redazione il torinese

Valle Strona, dal “solletico ai tarli” ai Pinocchi

Un tempo la Valstrona era conosciuta come la Valle dei “gràta gàmul”, i tornitori e lavoratori del legno in grado di “fare il solletico ai tarli”.

Nelle botteghe poste lungo lo Strona, il torrente che dà il nome alla valle,  principale affluente del Toce, si tornivano e lavoravano utensili da cucina, ciotole, mestoli, e piccoli oggetti d’arredo, già molto prima che arrivasse l’energia elettrica, usando la forza motrice dell’acqua.

A onor del vero, quella che oggi in molti chiamano anche la “valle dei Pinocchi”  – da quando gli artigiani si sono specializzati nel dar vita al burattino più amato del mondo – aveva un altro soprannome: la “val di cazzuj”, rammentando la grande quantità di cucchiai di legno che lì venivano prodotti. Questa valle, che da Omegna sale verso il monte Capezzone, è una terra ricca di suggestioni e bellezze. Comprende, nei quattro comuni che la compongono, ben 14 nuclei abitati: Germagno, Loreglia, Chesio, Strona, Luzzogno, Fornero, Inuggio, Piana, Sambughetto, Massiola, Rosarolo, Otra, Forno e Campello Monti. Da sempre è terra di lavoratori e inventori che l’anno resa famosa non solo per il legno ma anche per l’antica tradizione nella lavorazione del ferro e del peltro, tanto che, dal XVII al XIX secolo si può parlare di una scuola di peltrai emigrati dalla Valle strona in varie città d’Italia ed Europa. L’ingegno non è mai mancato. A Sambughetto venne inventata una pala, la “sesula” , che veniva utilizzata in inverno per sgomberare la neve dalle strade , senza che la neve le si attaccasse. Il primo tornio mosso dalla forza dell’acqua fu quello di Gaudenzio Piana, di Fornero. Come e perché Piana poté costruirlo, è questione avvolta in un alone di leggenda. Pare che avendone visto un esemplare nelle prigioni di Genova, dove era stato rinchiuso perché aveva disertato dall’esercito piemontese dopo la sconfitta di Novara del 1849, decise di costruirsene uno uguale, non appena fosse tornato libero. Il tutto in gran segreto, evitando che i compaesani potessero copiare la sua nuova macchina e usufruire anch’essi dei vantaggi che arrecava, visto che il tornio ad acqua consentiva una resa di gran lunga più alta rispetto ai tradizionali torni azionati a pedale. Il segreto durò poco, però e nel giro di pochi decenni la valle si riempì di torni mossi dalle acque dello Strona. Così, producendo senza soste e innovando in base alle richieste di mercato, si è giunti ai Pinocchi di tutte le fogge e grandezze che, insigniti del marchio “Piemonte eccellenza artigiana”, vengono venduti un po’ ovunque, compresa Collodi, la patria toscana del burattino inventato nel 1881. Sono più di cento i passaggi che occorrono per realizzare un Pinocchio snodabile completo e per immaginare sempre dei nuovi modelli occorrono un estro e una fantasia non comuni. “C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”, si legge nell’incipit di uno dei più famosi libri per l’infanzia al mondo, il Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto il Collodi. Ma andrebbe detto anche, senza offesa per nessuno, che quel mastro Geppetto che ha saputo lavorare il “tronco parlante” regalatogli da mastro Ciliegia, forse era arrivato nel Granducato di Toscana dalla Valle Strona.

 

Marco Travaglini

Golosi involtini pasquali in gelatina

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Un detto popolare recita ”Non c’e’ Pasqua senza uova”

Nel rispetto della tradizione, per una Pasqua all’insegna della convivialita’ e degli antichi sapori, vi propongo un facile e fresco antipasto ideale per il pranzo o per il picnic di Pasquetta che vede le uova come immancabili protagoniste del menu’ in una festa di colori e sapori.

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Ingredienti per 8 persone:

 

8 fette di prosciutto cotto tagliato spesso

6 uova sode

100 gr. di tonno sott’olio

1 cucchiaio di capperi

2 cucchiai di mayonnaise

1 cucchiaio di peperoni sott’aceto tagliati a striscioline

1 dado per gelatina

2,5 dl. di vino bianco

2,5 dl. di acqua

cucchiaio di aceto bianco

sale q.b.

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Tritare quattro uova sode con i capperi, il tonno, la mayonnaise;

farcire le fette di prosciutto, arrotolare ad involtino e sistemare in una pirofila preferibilmente in vetro. Nel frattempo preparare la gelatina: portare ad ebollizione l’acqua, far sciogliere il dado, mescolare, aggiungere il vino bianco e il cucchiaio di aceto, mescolare nuovamente e versare sugli involtini di prosciutto. Guarnire con le striscioline di peperone e le rimanenti uova tagliate a piacere. Lasciar raffreddare in frigo per almeno 3 ore.

Buona Pasqua a tutti i lettori.

Paperita Patty

Valontan, una storia di provincia

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A Brunello Martoccini era nato un figlio. Una bella notizia per  l’anziano zio, il signor Virgilio Borlazza, che viveva a Romentino, nel novarese. Contadino in pensione, Virgilio, aveva promesso al nipote che avrebbe fatto da padrino al battesimo del primo figlio

Brunello, nel frattempo, si era trasferito a Torino. Quindi era lì, nella capitale sabauda, che doveva recarsi.  Nessun problema, a parte uno. In verità non un grande problema ma piuttosto, come dire?, delicato: il mal d’auto che Virgilio soffriva con particolare disagio. Anche da giovane, quando capitava di prendere la corriera alla fermata, davanti al cascinale dei Borlazza, appena messo il piede sul gradino avvertiva quel malessere che agguanta lo stomaco e lo strizza ben bene. “Comunque, la parola data va mantenuta”. E  il signor Virgilio non era uomo da venir meno alle promesse. “Piuttosto faccio il viaggio con la testa fuori dal finestrino ma quando il prete bagna la testa dell’Edoardo(questo il nome  scelto per l’erede di casa Martoccini)  devo esser lì, altro che balle!”, affermava deciso l’anziano contadino.La moglie , la signora Adele, doveva ritirare dei medicinali prescritti dal medico e , cogliendo al balzo l’occasione, per non perder tempo,  lo spedì in farmacia , raccomandandogli di acquistare anche delle pillole utili a contrastare quella fastidiosa nausea che alcuni, come lui, provavano durante i lunghi viaggi in automobile. Virgilio non si fece pregare, consapevole com’era che le decisioni della moglie erano irrevocabili e che a nulla sarebbe valso opporvi resistenza. Dunque, andò. In pochi minuti, raggiunta la farmacia e varcata la soglia, si trovò una sorpresa che avrebbe voluto evitare: dietro al bancone non c’era il farmacista D’Intrugli ma sua moglie, una signora un po’ impicciona e molto, ma molto curiosa.“Oddio, proprio quella lì mi toccava d’incontrare. E’ quasi peggio dell’Ercolino, quel gran rompiballe di mio nipote ”, sospirò Virgilio. Dopo lo scambio di saluti , molto formale e piuttosto freddino,  l’anziano allungò la ricetta sul bancone  e aggiunse: “..mi servono anche le pastiglie per l’auto”.  La moglie del farmacista, alzando gli occhi dal foglio, lo guardò negli occhi e chiese: “Valontan?”. Virgilio, contrariato per la domanda, borbottò dentro di sé..”Eccola qua, la curiosa. Vuol sapere dove vado,eh? Ma io non gli dico un bel niente”. E stette zitto. La signora intanto, voltando le spalle all’anziano,  cercava sugli scaffali le medicine, mormorando  tra sè e sè , “Valontan”.Virgilio, che aveva l’udito buono, a dispetto dell’età,  scosse la testa e pensò: “Di nuovo. Eccola che insiste. Non riesce proprio a farsi i fatti suoi…Ma io starò muto come una tomba e la soddisfazione di dirle dove devo andare proprio non gliela dò”. La farmacista, raccolte le confezioni sul bancone, rilesse quanto stava scritto sulla ricetta.. “Allora, vediamo un po’. Supposte di glicerina..sì..sciroppo per la tosse..eccolo.. antibiotico e antipiretico sono qui. Ah… ecco..Valontan”.Virgilio, esasperato dall’invadenza, rispose seccato: “Vado a Torino. Contenta, adesso? ”.La signora, sgranando gli occhi, disse:”Ma signor Virgilio, io non volevo sapere dove andrà lei. Valontan è il nome delle pastiglie”. L’anziano però non le credette. Pagò le medicine, ritirò la merce e lo scontrino e, prima di andarsene le disse: “Eh, sì! Altro che non vuol saperlo, la scìura farmacista. Ma se me l’ha chiesto tre volte, cara Madonna!  Farsi i fatti propri mai, eh..? Buongiorno”.

Marco Travaglini

Spaghettoni con fave fresche: un primo saporito e delicato

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Legumi semplici ricchi di proprietà nutritive e fibre. Molto versatili in cucina, consumate sia crude che cotte, hanno un sapore unico

Dalla primavera sulle bancarelle dei nostri mercati arrivano le fave, legumi semplici ricchi di proprieta’ nutritive e fibre. Molto versatili in cucina, consumate sia crude che cotte, hanno un sapore unico e inconfondibile. Provatele cosi’, le apprezzerete in tutta la loro tenerezza.

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Ingredienti per 4 persone:

 

320gr. di spaghettoni

100gr. di salame crudo

1 tazza di fave fresche sgusciate

1 piccola cipolla

1 ciuffo di menta fresca

80gr. di pecorino grattugiato

Olio evo, sale, pepe q.b.

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Sbollentare le fave sgusciate per pochi minuti in acqua bollente, lasciar raffreddare. In una larga padella soffriggere la cipolla affettata con poco olio, aggiungere il salame crudo tritato, le fave private della loro pellicina, mescolare, lasciar insaporire e aggiustare di sale e pepe. Scolare la pasta al dente (conservare un mestolino di acqua di cottura), far saltare in padella per un minuto mescolando bene, cospargere con la menta fresca tritata, il pecorino, nappare con l’acqua di cottura e servire subito.

Paperita Patty 

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Per il monumento ai Cavalieri il Canonica lavorò gratis

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi

 

Ed eccoci nuovamente giunti al nostro consueto appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Cari amici lettori e lettrici, oggi andremo alla scoperta di uno dei monumenti presenti in una delle piazze più “frequentate” della città: sto parlando di Piazza Castello e del monumento ai Cavalieri d’Italia. (Essepiesse)

 

 

La statua è collocata in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolta verso via Lagrange. Il monumento rappresenta un soldato a cavallo su un piedistallo di granito,che poggia su un basamento a gradoni. Il cavaliere dall’aria vigile, scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra mentre con il fucile in spalla, con una mano tiene le redini e con l’altra uno stendardo; la posa del destriero e del suo cavaliere è rilassata, lontana dalle immagini stereotipate di nobili cavalieri che caricano al galoppo. Di contorno al basamento vi sono una serie di alto rilievi con fregi militari.

 

Con il termine Cavalleria si è soliti indicare le unità militari montate a cavallo. Essa ebbe origini molto antiche, venne infatti da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia dove venisse richiesta molta mobilità e velocità nell’attacco e fu anche strategicamente determinante in alcune battaglie. In seguito cominciò ad evidenziare i suoi limiti con il perfezionamento delle armi da fuoco e l’avvento dei treni e degli autoveicoli.

Riformata all’interno dell’Esercito Sardo sin dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. L’ Arma si conquistò così la fiducia e la stima degli alleati francesi. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli; le battaglie più famose di questa guerra, quella di Solferino e di San Martino (alle porte del Veneto), si combattono con i francesi impegnati a Solferino e i sardo-piemontesi a S. Martino. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. La Cavalleria, a partire dagli anni ’70, venne impiegata in Africa, dove furono formati Reggimenti di Cavalleria indigena, ed anche nella guerra italo-turca del 1911-1912.

In seguito il primo conflitto mondiale impose alla Cavalleria l’abbandono del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Verso la fine del conflitto però, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima guerra mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave. Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria.

Per ricordare e onorare il valore dell’Arma, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il comitato, presieduto dal Re e dal senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale. La realizzazione del monumento venne affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra.

Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.

 

Simona Pili Stella

Re Umberto I, il conservatore che abolì la pena di morte

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo

Nel piazzale, davanti alla Basilica di Superga, si innalza imponente il monumento dedicato al Re Umberto I di Savoia. Su un basamento di marmo si erge un Allobrogo, guerriero capostipite dei piemontesi, con indosso un elmo alato, lunghe trecce, ascia e corno di guerra. Il guerriero tiene un braccio levato mentre con l’altro punta una spada sulla corona ferrea circondata dalle palme del martirio, in segno di fedeltà e con accanto uno scudo sabaudo lambito da due serpenti, simboli rispettivamente della dinastia reale e del tempo. Alle spalle del guerriero si trova un’ alta colonna corinzia di granito, il cui capitello in bronzo si prolunga in una figura d’aquila imperiosa ad ali spiegate, trafitta da una freccia; allegoria del re assassinato.

 

Umberto I nacque il 14 marzo 1844 a Torino, precisamente a Palazzo Moncalieri, da Vittorio Emanuele II (allora duca di Savoia ed erede al trono sabaudo) e da Maria Adelaide d’ Austria. Ebbe, come da tradizione sabauda, un’educazione essenzialmente militare e nel marzo del 1858 intrapreseproprio la carriera militare, cominciando con il rango di capitano; successivamente prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo.

Assunse, sul fronte della politica interna, una posizione rigida e autoritaria soprattutto in senso anti-parlamentare: le insurrezioni e i moti, come quelli dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia e l’insurrezione della Lunigiana (1894), che minacciavano l’ordine interno e l’unità stessa dell’Italia, lo portarono a firmare provvedimenti come ad esempio lo Stato d’Assedio. A seguito di questi e di altri gravi avvenimenti, si procedette, ad opera del governo Crispi,allo scioglimento del Partito Socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie. Il suo regno fu contrassegnato da opinioni e sentimenti opposti, infatti se da alcuni venne elogiato per per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure come l’epidemia di colera a Napoli del1884 ( si prodigò personalmente nei soccorsi), o ad esempio per la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che portò all’abolizione della pena di morte, da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo. Fu aspramente criticato dall’opposizione anarchico-socialista e repubblicana italiana, soprattutto per la decorazione del generale Fiorenzo Bava-Beccaris che fece uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere, il 7 maggio 1898, i partecipanti alle manifestazioni di protesta scatenate dalla tassa sul macinato. Dopo esser sfuggito a due attentati, Umberto I venne ucciso a Monza il 29 luglio del 1900, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci.

A pochi mesi di distanza dall’attentato di Monza, il vice-presidente dell’Unione Artisti ed Industriali di Torino, Alessio Capello, propose l’erezione di un monumento in memoria di Umberto I, con l’idea di farlo sorgere sul colle di Superga, presso le tombe degli avi di Casa Savoia. L’assemblea dell’Unione Artisti ed Industriali, presieduta da Giacomo Rava, acconsentì all’ iniziativa e venne immediatamente costituito un Comitato esecutivo che aprì una sottoscrizione e raccolse, nel giro di pochissimo tempo, una somma di 15.000 lire provenienti da oltre ottanta comuni piemontesi e da circa cento Associazioni. L’incarico di scolpire il monumento fu affidato allo scultore Tancredi Pozzi che concluse l’opera in poco più di un anno dall’approvazione del progetto. L’inaugurazione avvenne l’ 8 maggio del 1902 alla presenza del sindaco di Torino Severino Casana, del presidente del Comitato esecutivo Alberini e del canonico Amedeo Bonnet, prefetto della Basilica di Superga, che prese in custodia il monumento per conto della Casa Reale. 

 Simona Pili Stella

 

Foto Xavier Caré / Wikimedia Commons

L’omaggio di Torino a Giuseppe Mazzini

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo

 

Collocato in via Andrea Doria, angolo via Dei Mille, precisamente sullo spiazzo di confluenza tra le due vie, Giuseppe Mazzini viene raffigurato in una scultura bronzea, seduto in atteggiamento pensoso, avente una mano poggiata a sostenere il capo e l’altra su un pastrano adagiato sulle gambe. Il piedistallo lapideo è ornato da simboli della classicità rappresentati superiormente da due tripodi, collocati ai lati della statua e inferiormente, da pannelli bronzei disposti in sequenza. Nel pannello centrale è rappresentata la lupa capitolina nell’atto di allattare i gemelli, in riferimento alla Repubblica Romana, mentre sui restanti prospetti figurano corone di lauro che circondano i nomi dei principali sostenitori di Mazzini. Il sottostante basamento presenta, anteriormente, dei gradini simmetrici in ascesa verso la scultura. Nato a Genova il 22 giugno 1805 (quando Genova era ancora parte della Repubblica Ligure annessa al Primo Impero Francese), Mazzini è stato un patriota, uomo politico, filosofo e giurista italiano. Costituì a Marsiglia nel 1831 la Giovine Italia, fondata sui principi di “Dio e popolo” e “pensieri e azioni” volti a promuovere l’indipendenza della penisola dagli stati stranieri e la costituzione dell’Italia fondata sui principi della repubblica. Anche se osteggiato dal protrarsi dell’esilio forzato e dai contrasti in patria con la ragione di stato (promossa da Camillo Benso Conte di Cavour e da Giuseppe Garibaldi), Mazzini perpetuò il suo impegno politico che contribuì in maniera decisiva alla nascita dello Stato Unitario Italiano.

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Nello stato riunificato risiedette nell’ultimo decennio della sua vita come “esule di patria”, sotto falso nome; morì a Pisa il 10 marzo del 1872. In Torino come in altre numerose città della nazione, quale atto di riconoscimento al suo impegno, fu eseguito postumo il monumento in suo onore. Per quanto riguarda la città di Torino, nell’intenso programma delle manifestazioni svolte nella città per il giubileo dell’Unità d’Italia, nel 1911, venne istituito un apposito Comitato per erigere un monumento in memoria di Giuseppe Mazzini, distintosi come uno dei principali rappresentanti del Risorgimento italiano. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Repubblicana Torinese, sorse in concomitanza alla ricorrenza del quarantesimo anniversario dal decesso del patriota genovese, di cui erano in corso i preparativi per le celebrazioni. Il Comitato sottopose all’Amministrazione comunale la domanda di aderire all’iniziativa ma la proposta venne osteggiata in quanto, si affermava, fosse avanzata da un gruppo partitico; per non pregiudicare l’esito della richiesta venne costituito un nuovo Comitato dichiarante l’estraneità ad ogni questione politica. Nel 1913 l’istanza di questo nuovo Comitato venne favorevolmente accolta dal Consiglio Comunale. Assunse l’incarico per l’ideazione del complesso scultoreo, Luigi Belli, docente presso la regia Accademia Albertina di Belle Arti ed esecutore di significative opere nella città. Belli accettò l’incarico senza richiedere alcun compenso per la sua attività (consapevole forse che sarebbe anche stata la sua ultima opera data l’avanzata età) ma domandò unicamente il rimborso per le spese sostenute nella realizzazione della proposta.

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Nonostante la rinuncia dell’artista, il bozzetto dell’opera venne approvato stimando un importo considerevolmente superiore a quello stabilito per l’esecuzione del monumento, quindi per arginare i limiti economici incorsi, l’Amministrazione concesse una agevolazione per il pagamento del dazio sui materiali, contrattò con il Ministro della Guerra in Roma per l’acquisizione del bronzo necessario ad un prezzo agevolato, mentre il Comitato promosse una pubblica sottoscrizione presso municipi, istituti civili e militari nazionali. Successivamente i modelli in creta a scala reale della statua e di un altorilievo, furono inviati alla fonderia scelta dal Belli, con sede presso Milano, per eseguirne la fusione in bronzo; la statua bronzea ed il relativo modello in gesso, vennero recapitati a Torino, su un carro ferroviario atto al trasporto speciale, l’11 maggio 1917. Il complesso scultoreo fu posto in opera, nonostante fosse privo dell’altorilievo rappresentante la “Libertà” (non consegnata forse a causa di un compenso non corrisposto dal Comitato), figurando ugualmente come un altare alla repubblicana libertà. L’inaugurazione della scultura commemorativa dedicata a Mazzini si svolse il 22 luglio 1917. La cerimonia del monumento si celebrò in presenza di autorità nazionali e cittadine, in una città dall’atmosfera poco festosa a causa della popolazione mobilitata sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo.

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(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

La vecchia Legnano nera dello Stìvanin

“Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”

Una vecchia Legnano nera, con la sella in cuoio vecchissima, consumata. Stava lì, appoggiata al muro, appena dietro la porta del locale dove Stìvanin teneva gli attrezzi. “Guarda che roba! E’ un modello del 1938, ancora perfettamente funzionante perché, di tanto in tanto, tolgo la ruggine, gonfio le camere d’aria, ingrasso la catena e gli faccio tutti quei lavoretti come se fosse ancora il tempo in cui la inforcavo e pedalavo via come il vento”. Stefano Ombrini, detto “Stìvanin” per la sua scarsa altezza, era stato – in gioventù- garzone della panetteria “Bruschini”. Erano gli anni in cui, inforcando la Legnano andava via svelto di pedalata per fare il giro delle consegne. La guerra era finita da qualche anno ma erano ancora freschi i ricordi di quegli anni duri e l’odore della miseria se lo sentiva ancora addosso. Così, a diciott’anni, pedalava tra le strade strette di Baveno e Feriolo, Stresa e Campino, Levo, Gignese quasi fossero, quelle dei paesi tra il lago Maggiore e il Mottarone, le strade del Giro e del Tour. ” Mi immedesimavo nelle imprese del campionissino, del grande Fausto Coppi. Imboccavo le salire, alzandomi sui pedali immaginando fughe epiche sulle Dolomiti, il Galibier, l’Izoard, lo Stelvio o l’Alpe d’Huez. Spingevo come un matto, rosso in faccia per lo sforzo tremendo. Spingevo perché sentivo sul collo in fiato immaginario  di Gino BartaliLouison Bobet, Hugo Koblet, Fiorenzo Magni, Rik Van Steenbergen“. Da come mi racconta immagino che fosse un mago del “fuorisella” , tecnica che consiste – appunto – nel pedalare in piedi sui pedali con il solo appoggio delle mani sul manubrio, senza appoggiare il sedere sulla sella. E lui, quasi mi avesse letto nel pensiero, lo conferma con entusiasmo.

Altrochè. Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”. Dovevo salire fino a Campino per portare il pane al negozio di alimentari del Cecco. Ogni tanto capitava  che il vecchio fornaio di Stresa, l’Ubaldo Rigamonti, stesse poco bene e toccava a noi supplire con rosette, bastoni, ciabattine, biove e michette calde di forno. Quella era una delle volte che bisognava, appunto, fare il “pieno” e pedalare. Era poco prima dell’alba e faceva un freddo cane. Non era ancora nevicato, nonostante fossimo a metà dicembre, ma l’aria che scendeva giù dalle vette del Mottarone e del monte Zughero, non prometteva nulla di buono. Anche il Bruschini mi aveva intimato di coprirmi bene perché quella mattina l’era ben brusca la limonata. Ed io, infilata una vecchia copia del Tuttosport sotto la maglia, per riparare lo stomaco dall’aria gelida, sono partito per l’impresa. Vuoi per colpa della lingua di ghiaccio che si era formata sul curvone di Loita, all’altezza della Madonna delle Neve, vuoi perché sbilanciato nel fuoriselle, sta di fatto che sono finito nella cunetta lungo e tirato. Dal gerlo il pane si è rovesciato sulla strada e, per svelto che sono stato a rimettermi in piedi, una buona metà era andato a ramengo. Così, con ginocchia,gomiti e mento scorticati e doloranti, ho consegnato quel che m’era rimasto e, tornato dal Bruschini, mi sono guadagnato – per la paga – un bel calcio nel didietro “. Comunque, dopo il tirocinio, lo Stìvanin è diventato un panettiere provetto. E quando il Bruschini,  ormai vecchio, decise di ritirarsi non avendo nessuno dei figli una gran voglia di iniziare a lavorare alle tre del mattino affinché il pane fosse pronto per le sette, rilevò lui il forno.

Furono anni di rinunce e sacrifici, dei quali oggi mi parla con orgoglio anche se, immagino, a quel tempo erano pensieri e fatiche che gli rubavano il giorno e la notte. Si è fatto le ossa al punto da conoscere ogni segreto dell’arte del fornaio. Qualche tempo fa mi ha spiegato che , fino al 1800, l’impasto del pane veniva fatto a mano. Poi, ai primi del ‘900, comparvero le prime impastatrici meccaniche, a scapito dei vecchi mulini, e incominciarono a essere utilizzati forni sempre più moderni e lieviti speciali per la panificazione. ” Il panettiere – mi dice “mastro” Ombrini – deve essere in grado di riconoscere i vari tipi di farina, lievito, uova fresche. Deve conoscere gli ingredienti degli impasti da realizzare (pasta lievitata, sfoglia, frolla e così via), i diversi tempi di lievitazione e di cottura. Deve sapere utilizzare correttamente sia l’impastatrice che il forno e dev’essere in grado di farsi da solo tutte quelle piccole modifiche e manutenzioni che necessitano. Siamo un po’ cuochi e un po’ meccanici, noi prestinèe.  Una volta , noi “nati nella farina”, eravamo pulitissimi ma oggi questo non basta più: devi conoscere a menadito la normativa igienico-sanitaria del settore ed anche essere un po’ ragionieri. Non come te, che lo facevi di mestiere giù in banca, ma almeno avere le basi per gestire la contabilità“. Ho imparato da lui che non bisogna mai mettere il pane capovolto a tavola perché è un atto di maleducazione, quasi un gesto che può “portare male“. Per farmi capire il significato è risalito all’inizio del XV secolo. In quel tempo il re di Francia, Carlo VII, aveva sancito una tassa in natura a favore del boia. Il pane che gli veniva destinato dai panettieri veniva posto sul bancone rovesciato, in modo che fosse ben evidente la destinazione.

Da quando è in pensione ed ha ceduto a sua volta l’attività, mi confida preoccupazioni e lamentele. “Caro mio, la realtà si è fatta dura. Hai presente quella pubblicità del Mulino Bianco? Sì, dai:  quella con i panettieri sorridenti sulle biciclette e la bimba che racconta di aver fatto un sogno bellissimo? Ecco. Scordatela. Adesso, con i prezzi che vanno su che è un piacere  siamo  all´allarme pagnotta, e c’è gente che guarda al panettiere come fosse diventato un farmacista. Sai cosa significa? Che il chilo di pane costa una cifra e che i consumi , in pochi ani, sono diminuiti del 25 per cento. Ti rendi conto? Un quarto in meno. Una bella botta, eh?”. Nonostante non sia più lui a sfornarlo si lamenta che di pane se ne vende sempre meno. Dice che la colpa è delle diete e di quei prodotti già belli e confezionati che hanno preso il sopravvento su filoni e michette. Ma ci sta anche il fatto che la gente sta attenta a comprare rosette e pagnotte. Perché oramai non si può più buttare niente. E se il pane è diventato prezioso è diventato raro anche il mestiere del panettiere. “Che nessuno vuol più fare“,si lamenta Stìvanin. “Troppo faticoso e sempre di notte. L´arte bianca sta scomparendo. Ed è un peccato“. Mi parla e scuote la testa. Mi parla e, intanto, con uno straccio, lucida la “canna” della Legnano. E’ un movimento lento, quasi una carezza. Gli darei un soldo per conoscere io i suoi pensieri. E forse scoprirei che sta ascoltando la voce radiofonica di Mario Ferretti: “Un uomo solo è al comando. Ha la maglia biancoceleste della Bianchi. Il suo nome è Fausto Coppi“. Lucida la bici e ripensa a quando anche lui, da giovane, macinava le salite. Però il  “ragazzo secco come un osso di prosciutto” è morto di malaria il due gennaio del 1960. Ed il fornaio-ciclista Stìvanin non è più né l’una né l’altra cosa. E vive di ricordi.

 

Marco Travaglini

Mariolino e la guida dell’uomo col cappello

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Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini