Giovanni Melampo, il fabbro Giuanin

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Giovanni Melampo, noto a tutti come “Giùanin”, l’ho conosciuto negli anni in cui veniva in banca a chiedere prestiti per la sua attività di fabbro. Camminava sempre a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte:” Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe“, mi diceva. Che, tradotto, era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza. Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso.

 

Non aveva, però, il senso della misura. Ricordo che, una volta, Ruggero Locati gli commissionò una gabbietta per tenerci un merlo: “Giùanin, mà ràcumandi. Una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano all’osteria della Trappola, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il Locati, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto. Quante volte era capitato anche a me di vederlo. Arrivava al Circolo, si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra e comandava il primo mezzino. E poi un’altro , e un’altro ancora. Se gli si diceva qualcosa rispondeva a malo modo: “ L’acqua fa marcire i pali. Lo dicono tutti i  grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Anzi, caro al mé ragiùnier, lo sai come dicono gli svizzeri? L’acqua fa male ed il vino fa cantare. E, allora, se vuoi farmi compagnia, prendi anche te un bicchiere e beviamo alla nostra salute. E poi , cantiamo”. E attaccava con il repertorio di canti degli alpini. Stonato com’era, era uno strazio doverlo ascoltare. Ma ,ormai, ci avevamo fatto l’abitudine. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Locati si stava preoccupando quando, una mattina che era uscito un po’ prima per andare dal medico, incrociò il  fabbro. “Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: al sarà minga mòrt ? Ed invece, vardatt’chi , ancamò viv. E la me gabbia dal merlo? Ti gh’he semper avùu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via“. Locati, milanese della Bovisa trapiantatosi sul lago Maggiore, non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi e  che andava di fretta ma anche che non s’era dimenticato e, all’indomani, il Locati avrebbe avuto la sua gabbia. A suo modo era una persona di parola. E così, il mattino dopo di buon ora, Ruggero Locati sentì il rumore di un motocarro fuori casa e un paio di colpi di clacson. Uscì e Giùanin gli chiese di aiutarlo a scaricare la “gabbietta”. Bastava guardare in faccia Locati per cogliere la sua somiglianza con la “rana dalla bocca larga”. Era rimasto lì, a bocca aperta, basito. La”gabbietta” aveva un diametro di circa due metri  ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Mah,mah,mah…” inziò a balbettare il Locati, incredulo. “Non c’è ma che tenga. Volevi una gabbia per il merlo,no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ti ho fatto aspettare un po’ di più, sai che faccio? Te la regalo”. Detto e fatto. Scaricata la gabbia, il Giùanin mise in moto e se ne andò, lasciando il milanese senza parole, ancor più a bocca aperta. Ecco, Giovanni Melampo era così, come dire?.. imprevedibile. Generosissimo e altruista , non sopportava però che  gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh  a rubà ai làdar“. Cioè, era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi  aveva il vizio di dare spiegazioni inutili a chi era più esperto e competente. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzee, fà ‘l tò mesté!“, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Dove abitava, sulla strada tra Loita  e Campino, praticamente sul confine tra Baveno e Stresa, aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è“, mi diceva il Giùanin. E quella, tra le due estremità, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ce n’era tutta una serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Vede, ragioniere, il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì, vicino a lei, pesa solo quattro etti“.

 

Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da “professore”. “ Oggi, sa,  il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili“. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate“). Lo vedevo bene, Giùanin, aggirarsi sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva gli strumenti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche in cucina era un mago. Talvolta mi capitava che, giunti ormai alla mezza,alzandomi per andare a casa a buttare un po’ di pasta da condire con pomodoro e parmigiano, com’era mia abitudine, mi teneva per il braccio, dicendomi: “Sù, ragiùnier, venga con me. Stiamo un po’ in compagnia. Le faccio assaggiare un po’ di pesce che m’hanno dato giù dal Luigino“. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con Luigino Dovrandi, pescatore professionista ormai pensionato. Luigino, per non “perdere il vizio”, buttava le reti almeno tre volte la settimana e divideva il pescato con lui. A patto che cucinasse per tutti. A me capitava così di fare da “terzo” a questi banchetti. Tra i fornelli, Giùanin si destreggiava con abilità.La sua specialità era  il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni, da friggere infarinati nella padella di ferro;  bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo,  in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva lì. Talvolta portava in tavola anche il  pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente me lo proponeva in salsa verde. Si trattava, in quei frangenti, di lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno ci serviva i “missultitt” con la polenta. Questi agoni essiccati li trovava Luigino nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni che lasciavano il passo, alcuni vecchi pescatori suoi amici trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essicandoli al sole e conservandoli,  strato su strato – con foglie d’alloro – pressati nella “dissolta”, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui nostri piatti con delle larghe fette di polenta abbrustolita e tre bicchieri di vino rosso. Un’allegria per il palato e una gioia per la compagnia.

 

Marco Travaglini

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