Cechov tra dramma e farsa nello spettacolo di Filippo Dini

Quando, nel 1887, il signor Fedor Kors, proprietario del teatro omonimo di Mosca, chiese al ventisettenne Anton Cechov una commedia, lui rispose con un dramma, suddiviso in quattro atti, che buttò giù in soli dieci giorni. La prima rappresentazione fu un completo insuccesso, e l’autore ebbe a scrivere al fratello Aleksandr che non riconosceva l’opera come propria, che la colpa era tutta in quegli attori che non sapevano la parte e che gli sembravano dire parole prive di senso. Fatte le dovute modifiche, il dramma venne rappresentato nella sua scrittura definitiva nel gennaio di due anni dopo, a San Pietroburgo, con un vero successo. Era nato Ivanov.

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Dramma che, sotto la doppia veste di interprete e regista, Filippo Dini (a lui nel settembre scorso il Premio Maschere del Teatro per la migliore regia) presenta sino a domenica al Carignano per la stagione dello Stabile torinese, nella traduzione di Danilo Macrì che ha pure pensato a sfoltire il testo, produzione Fondazione Teatro Due di Parma e Teatro Stabile di Genova. Dramma, per quel colpo di pistola che scoppia nel finale, per quel triste mestiere di vivere del protagonista, uomo senza qualità alla Musil, per la sua inutilità, per i debiti che non gli danno pace, per la moderna depressione che s’è impadronita di lui, per quel disamore nei confronti di una moglie malata che per lui ha cancellato una famiglia, una dote e una religione, per quella affannosa ricerca di un senso da poter dare alla propria esistenza, per quel timore e per quella stanchezza ad abbracciare una nuova relazione, per il bisogno sconsiderato ad accettare quel denaro con cui in molti vorrebbero aiutarlo, per il vuoto senza misura che lo affanna. Dramma per quanti lo circondano, chiusi nei loro egoismi e nelle personali disillusioni, nella meschinità degl’interessi, riflessi nell’immagine di un futuro che per loro è privo di ogni speranza, abituati ad appropriarsi di un abito che non è il loro, alla ricerca di una tranquillità che lo sanno bene non arriverà mai. Ma altresì un dramma in cui si sorride e si ride apertamente, dove Dini, pur lasciando il giusto spazio alla tristezza che sta sul fondo, pur rendendo con estrema attenzione i grumi più angosciosi del testo (Anna che scorge la seduzione di Sasha, la morte di Anna come una bambola rotta tra le braccia del marito, certi monologhi del protagonista) con sguardi, lentezze misurate, pause, ha accelerato i toni e i tempi, rischiando nella prima parte, nella lunga scena della festa, di pigiare oltre il dovuto il pedale del grottesco, laddove questo – quasi nuova cifra dell’impostazione – per altri versi offre l’esatta immagine del generale disfacimento. Certo non è questo minimo difetto a sminuire l’eccellenza di uno spettacolo che mantiene tutte le promesse che l’hanno preceduto.

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Dini, che in veste d’attore, esprime con un preciso quanto suggestivo sguardo la disperazione, il viaggio verso il fondo del proprio Ivanov al quale nonostante tutto noi continuiamo a sentirci in “unione”, sa nella costruzione e nella guida dello spettacolo calibrare ed esprimere alla perfezione l’infelicità della tragedia cecoviana come quel che di farsa è al suo interno, ricerca con esattezza, guida con mano più che sicura i tratti palesi come quelli più piccoli e nascosti dei suoi attori, facendo delle tre ore circa di rappresentazione una girandola pensosamente frenetica che soddisfa appieno. A fianco a lui, una sempre bravissima Sara Bertelà, sposa infelice, Ivan Zerbinati, l’onesto medico, Orietta Notari (a lei per il ruolo il Premio della Critica), Fulvio Pepe, Ilaria Falini, vedova sfarfalleggiante alla ricerca di una nuova sistemazione, Valeria Angelozzi innamorata da sempre del protagonista, con una menzione particolare per le prove di Antonio Zavatteri e Nicola Pannelli, l’amico possidente e lo zio di completa perfezione. 

Elio Rabbione

Fotografie di Michele Lamanna

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