redazione il torinese

Marietta e le donne del burro

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Marietta, originaria di Sovazza, si era trasferita a Baveno dopo aver sposato – non più giovanissima – Oliviero Brenti, dipendente della Navigazione del Lago Maggiore che divideva la sua attività tra l’imbarco bavenese e lo scalo di Carciano


 Con i suoi lavori da domestica, Marietta integrava il magro reddito familiare dopo il pensionamento anticipato del marito che, da sempre cagionevole di salute, aveva bisogno di frequenti cure mediche. Da ragazza era stata una delle donne “del burro” che dai paesi del Mottarone – Armeno, Sovazza e Coiromonte , partivano a piedi nel cuore della notte con la gerla in spalla per vendere il burro sui mercati dei due laghi. Era una fatica non da poco, alla quale si sottoponevano per il desiderio – e la necessità – di realizzare un sia pur modesto guadagno che compensasse i loro sforzi. Nei giorni che precedevano ilviaggio, nelle stalle degli alpeggi del Mottarone, la panna del latte appena munto veniva versata nel cilindro delle zangole e le donne iniziavano a sbatterla agitando lo stantuffo. Dopo un paio d’ore di continua agitazione, il burro era pronto per essere tagliato nei panetti di vario peso, pronti a raggiungere le cucine di Omegna, Orta, Stresa e Baveno. Le  donne “del burro” partivano per la stessa meta sempre in coppia, per maggior sicurezza. Una lanterna in mano, per rischiarare il sentiero nelle notti senza luna, il carico ben disposto nella gerla e un passo di montagna che dava conto di quanta forza poteva infondere la necessità. Quando le coppie s’incontravano, prima di lasciarsi alle spalle le viuzze dei borghi di montagna s’udiva un bisbigliare di saluti che, mano a mano s’allontanava dalle case, diventava sempre più tenue, fino a sfumare nel silenzio notturno. Già prima dell’alba, anticipando il cantare del gallo, le donne avevano raggiunto le loro mete, iniziando un meticoloso giro tra le case, secondo un copione che nessuno aveva mai scritto ma che veniva riproposto ogni volta, come un abitudine consolidata tra chi acquistava e chi vendeva. C’era chi ritirava e pagava il burro limitandosi a uno scarno cenno di saluto e chi, invece, moriva dalla voglia di “attaccar bottone” con quelle ragazze che venivano giù dai monti. C’era chi chiedeva il loro nome e quali fossero i loro legami di parentela; chi offriva una tazzina di caffè nero, preparato nel pentolino sulla fiamma del camino e chi accompagnava l’offerta della bevanda calda con una ciambella dolce o un pezzo di pane e formaggio. S’intrecciavano, nel tempo, conoscenze e amicizie.A volte anche simpatie che sfociavano in veri e propri amori, com’era successo tra Marietta e Oliviero. Le donne  “del burro“, finito il giro dei clienti si recavano nelle botteghe dove – impegnando una parte del loro guadagno – acquistavano provviste, stoffe e filati, sapone e fiammiferi. Nella gerla ormai vuota di ognuna veniva riposta la mercanzia e, dopo un ultimo saluto, si avviavano sul cammino del ritorno. All’arrivo, in tempo per l’ultimo vespro prima che la luce del tramonto lasciasse il passo alla sera, era gran festa. Per i piccoli c’era sempre una fetta larga di pane bianco o con l’uvetta e sul tagliere, accompagnando le fette di polenta, non mancavano formaggio e salame. Talvolta anche un mezzo litro di vino rosso. La fatica di quelle donne andava in qualche modo risarcita e il calore che si creava attorno a loro e ai “misteri” contenuti nelle gerle, svelati man mano che si svuotavano. Oggi come oggi il burro con la zangola, su all’alpe, lo fanno in pochi e non si scende più a piedi dai sentieri, sotto le stelle, per venderlo sull’uscio. Adesso ci sono i caseifici, le latterie turnarie, i grossisti che vanno a prendere il latte e lo trasformano. E le donne “del burro” sono solo un ricordo del passato

Marco Travaglini

 

Delicata frittata con fiori di prato

Inno alla primavera con un piatto classico, semplice ma saporito, che ben si adatta ad ogni occasione. Una frittata con fiori eduli raccolti nei prati, violette e primule. Un piatto a base di uova fresche, equilibrato nel gusto, deliziosamente profumato e delicatamente colorato. Una festa per gli occhi e per il palato.

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Ingredienti

4 uova grandi freschissime

4 cucchiai di parmigiano grattugiato

5 cucchiai di fiori commestibili

2 cucchiai di latte

Sale e pepe q.b.

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Lavare con molta delicatezza le viole e le primule senza il gambo, asciugare con carta assorbente. In una terrina sbattere le uova con il sale ed il pepe, aggiungere il parmigiano, il latte ed i fiori. Foderare una teglia con carta forno bagnata e strizzata, versare le uova e cuocere in forno per circa 30 minuti a 200 gradi. Servire guarnita con fiori freschi.

 

Paperita Patty

La passione dei libri per Torino

Capitale della cultura, luogo privilegiato dove storia, letteratura e arte si incontrano, Torino è un punto di riferimento intellettuale, un magico scenario che ha ispirato penne illustri dando vita a opere meravigliose e famose, scritture dove vite celebri e comuni si incrociano

La città ha ispirato autori celebri come Primo Levi, Erasmo da Rotterdam, Torquato Tasso, Jean-Jacques Rousseau, Emilio Salgari, Natalia Ginzburg, Italo Calvino, Cesare Pavese, ha incantato personaggi come Nietzsche: “E l’aria: secca, energizzante, allegra… il primo luogo in cui sono possibile!”, letterati come Italo Calvino: “Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia”.  L’eleganza della città, le sue piazze signorili e imponenti, i caffè raffinati, il fermento garbato, il Liberty, il Barocco, la magia, il mistero, tutto a Torino ispira, crea suggestioni positive, slanci creativi che inevitabilmente portano alla produzione di grandi opere. “Profonda” diceva De Chirico, “seconda a nessun’altra per magnificenza” secondo Gogol, uno dei più grandi autori della letteratura russa. Questo fervore ha dato vita a numerosi testi che vedono Torino come sfondo, come scenografia di storie che ci hanno appassionato, emozionato e fatto guardare la città con occhi diversi.

 

Il Libro Cuore di Edmondo De Amicis, il suo capolavoro, un libro per ragazzi ma apprezzato da tutti, in una Italia appena unita il diario di un bambino racconta l’amore per la patria, il rispetto per i genitori, lo spirito di sacrificio, la carità, l’obbedienza.

La solitudine dei numeri primi è il libro di debutto di Paolo Giordano, giovane autore torinese e vincitore del Premio Strega e Campiello. Un romanzo che racconta la storia di due giovani le cui vite sono state segnate da dolorose vicende della loro infanzia. Torino non è menzionata, ma tanti sono i luoghi citati come la Gran Madre o la Basilica di Superga. Al libro è ispirato l’omonimo film.

Il cimitero di Praga. Ambientato tra Torino, Parigi e Palermo è il sesto romanzo di Umberto Eco. Il capitano Simone Simonini, il protagonista di fantasia dell’opera e trait-d’union con gli altri personaggi, è un falsario cinico del XIX secolo, gli altri attori sono invece figure storiche del Risorgimento realmente esistite. Un libro che racconta di insurrezioni, rivolte, congiure.

La Casa in Collina Ambientato a Torino e nelle zone circostanti è uno dei più bei romanzi di Cesare Pavese. Una storia che affronta il problema della solitudine durante Seconda Guerra Mondiale, ma anche l’impegno civile, la pace interiore, la fuga, i sensi di colpa di Corrado il protagonista. Può essere considerato l’espressione del momento più maturo professionalmente dello scrittore piemontese.

Lessico Famigliare Gesti, comportamenti, episodi e soprattutto frasi della vita quotidiana dei Levi una famiglia ebrea e antifascista che vive nella Torino degli anni ’30. I ricordi, la lontananza, il disperdersi della famiglia a causa della guerra raccontati dall’interno da Natalia Ginzburg. Un libro-testimonianza che si è aggiudicato il Premio Strega nel 1963.

La giornata d’uno scrutatore. Italo Calvino narra la storia di Amerigo Ormea, intellettuale comunista, il cui scopo è quello di impedire che le persone incapaci di intendere e di volere vengano influenzate da religiosi a votare per la DC, si svolge tutto in un giorno in una sede unica: il Cottolengo di Torino. E’ un libro autobiografico il cui protagonista è l’alter ego dell’autore. Calvino ha impiegato molto tempo per scrivere questo libro, dal ’53 al ’63, non per una ricerca della perfezione, ma per l’impossibilità di scrivere sull’argomento in piena libertà.

Torino è casa mia. “Torino è Torino. Non è una città come un’altra” dice l’autore Giuseppe Culicchia e “aprire questo libro è un po’ come entrare in casa nostra. Mia. Vostra”.

Lo scrittore paragona Torino alla sua casa con “un ingresso, la stazione di Porta Nuova, una cucina, il mercato di Porta Palazzo, un bagno, il Po, e poi naturalmente il salotto di Piazza San Carlo, e quel terrazzo che è il Parco del Valentino, e il ripostiglio del Balon, e una quantità di altre cose e di altre storie”.

Oltre a questi opere, sicuramente tra le più note, ce ne sono molte altre che vedono la Città della Mole come meravigliosa protagonista:

Il Fantasma di Piazza Statuto, di Massimo Tallone, La Donna della domenica e A che punto è la notte di Fruttero – Lucentini, Torino Parallela di Baricco – Sterling, La Fratellanza della Sacra Sindone di Julia Navarro, La Commedia Torinese: Vicende di una eredità letteraria di  Michael Krüger e davvero tanti altri.

 

Maria La Barbera

 

 

 

Penne saporite in salsa di zucchine

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Un piatto leggero, semplice, delicato ma al contempo saporito

Un primo piatto perfetto, leggero, semplice, delicato ma al contempo saporito, dal color verde acceso che sara’ una gioia per occhi e palato di tutti i commensali.

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Ingredienti per 4 persone:

360 g di pasta corta tipo penne
400 g di zucchine chiare
50 g di parmigiano grattugiato
100 g di pancetta affumicata a cubetti
1/2 spicchio d’aglio
1 cucchiaio di prezzemolo tritato
1cucchiaino di menta fresca tritata
1 cucchiaino di basilico fresco tritato
Olio evo q.b.
Sale, pepe
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Tagliare le zucchine a meta’, scavare leggermente per eliminare un poco di polpa, lessare in acqua salata mantenendole al dente. Scolare, conservare l’acqua di cottura e lasciar  raffreddare. In una larga padella soffriggere con un poco di olio i cubetti di pancetta. Frullare le zucchine con il parmigiano, l’aglio, il prezzemolo ed il basilico tritati, il pepe e l’olio, aggiustare di sale. Cuocere la pasta nell’acqua di cottura delle zucchine, scolare e saltare in padella con la salsa di zucchine.

Paperita Patty

 

Valle Strona, dal “solletico ai tarli” ai Pinocchi

Un tempo la Valstrona era conosciuta come la Valle dei “gràta gàmul”, i tornitori e lavoratori del legno in grado di “fare il solletico ai tarli”.

Nelle botteghe poste lungo lo Strona, il torrente che dà il nome alla valle,  principale affluente del Toce, si tornivano e lavoravano utensili da cucina, ciotole, mestoli, e piccoli oggetti d’arredo, già molto prima che arrivasse l’energia elettrica, usando la forza motrice dell’acqua.

A onor del vero, quella che oggi in molti chiamano anche la “valle dei Pinocchi”  – da quando gli artigiani si sono specializzati nel dar vita al burattino più amato del mondo – aveva un altro soprannome: la “val di cazzuj”, rammentando la grande quantità di cucchiai di legno che lì venivano prodotti. Questa valle, che da Omegna sale verso il monte Capezzone, è una terra ricca di suggestioni e bellezze. Comprende, nei quattro comuni che la compongono, ben 14 nuclei abitati: Germagno, Loreglia, Chesio, Strona, Luzzogno, Fornero, Inuggio, Piana, Sambughetto, Massiola, Rosarolo, Otra, Forno e Campello Monti. Da sempre è terra di lavoratori e inventori che l’anno resa famosa non solo per il legno ma anche per l’antica tradizione nella lavorazione del ferro e del peltro, tanto che, dal XVII al XIX secolo si può parlare di una scuola di peltrai emigrati dalla Valle strona in varie città d’Italia ed Europa. L’ingegno non è mai mancato. A Sambughetto venne inventata una pala, la “sesula” , che veniva utilizzata in inverno per sgomberare la neve dalle strade , senza che la neve le si attaccasse. Il primo tornio mosso dalla forza dell’acqua fu quello di Gaudenzio Piana, di Fornero. Come e perché Piana poté costruirlo, è questione avvolta in un alone di leggenda. Pare che avendone visto un esemplare nelle prigioni di Genova, dove era stato rinchiuso perché aveva disertato dall’esercito piemontese dopo la sconfitta di Novara del 1849, decise di costruirsene uno uguale, non appena fosse tornato libero. Il tutto in gran segreto, evitando che i compaesani potessero copiare la sua nuova macchina e usufruire anch’essi dei vantaggi che arrecava, visto che il tornio ad acqua consentiva una resa di gran lunga più alta rispetto ai tradizionali torni azionati a pedale. Il segreto durò poco, però e nel giro di pochi decenni la valle si riempì di torni mossi dalle acque dello Strona. Così, producendo senza soste e innovando in base alle richieste di mercato, si è giunti ai Pinocchi di tutte le fogge e grandezze che, insigniti del marchio “Piemonte eccellenza artigiana”, vengono venduti un po’ ovunque, compresa Collodi, la patria toscana del burattino inventato nel 1881. Sono più di cento i passaggi che occorrono per realizzare un Pinocchio snodabile completo e per immaginare sempre dei nuovi modelli occorrono un estro e una fantasia non comuni. “C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”, si legge nell’incipit di uno dei più famosi libri per l’infanzia al mondo, il Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto il Collodi. Ma andrebbe detto anche, senza offesa per nessuno, che quel mastro Geppetto che ha saputo lavorare il “tronco parlante” regalatogli da mastro Ciliegia, forse era arrivato nel Granducato di Toscana dalla Valle Strona.

 

Marco Travaglini

Valontan, una storia di provincia

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A Brunello Martoccini era nato un figlio. Una bella notizia per  l’anziano zio, il signor Virgilio Borlazza, che viveva a Romentino, nel novarese. Contadino in pensione, Virgilio, aveva promesso al nipote che avrebbe fatto da padrino al battesimo del primo figlio

Brunello, nel frattempo, si era trasferito a Torino. Quindi era lì, nella capitale sabauda, che doveva recarsi.  Nessun problema, a parte uno. In verità non un grande problema ma piuttosto, come dire?, delicato: il mal d’auto che Virgilio soffriva con particolare disagio. Anche da giovane, quando capitava di prendere la corriera alla fermata, davanti al cascinale dei Borlazza, appena messo il piede sul gradino avvertiva quel malessere che agguanta lo stomaco e lo strizza ben bene. “Comunque, la parola data va mantenuta”. E  il signor Virgilio non era uomo da venir meno alle promesse. “Piuttosto faccio il viaggio con la testa fuori dal finestrino ma quando il prete bagna la testa dell’Edoardo(questo il nome  scelto per l’erede di casa Martoccini)  devo esser lì, altro che balle!”, affermava deciso l’anziano contadino.La moglie , la signora Adele, doveva ritirare dei medicinali prescritti dal medico e , cogliendo al balzo l’occasione, per non perder tempo,  lo spedì in farmacia , raccomandandogli di acquistare anche delle pillole utili a contrastare quella fastidiosa nausea che alcuni, come lui, provavano durante i lunghi viaggi in automobile. Virgilio non si fece pregare, consapevole com’era che le decisioni della moglie erano irrevocabili e che a nulla sarebbe valso opporvi resistenza. Dunque, andò. In pochi minuti, raggiunta la farmacia e varcata la soglia, si trovò una sorpresa che avrebbe voluto evitare: dietro al bancone non c’era il farmacista D’Intrugli ma sua moglie, una signora un po’ impicciona e molto, ma molto curiosa.“Oddio, proprio quella lì mi toccava d’incontrare. E’ quasi peggio dell’Ercolino, quel gran rompiballe di mio nipote ”, sospirò Virgilio. Dopo lo scambio di saluti , molto formale e piuttosto freddino,  l’anziano allungò la ricetta sul bancone  e aggiunse: “..mi servono anche le pastiglie per l’auto”.  La moglie del farmacista, alzando gli occhi dal foglio, lo guardò negli occhi e chiese: “Valontan?”. Virgilio, contrariato per la domanda, borbottò dentro di sé..”Eccola qua, la curiosa. Vuol sapere dove vado,eh? Ma io non gli dico un bel niente”. E stette zitto. La signora intanto, voltando le spalle all’anziano,  cercava sugli scaffali le medicine, mormorando  tra sè e sè , “Valontan”.Virgilio, che aveva l’udito buono, a dispetto dell’età,  scosse la testa e pensò: “Di nuovo. Eccola che insiste. Non riesce proprio a farsi i fatti suoi…Ma io starò muto come una tomba e la soddisfazione di dirle dove devo andare proprio non gliela dò”. La farmacista, raccolte le confezioni sul bancone, rilesse quanto stava scritto sulla ricetta.. “Allora, vediamo un po’. Supposte di glicerina..sì..sciroppo per la tosse..eccolo.. antibiotico e antipiretico sono qui. Ah… ecco..Valontan”.Virgilio, esasperato dall’invadenza, rispose seccato: “Vado a Torino. Contenta, adesso? ”.La signora, sgranando gli occhi, disse:”Ma signor Virgilio, io non volevo sapere dove andrà lei. Valontan è il nome delle pastiglie”. L’anziano però non le credette. Pagò le medicine, ritirò la merce e lo scontrino e, prima di andarsene le disse: “Eh, sì! Altro che non vuol saperlo, la scìura farmacista. Ma se me l’ha chiesto tre volte, cara Madonna!  Farsi i fatti propri mai, eh..? Buongiorno”.

Marco Travaglini

Spaghettoni con fave fresche: un primo saporito e delicato

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Legumi semplici ricchi di proprietà nutritive e fibre. Molto versatili in cucina, consumate sia crude che cotte, hanno un sapore unico

Dalla primavera sulle bancarelle dei nostri mercati arrivano le fave, legumi semplici ricchi di proprieta’ nutritive e fibre. Molto versatili in cucina, consumate sia crude che cotte, hanno un sapore unico e inconfondibile. Provatele cosi’, le apprezzerete in tutta la loro tenerezza.

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Ingredienti per 4 persone:

 

320gr. di spaghettoni

100gr. di salame crudo

1 tazza di fave fresche sgusciate

1 piccola cipolla

1 ciuffo di menta fresca

80gr. di pecorino grattugiato

Olio evo, sale, pepe q.b.

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Sbollentare le fave sgusciate per pochi minuti in acqua bollente, lasciar raffreddare. In una larga padella soffriggere la cipolla affettata con poco olio, aggiungere il salame crudo tritato, le fave private della loro pellicina, mescolare, lasciar insaporire e aggiustare di sale e pepe. Scolare la pasta al dente (conservare un mestolino di acqua di cottura), far saltare in padella per un minuto mescolando bene, cospargere con la menta fresca tritata, il pecorino, nappare con l’acqua di cottura e servire subito.

Paperita Patty 

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Per il monumento ai Cavalieri il Canonica lavorò gratis

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi

 

Ed eccoci nuovamente giunti al nostro consueto appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Cari amici lettori e lettrici, oggi andremo alla scoperta di uno dei monumenti presenti in una delle piazze più “frequentate” della città: sto parlando di Piazza Castello e del monumento ai Cavalieri d’Italia. (Essepiesse)

 

 

La statua è collocata in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolta verso via Lagrange. Il monumento rappresenta un soldato a cavallo su un piedistallo di granito,che poggia su un basamento a gradoni. Il cavaliere dall’aria vigile, scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra mentre con il fucile in spalla, con una mano tiene le redini e con l’altra uno stendardo; la posa del destriero e del suo cavaliere è rilassata, lontana dalle immagini stereotipate di nobili cavalieri che caricano al galoppo. Di contorno al basamento vi sono una serie di alto rilievi con fregi militari.

 

Con il termine Cavalleria si è soliti indicare le unità militari montate a cavallo. Essa ebbe origini molto antiche, venne infatti da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia dove venisse richiesta molta mobilità e velocità nell’attacco e fu anche strategicamente determinante in alcune battaglie. In seguito cominciò ad evidenziare i suoi limiti con il perfezionamento delle armi da fuoco e l’avvento dei treni e degli autoveicoli.

Riformata all’interno dell’Esercito Sardo sin dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. L’ Arma si conquistò così la fiducia e la stima degli alleati francesi. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli; le battaglie più famose di questa guerra, quella di Solferino e di San Martino (alle porte del Veneto), si combattono con i francesi impegnati a Solferino e i sardo-piemontesi a S. Martino. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. La Cavalleria, a partire dagli anni ’70, venne impiegata in Africa, dove furono formati Reggimenti di Cavalleria indigena, ed anche nella guerra italo-turca del 1911-1912.

In seguito il primo conflitto mondiale impose alla Cavalleria l’abbandono del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Verso la fine del conflitto però, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima guerra mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave. Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria.

Per ricordare e onorare il valore dell’Arma, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il comitato, presieduto dal Re e dal senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale. La realizzazione del monumento venne affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra.

Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.

 

Simona Pili Stella

L’omaggio di Torino a Giuseppe Mazzini

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo

 

Collocato in via Andrea Doria, angolo via Dei Mille, precisamente sullo spiazzo di confluenza tra le due vie, Giuseppe Mazzini viene raffigurato in una scultura bronzea, seduto in atteggiamento pensoso, avente una mano poggiata a sostenere il capo e l’altra su un pastrano adagiato sulle gambe. Il piedistallo lapideo è ornato da simboli della classicità rappresentati superiormente da due tripodi, collocati ai lati della statua e inferiormente, da pannelli bronzei disposti in sequenza. Nel pannello centrale è rappresentata la lupa capitolina nell’atto di allattare i gemelli, in riferimento alla Repubblica Romana, mentre sui restanti prospetti figurano corone di lauro che circondano i nomi dei principali sostenitori di Mazzini. Il sottostante basamento presenta, anteriormente, dei gradini simmetrici in ascesa verso la scultura. Nato a Genova il 22 giugno 1805 (quando Genova era ancora parte della Repubblica Ligure annessa al Primo Impero Francese), Mazzini è stato un patriota, uomo politico, filosofo e giurista italiano. Costituì a Marsiglia nel 1831 la Giovine Italia, fondata sui principi di “Dio e popolo” e “pensieri e azioni” volti a promuovere l’indipendenza della penisola dagli stati stranieri e la costituzione dell’Italia fondata sui principi della repubblica. Anche se osteggiato dal protrarsi dell’esilio forzato e dai contrasti in patria con la ragione di stato (promossa da Camillo Benso Conte di Cavour e da Giuseppe Garibaldi), Mazzini perpetuò il suo impegno politico che contribuì in maniera decisiva alla nascita dello Stato Unitario Italiano.

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Nello stato riunificato risiedette nell’ultimo decennio della sua vita come “esule di patria”, sotto falso nome; morì a Pisa il 10 marzo del 1872. In Torino come in altre numerose città della nazione, quale atto di riconoscimento al suo impegno, fu eseguito postumo il monumento in suo onore. Per quanto riguarda la città di Torino, nell’intenso programma delle manifestazioni svolte nella città per il giubileo dell’Unità d’Italia, nel 1911, venne istituito un apposito Comitato per erigere un monumento in memoria di Giuseppe Mazzini, distintosi come uno dei principali rappresentanti del Risorgimento italiano. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Repubblicana Torinese, sorse in concomitanza alla ricorrenza del quarantesimo anniversario dal decesso del patriota genovese, di cui erano in corso i preparativi per le celebrazioni. Il Comitato sottopose all’Amministrazione comunale la domanda di aderire all’iniziativa ma la proposta venne osteggiata in quanto, si affermava, fosse avanzata da un gruppo partitico; per non pregiudicare l’esito della richiesta venne costituito un nuovo Comitato dichiarante l’estraneità ad ogni questione politica. Nel 1913 l’istanza di questo nuovo Comitato venne favorevolmente accolta dal Consiglio Comunale. Assunse l’incarico per l’ideazione del complesso scultoreo, Luigi Belli, docente presso la regia Accademia Albertina di Belle Arti ed esecutore di significative opere nella città. Belli accettò l’incarico senza richiedere alcun compenso per la sua attività (consapevole forse che sarebbe anche stata la sua ultima opera data l’avanzata età) ma domandò unicamente il rimborso per le spese sostenute nella realizzazione della proposta.

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Nonostante la rinuncia dell’artista, il bozzetto dell’opera venne approvato stimando un importo considerevolmente superiore a quello stabilito per l’esecuzione del monumento, quindi per arginare i limiti economici incorsi, l’Amministrazione concesse una agevolazione per il pagamento del dazio sui materiali, contrattò con il Ministro della Guerra in Roma per l’acquisizione del bronzo necessario ad un prezzo agevolato, mentre il Comitato promosse una pubblica sottoscrizione presso municipi, istituti civili e militari nazionali. Successivamente i modelli in creta a scala reale della statua e di un altorilievo, furono inviati alla fonderia scelta dal Belli, con sede presso Milano, per eseguirne la fusione in bronzo; la statua bronzea ed il relativo modello in gesso, vennero recapitati a Torino, su un carro ferroviario atto al trasporto speciale, l’11 maggio 1917. Il complesso scultoreo fu posto in opera, nonostante fosse privo dell’altorilievo rappresentante la “Libertà” (non consegnata forse a causa di un compenso non corrisposto dal Comitato), figurando ugualmente come un altare alla repubblicana libertà. L’inaugurazione della scultura commemorativa dedicata a Mazzini si svolse il 22 luglio 1917. La cerimonia del monumento si celebrò in presenza di autorità nazionali e cittadine, in una città dall’atmosfera poco festosa a causa della popolazione mobilitata sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo.

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(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella