’ex convento che oggi ospita una banca, il 27 aprile del 1949 è stata posta una lapide da «Torino memore » dove si ricorda che lì «La forte volontà/ e la mente luminosa/ di Antonio Gramsci/ stretti attorno a lui/ gli operai torinesi/ contro la barbarie/ fascista prorompente/ “L’Ordine Nuovo”/ stendardo di libertà/ qui nella bufera/levarono e tennero fermo».

In questo palazzo ebbe sede la redazione del giornale di Gramsci e degli altri futuri fondatori del Pcd’i, come prima l’aveva avuta l’edizione piemontese de “L’Avanti!” e, in seguito, si sarebbe insediata, il 15 novembre del 1933 e per qualche tempo, la casa editrice Einaudi. In via dell’Arcivescovado nei «due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti», come ricordava Palmiro Togliatti, nacque, visse e morì “L’Ordine Nuovo” di Gramsci. In via dell’Arcivescovado  ci passa tanta gente, tutti i giorni. Chissà quanti alzando gli occhi, magari casualmente, si soffermano a leggere quella lapide. E quanti impegneranno almeno qualche attimo soffermandosi a pensare a quell’insieme di uomini e di cultura, immaginando il fervore delle idee, delle passioni, dei progetti che si addensarono in quelle stanze luogo. Probabilmente pochi. E per i più varrà quell’indifferenza che Gramsci condannò con veemenza in uno dei suoi scritti più noti, “Odio gli indifferenti”.  Lo scrisse per La città futura, numero unico pubblicato nel febbraio del 1917 a cura della Federazione giovanile piemontese del Partito Socialista.

Scriveva, tra l’altro, Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti..L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza…Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti…”.

Marco Travaglini

 

Marietta e le donne del burro

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Marietta, originaria di Sovazza, si era trasferita a Baveno dopo aver sposato – non più giovanissima – Oliviero Brenti, dipendente della Navigazione del Lago Maggiore che divideva la sua attività tra l’imbarco bavenese e lo scalo di Carciano


 Con i suoi lavori da domestica, Marietta integrava il magro reddito familiare dopo il pensionamento anticipato del marito che, da sempre cagionevole di salute, aveva bisogno di frequenti cure mediche. Da ragazza era stata una delle donne “del burro” che dai paesi del Mottarone – Armeno, Sovazza e Coiromonte , partivano a piedi nel cuore della notte con la gerla in spalla per vendere il burro sui mercati dei due laghi. Era una fatica non da poco, alla quale si sottoponevano per il desiderio – e la necessità – di realizzare un sia pur modesto guadagno che compensasse i loro sforzi. Nei giorni che precedevano ilviaggio, nelle stalle degli alpeggi del Mottarone, la panna del latte appena munto veniva versata nel cilindro delle zangole e le donne iniziavano a sbatterla agitando lo stantuffo. Dopo un paio d’ore di continua agitazione, il burro era pronto per essere tagliato nei panetti di vario peso, pronti a raggiungere le cucine di Omegna, Orta, Stresa e Baveno. Le  donne “del burro” partivano per la stessa meta sempre in coppia, per maggior sicurezza. Una lanterna in mano, per rischiarare il sentiero nelle notti senza luna, il carico ben disposto nella gerla e un passo di montagna che dava conto di quanta forza poteva infondere la necessità. Quando le coppie s’incontravano, prima di lasciarsi alle spalle le viuzze dei borghi di montagna s’udiva un bisbigliare di saluti che, mano a mano s’allontanava dalle case, diventava sempre più tenue, fino a sfumare nel silenzio notturno. Già prima dell’alba, anticipando il cantare del gallo, le donne avevano raggiunto le loro mete, iniziando un meticoloso giro tra le case, secondo un copione che nessuno aveva mai scritto ma che veniva riproposto ogni volta, come un abitudine consolidata tra chi acquistava e chi vendeva. C’era chi ritirava e pagava il burro limitandosi a uno scarno cenno di saluto e chi, invece, moriva dalla voglia di “attaccar bottone” con quelle ragazze che venivano giù dai monti. C’era chi chiedeva il loro nome e quali fossero i loro legami di parentela; chi offriva una tazzina di caffè nero, preparato nel pentolino sulla fiamma del camino e chi accompagnava l’offerta della bevanda calda con una ciambella dolce o un pezzo di pane e formaggio. S’intrecciavano, nel tempo, conoscenze e amicizie.A volte anche simpatie che sfociavano in veri e propri amori, com’era successo tra Marietta e Oliviero. Le donne  “del burro“, finito il giro dei clienti si recavano nelle botteghe dove – impegnando una parte del loro guadagno – acquistavano provviste, stoffe e filati, sapone e fiammiferi. Nella gerla ormai vuota di ognuna veniva riposta la mercanzia e, dopo un ultimo saluto, si avviavano sul cammino del ritorno. All’arrivo, in tempo per l’ultimo vespro prima che la luce del tramonto lasciasse il passo alla sera, era gran festa. Per i piccoli c’era sempre una fetta larga di pane bianco o con l’uvetta e sul tagliere, accompagnando le fette di polenta, non mancavano formaggio e salame. Talvolta anche un mezzo litro di vino rosso. La fatica di quelle donne andava in qualche modo risarcita e il calore che si creava attorno a loro e ai “misteri” contenuti nelle gerle, svelati man mano che si svuotavano. Oggi come oggi il burro con la zangola, su all’alpe, lo fanno in pochi e non si scende più a piedi dai sentieri, sotto le stelle, per venderlo sull’uscio. Adesso ci sono i caseifici, le latterie turnarie, i grossisti che vanno a prendere il latte e lo trasformano. E le donne “del burro” sono solo un ricordo del passato

Marco Travaglini

 

Delicata frittata con fiori di prato

Inno alla primavera con un piatto classico, semplice ma saporito, che ben si adatta ad ogni occasione. Una frittata con fiori eduli raccolti nei prati, violette e primule. Un piatto a base di uova fresche, equilibrato nel gusto, deliziosamente profumato e delicatamente colorato. Una festa per gli occhi e per il palato.

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Ingredienti

4 uova grandi freschissime

4 cucchiai di parmigiano grattugiato

5 cucchiai di fiori commestibili

2 cucchiai di latte

Sale e pepe q.b.

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Lavare con molta delicatezza le viole e le primule senza il gambo, asciugare con carta assorbente. In una terrina sbattere le uova con il sale ed il pepe, aggiungere il parmigiano, il latte ed i fiori. Foderare una teglia con carta forno bagnata e strizzata, versare le uova e cuocere in forno per circa 30 minuti a 200 gradi. Servire guarnita con fiori freschi.

 

Paperita Patty