redazione il torinese

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno. In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta. Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

Pietro Micca, nel bronzo la storia di un eroe popolare

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Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra

Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).

 

Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.

Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.

Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.

 

Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.

 

Simona Pili Stella

Tutta colpa di Jules Verne

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Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio

 

Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti   folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.

 

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Nella storia   i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.

 

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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.

Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.

 

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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmoEvidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e   due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.

Marco Travaglini

La “pattuglia” che affondò con la torpediniera nella tempesta sul lago Maggiore

STORIE PIEMONTESI / La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine Ottocento

“Pattuglia senza ritorno”, il racconto storico felicemente uscito dalla penna di Elio Motella, si legge tutto d’un fiato e propone – nel quadro di una ben congeniata storia d’amore tra la maestra elementare Assunta Pedroli e il fuochista di Marina Matteo Ferrari – uno dei misteri ancora insoluti del lago Maggiore: quello del naufragio della “Locusta”. La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago Maggiore, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine Ottocento.  Mescolando realtà e finzione, l’autore tratteggia la vita sulla sponda occidentale del Verbano tra il 1893 al 1896, dove i protagonisti sono i marinai e i militari della Guardia di Finanza del locale distaccamento, addetti al controllo lacuale con le torpediniere, gli “sfrusitt” ( i contrabbandieri ) che sfidavano leggi e autorità dedicandosi – tra fatiche e pericoli – al contrabbando, considerato a quel tempo una delle poche risorse per la sopravvivenza degli abitanti del lago e poi la gente e i luoghi tra Cannobio e Pallanza. Le rare foto d’epoca, a corredo degli avvenimenti, rendono bene l’atmosfera di quei luoghi e di quegli anni, in una terra di frontiera.

Ma veniamo alla storia della “Locusta”, la torpediniera della “Regia Finanza” che  – affondò la notte tra l’8 ed il 9 gennaio 1896 dopo esser salpata dalla base di Cannobio per un normale servizio di pattugliamento sul Lago Maggiore. Quello della “Locusta” è stato uno dei più grandi punti interrogativi delle vicende che hanno interessato il lago. L’ unità, classificata come “torpediniera costiera di quarta classe” (lunga 19,20 metri, capace di una velocità di 17 nodi e dotata di un cannone a ripetizione “Nordenfeldt” )  era tra quelle acquistate dalla Regia Marina nei cantieri Thornycroft di Londra nel 1883, per essere imbarcata su navi da battaglia. All’atto pratico si dimostrò inadatta  all’impiego bellico e quindi ( insieme ad altre )  fu dislocata sul lago Maggiore ed affidata alla “finanza” per essere adibita alla vigilanza doganale sul confine con la Svizzera. Cosa accadde quella notte, è rimasto un mistero. Come se la torpediniera fosse sparita in una specie di “buco nero”. Dalle cronache dell’epoca si evince che era salpata da Cannobio in direzione di Maccagno, e il tempo risultava buono: “cielo sereno e lago calmo, con una fredda brezza spirante da nord dalla vicina Svizzera”. L’equipaggio era al completo. Erano in dodici, a bordo: otto marinai della Regia Marina e quattro guardie di finanza. Stando sempre alla cronaca, alla partenza, si trovavano a bordo anche il tenente dei “canarini”, comandante del reparto di confine, ed un elettricista,che però sbarcarono poco dopo sulla linea confinaria – al valico di Piaggio Valmara-  per effettuare una ispezione a terra. Durante la navigazione notturna sul lago, all’improvviso, il tempo volse al brutto: si alzò un vento impetuoso con raffiche di tramontana e, subito dopo la mezzanotte,si scatenò una furiosa tempesta.Le acque si agitarono, le correnti diventarono impetuose, i lampi squarciarono il cielo gonfio di nubi nere. La “Locusta”, sorpresa dall’improvvisa burrasca, dovette mutar rotta ,dirigendosi verso la vicina Punta Cavalla sulla riva lombarda del lago, per cercare riparo alla violenza della tramontana. Il riflettore della torpediniera venne avvistato da Cannobio per l’ultima volta poco dopo la mezzanotte del 9 gennaio 1896. Poi il buio e più nulla.Non ricevendo risposta ai ripetuti segnali di richiamo lanciati da terra, venne subito fatta uscire la torpediniera-gemella – la “21T Zanzara”- per le ricerche immediate ed il soccorso ai naufraghi, ma nonostante la lunga e minuziosa perlustrazione su tutto lo specchio d’acqua tra Cannobio e Cannero ( sulla sponda piemontese), Maccagno e Pino ( su quella lombarda), non venne trovata traccia alcuna di superstiti né di relitti. Il lago si eraletteralmente “inghiottito” l’unità navale con tutto l’equipaggio di bordo. I dodici militari risultarono così “dispersi in servizio, nell’adempimento del dovere”. Cosa accadde alla “Locusta”, quella notte, fu oggetto di molte ipotesi. Forse il natante venne  “rovesciato da una raffica impetuosa” e le acque si rinchiusero sull’equipaggio “rifugiatosi sotto coperta per ripararsi dalla burrasca, tranne il capo-timoniere comandante, bloccato anch’esso, ma nella cabina di governo”. Non si poteva neppure escludere che in quel momento fatale, furono i portelli aperti dell’osteriggio di macchina, a determinare l’allagamento dei locali di bordo”. E come non prendere in considerazione l’eventualità di “ una esplosione delle caldaie esterne, dovuta ad un’onda improvvisa”.

Supposizioni a parte, resta il fatto che tutte le ricerche ed anche l’inchiesta che venne aperta non diedero alcun risultato.Anche i vari tentativi intrapresi nel tempo, basati sulla ricostruzione della rotta e delle posizioni indicate dalle cronache dell’epoca, si sono conclusi senza troppa fortuna e nessuno con successo. Negli anni ’80 il relitto era stato ricercato in due occasioni: dapprima con il batiscafo dell’esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, poi con l’intervento di una unità della marina militare italiana, guidata da un ammiraglio, con l’intento di recuperare  almeno il natante per esporlo al museo nazionale di Ostia, in quanto unico esemplare rimasto della serie di torpediniere costruite all’epoca. Ma, come già detto, ambedue le immersioni diedero esito negativo poiché il fondale del lago è coperto da grandi depositi di terra e di melma. E anche gli ultimi tentativi non hanno sortito alcunché.  A memoria dei dodici dell’equipaggio della “Locusta” resta il monumento ( un timone sorretto da putrelle di ferro sopra un blocco di pietra con i nomi delle vittime), realizzato  sul Poggio delle Regie Torpediniere, nei pressi del porto militare della Guardia di Finanza a Cannobio. Elio Motella, con il suo “Pattuglia senza ritorno”, ha avuto il merito di riportare all’attenzione del pubblico questa vicenda. E di farlo con un libro davvero ben costruito e ancor meglio scritto.

 

Marco Travaglini

Soffice torta di mele e albicocche

Delicatamente profumata da una nota agrumata ed arricchita dall’aggiunta di morbide albicocche

Chi resiste al profumo di una soffice torta di mele che cuoce nel forno? Le mele, particolarmente gradevoli e ricche di virtu’, sono magici ingredienti  per creare irresistibili dolci, tra questi, la regina e’ la torta di mele, il classico dolce che piace a tutta la famiglia qui riproposto in una versione insolita, delicatamente profumata da una nota agrumata ed arricchita dall’aggiunta di morbide albicocche.

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Ingredienti:

2 grosse mele Renette

10 albicocche secche

120gr. di burro

120gr. di farina 00

50gr. di fecola

100gr.di zucchero a velo

2 uova intere e 2 tuorli

1 limone

1 arancia

1 pizzico di sale

1 bicchierino di rum

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Lasciare in ammollo in acqua e rum le albicocche per almeno 12 ore. Sbucciare e tagliare le mele a dadini, grattugiare la scorza dell’arancia e del limone, strizzare e tagliate a pezzettini le albicocche, mescolare il tutto e lasciar di macerare con  il succo di mezzo limone. Nel mixer montare prima il burro con lo zucchero a velo e un pizzico di sale poi, le uova. Unire la farina e la fecola setacciate. Mescolare bene.  In un largo stampo foderato con carta forno versare il composto e sopra la frutta spolverizzata con zucchero a velo. Infornare a 180 gradi per 45 minuti poi, passare sotto il grill per altri 5/10 minuti. Lasciar raffreddare e spolverizzare con zucchero a velo.

Paperita Patty      

Verrines di pesche, golosità nel bicchiere

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Da proporre come aperitivo chic o antipasto raffinato fresco e colorato servito in piccoli bicchieri monoporzione

Le pesche, fresche, succose e profumate possono dare origine a tante gustose preparazioni sia dolci che salate. La ricetta della settimana e’ semplicissima e velocissima, gli ingredienti sono tutti crudi, un’idea sfiziosa ed originale da proporre come aperitivo chic o antipasto raffinato fresco e colorato servito in piccoli bicchieri monoporzione.

Una valida alternativa al classico prosciutto e melone.

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Ingredienti per 8 bicchierini:

2 pesche noce

8 fette di prosciutto crudo dolce

100gr. di formaggio Feta o Quartirolo

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Lavare le pesche, asciugarle e tagliarle in 4 spicchi. Tagliare il formaggio a cubetti. Sistemare in ogni bicchierino una fetta di prosciutto crudo, guarnire con i cubetti di formaggio e lo spicchio di pesca. Detto, fatto.

 

 

Paperita Patty

Lo spezzatino, un classico sempre apprezzato

Un secondo completo, sano, sostanzioso ed economico, questo e’ l’intramontabile spezzatino di vitello con patate. Un piatto gustoso, autunnale, tipico della tradizione casalinga. Teneri bocconcini di carne di vitello che cuociono lentamente in un cremoso sughetto aromatico.

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Ingredienti

600gr. di polpa di vitello

400gr. di salsiccia

4 patate medie

1 carota

1 sedano

1 cipolla

1 spicchio di aglio

1 bicchiere di vino rosso

2 bicchieri di brodo

1 bicchiere di passata di pomodoro

Olio evo, sale, pepe q.b.

Erbe aromatiche q.b. (rosmarino, alloro, timo ecc.)

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In una padella con poco olio, preparare il soffritto con la carota, il sedano, la cipolla e l’aglio tritati. Aggiungere i bocconcini di carne e la salsiccia tagliata a pezzi, salare, pepare e rosolare a fuoco vivace poi, sfumare con il vino rosso. Lasciar evaporare il vino e coprire con il brodo caldo, aggiungere le erbe aromatiche e la passata di pomodoro. Lasciar cuocere a fuoco lento, mescolando di tanto in tanto per almeno un’ora. Pelare e lavare le patate, tagliarle a tocchetti ed aggiungerle alla carne. Lasciar cuocere sino a quando saranno morbide, eventualmente aggiustare di sale. Servire caldo.

Paperita Patty

Piero Chiara e il cinema

“Molte volte, rivedendo uno dei film tratti dai miei libri, mi sembra di sognare. È avvenuta, nel passaggio, un’alterazione cromosomica che ha dato vita a una creatura imprevista e imprevedibile, ma non più mia”

I romanzi di Chiara sono stati fonte di ispirazione per il cinema dai primi anni ’70. Alcuni dei più famosi registi della commedia all’italiana – da Dino Risi ad Alberto Lattuada –, tra le pagine dei racconti del narratore del lago Maggiore, scavando nelle storie della “provincia”, all’ombra dei campanili e nel vociare delle osterie, sono andati a scovare i soggetti e i tipi giusti per raccontare il costume italiano. A dire il vero, Piero Chiara nutriva un atteggiamento del tutto particolare, spesso incredulo se non addirittura critico verso il cinema. Riferendosi all’adattamento dei suoi testi sul grande schermo, lo scrittore non nascondeva una vena malinconica: “Molte volte, rivedendo uno dei film tratti dai miei libri, mi sembra di sognare. È avvenuta, nel passaggio, un’alterazione cromosomica che ha dato vita a una creatura imprevista e imprevedibile, ma non più mia“. In un altra occasione, commentando la cessione dei diritti dei suoi libri per le versioni televisive o cinematografiche, appare ancora più sconsolato: “Vendere un libro al cinema è come vendere un cavallo: si può sperare che il padrone lo tratti bene, non lo sforzi, lo nutra a dovere, ma poi non si può andare a vedere come sta. Il nuovo padrone lo può anche macellare“.

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Nonostante questo scarso entusiasmo, sono stati otto, salvo errori ed omissioni, i film tratti da Piero Chiara trasferiti sullo schermo. Ai quali vanno aggiunti almeno quattro riduzioni televisive. Spesso le ambientazioni hanno visto, come scenari naturali, i due laghi Maggiore e d’Orta. Il primo film, diretto da Lattuada nel 1970, è “Venga a prendere il caffè da noi”, tratto da “La spartizione”, con uno straordinario Ugo Tognazzi nella parte del ragionier Emerenziano Paronzini. Il protagonista, in cerca di “sistemazione”, incontra le tre sorelle Tettamanzi, di ognuna delle quali “coglie” il meglio. Interamente girato a Luino, paese natale di Chiara, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, ebbe tra gli estimatori il maestro Luis Buñuel che, dopo averlo visto, scritturò l’altra protagonista, Milena Vukotic, per “Il fascino discreto della borghesia”. Un anno dopo, esce “Homo eroticus”, di Marco Vicario, con Lando Buzzanca, Rossana Podestà, Luciano Salce. La commedia di costume sceneggiata da Piero Chiara, anche interprete nel ruolo del “giudice”, riscosse un grande successo di pubblico e vide tra i protagonisti anche Nanni Svampa e Lino Patruno. “Il piatto piange” di Paolo Nuzzi (1974), è il più “felliniano” dei film tratti dai racconti di Chiara. Le interminabili partite a carte, il profumo delle donne, i sotterfugi sentimentali, gli amici, i coprifuochi dei fascisti. Le avventure del Càmola (Aldo Maccione) nella Luino degli anni ’30, venne adattato da Chiara per lo schermo insieme al regista, con Macario nei panni dello scemo del paese in una delle sue ultime apparizioni e una splendida Agostina Belli. Girato a Orta, con una incursione sopra Luino per le scene finali, è un film dove quasi si sente l’odore del lago.

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Nel 1976, firmata da Francesco Massaro, esce nelle sale “La banca di Monate”, tratto dall’omonimo racconto con Walter Chiari, Magali Noël e Vincent Gardenia, ambientato sulla sponda “magra” del Verbano venne girato ad Omegna, sul lago d’Orta. E il comune ci guadagnò la tinteggiatura del municipio che, nel film, era la sede della banca. Con la regia di Dino Risi, un anno dopo, nel 1977, ecco “La stanza del vescovo”, con Ugo Tognazzi, Ornella Muti e Patrick Dewaere. Un giovane avventuriero in barca a vela, un libertino decadente e senza scrupoli, una fanciulla sposata per procura, tutti insieme sul Lago Maggiore, tra le due sponde, le isole e i castelli di Cannero. Tratto dal romanzo omonimo, il film si presenta come un gotico d’autore che gioca sulle atmosfere lacustri più inquietanti. Tre anni dopo è la volta de “Il cappotto di Astrakan”, per la regia di Marco Vicario con Johnny Dorelli, Carole Bouquet e Andréa Ferréol. Da Luino a Parigi, ospite dell’ambigua madame Lenormand (Andréa Ferréol) e innamorato di Valentine (Carole Bouquet), quella di Piero (Johnny Dorelli) è un’odissea surreale perché le due donne sono rispettivamente moglie e amante del suo sosia Maurice, temutissimo rapinatore che ama indossare un cappotto di astrakan. Il regista sfrutta in questo caso il tema del doppio così caro alla commedia italiana, sfruttando il composito cast internazionale. Con Nanni Svampa tra i protagonisti, è stato uno dei film che hanno incassato di più tra quelli tratti dai romanzi di Chiara. Devono passare quasi 35 anni per vedere nei cinema ( nell’aprile 2014 ) un film tratto da un racconto di Piero Chiara : è “Il Pretore “, diretto da Giulio Base e interpretato da Francesco Pannofino, trasposizione cinematografica di un racconto breve –Il pretore di Cuvio –pubblicato da Mondadori nel 1973, che divenne uno dei migliori successi dello scrittore luinese. Detto dei film, occorre anche menzionare gli sceneggiati per la tv, a partire da “I giovedì della signora Giulia” del 1970, diretto da Massimo Scaglione con un grande Claudio Gora, tratto dal romanzo di Chiara. Nel 1975 lo scrittore collabora alla realizzazione dello sceneggiato Rai “Un uomo curioso”, con Gabriele Ferzetti nella parte del protagonista, tratto dal suo racconto “L’uovo al cianuro” e ambientato sul lago Maggiore. Un altro film per la tv è “Il balordo”, uno sceneggiato di Pino Passalacqua del 1978, girato a Orta con un grande Tino Buazzelli e una straordinaria interpretazione ( nei panni del “ginetta”) di un giovane Teo Teocoli. Infine, la passione per il nobile veneziano Giacomo Casanova, spinge Piero Chiara a sceneggiare per Pasquale Festa Campanile il film per la Rai intitolato “ Il ritorno di Casanova” nel 1980, con Giulio Bosetti. Le storie di Piero Chiara, anche attraverso film e sceneggiati, sono arrivate così al grande pubblico. E con essere la “provincia” profonda, i laghi, i piccoli paesi. Insomma, quell’Italia “minore” che in realtà è il volto del paese vero.

Marco Travaglini

Allegre bruschette tricolori

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Bastano davvero pochi minuti per realizzare uno sfizioso aperitivo o un antipasto estivo allegro e colorato con ingredienti freschi di stagione dal sapore mediterraneo. La bruschetta e’ la soluzione ideale, un piatto estremamente semplice e gustoso, sempre gradito, dalle infinite combinazioni, secondo il vostro gusto e fantasia, perfette anche per accompagnare una bella grigliata di carne da gustare con gli amici.

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Ingredienti

 

Fettine di pane tostato

1 pomodoro maturo

1 peperone giallo

4 champignons

1 spicchio di aglio

Prezzemolo

Caciotta fresca

Olio evo, sale

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Strofinare con l’aglio le fettine di pane tostato. Lavare le verdure. Tagliare il pomodoro, svuotarlo dei semi, lasciar scolare poi, tagliare a cubetti. Preparare una dadolata di peperone, tagliare a fettine sottili i funghetti, la caciotta, mettere tutto in una terrina e condire con olio, sale e prezzemolo. Distribuire su ogni fetta di pane e servire.

Paperita Patty

Maglione, dove i muri “narrano” di arte e pittura

Maglione è un piccolo borgo rurale sulle colline moreniche del basso Canavese, a meno di venti chilometri da  Ivrea e distante  poco più del doppio da Torino

 

 Il nome, si dice, deriverebbe da “malhones” , il cui significato richiama i vigneti che producono le uve del bianco Erbaluce. Le poche centinaia di abitanti di Maglione vivono praticamente sul confine con il vercellese, a pochi passi da Moncrivello e nelle vicinanze di Borgo d’Ale e Cigliano.

Un paese tranquillo, silenzioso dove – da più di trent’anni – si può visitare il  M.A.C.A.M, acronimo che sta per Museo d’arte contemporanea all’aperto di Maglione. Dalla mappa si ricava un percorso di visita “en plein air”, ammirando ben 167 opere di importanti artisti  che, dalla piazza XX° settembre – davanti alla chiesa parrocchiale, dove campeggia una scultura di Giò Pomodoro – accompagnano i visitatori lungo le vie del paese. In questo straordinario museo a cielo aperto s’incontra una proposta di opere d’arte contemporanea di diverse tendenze e di indubbio livello culturale. E tutto senza pagare un biglietto d’ingresso per la visita e senza l’assillo dell’orario di apertura o chiusura, considerato il fatto che le opere sono esposte sui muri delle case e negli spazi pubblici del centro abitato. Ideato nel 1985 dall’ingegno eclettico e talentuoso di Maurizio Corgnati, regista e uomo di grande cultura – noto anche per essere stato l’ex-marito della rossa “pantera di Goro”, la cantante Milva – il Macam è un museo del tutto singolare. Corgnati, ritiratosi nella sua casa di Maglione, dov’era nato il primo agosto del 1917, invitò, anno dopo anno, molti artisti italiani e stranieri affinché dipingessero le loro opere sulle pareti esterne delle case messe disposizione dai proprietari o installassero sculture nelle piazze di Maglione. Nel corso degli anni prese forma una straordinaria mescolanza tra stili e scuole diverse, affiancando la tradizione pittorica alle avanguardie più innovative. Si disegnò un percorso di grande fascino, accostando artisti come Mauro Chessa, Giò Pomodoro, Ugo Nespolo , Armando Testa,  Eugenio Comencini e Francesco Tabusso con altri meno noti, ma non meno interessanti. Tra le sculture spicca anche il monumento al contadino “vittima ignorata di tutte le guerre e di tutte le paci”, costruito da Pietro Gilardi con l’aiuto degli anziani coltivatori di Maglione, utilizzando vecchi  aratri e attrezzi della civiltà rurale. Maurizio Corgnati, che amava definirsi “un buon giocatore di scopa e un grande cuoco” , oltre ad essere amico di Calvino, Fruttero e Lucentini e tanti altri protagonisti del mondo della cultura, riuscì nel suo intento di  far crescere quest’ associazione “senza fine di lucro con operatività indirizzata alla diffusione e promozione dell’arte contemporanea”. Gli artisti accettarono di buon grado la proposta di creare gratuitamente le opere murali ,trovandosi a Maglione sul finire di settembre, nel periodo dei festeggiamenti del patrono, San Maurizio. Un evento battezzato “Paese vecchio, pittura nuova” che , fino a quando Corgnati era in vita, veniva concluso con una grande cena, preparata dallo stesso regista per  “ripagare i pittori e trascorrere qualche ora in buona compagnia”. Del resto, frequentando il piccolo borgo cavanesano, gli artisti compresero fin dall’inizio lo spirito di questa iniziativa,”priva di risvolti commerciali e basata esclusivamente sull’amore per l’arte, ritrovando l’autentico piacere di stare insieme e “produrre” cultura per tutti. Questa tradizione dura ancora oggi, mantenendo vivo il ricordo e la volontà di Maurizio Corgnati che, in conclusione, definiva così la sua “creatura”: “Ecco il perché di questo museo a Maglione: i bambini di un tempo sono cresciuti in mezzo a immagini piene di mucche, pecore, ruscelli, nani, conigli e fate; i bambini futuri di Maglione avranno occhi pieni di queste immagini che stanno sui muri delle loro case“.

Marco Travaglini

 

(foto: emozionincanavese.it)