Sugli schermi “Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Thomas Ruggles Pynchon jr. è uno scrittore americano, classe 1937, una decina di romanzi all’attivo, del quale non esistono immagini se non quelle che risalgono agli anni della scuola e del servizio militare. Un’esistenza da essere anonimo, irriconosciuto per le strade ma in piena libertà, con domicilio a Manhattan e padronissimo di andare al cinema, al supermercato come dal suo lattaio dietro l’angolo di casa: quando la CNN gli incollerà una telecamera per seguirne le tracce, lui chiederà di rimuoverla e verrà accontentato, lasciando poche immagini di un uomo alto, con un cappello da baseball blu e rosso che se ne va in giro tra il traffico della Grande Mela. Un essere da sempre appartato e lontano. Hollywood non lo avrebbe mai cercato se poco più di una decina di anni fa Paul Thomas Anderson, con la Warner Bros., non avesse scommesso nel portare sullo schermo “Vizio di forma”, la faccia di Doc Sportello affidata a Joaquin Phoenix (il romanzo è del 2009) e se non avesse oggi diretto quel “Una battaglia dopo l’altra” che deriva da “Vineland” (1990), da un po’ di giorni, forse più dagli estimatori dello scrittore e del regista, viene considerato il film dell’anno: il pubblico delle “solite” occasioni si avvicina, allo scrittore e al regista, con qualche fatica, titubante, a rilento.
Ma un certo preciso fascino lo s’intuisce nella pagina scritta e nelle immagini sullo schermo, diverse dalle radici, avendolo Anderson riadattato dagli anni reaganiani ai giorni nostri e secondo i propri gusti debordanti, il film lo possiede, eccome. Anche di Paul Thomas Anderson, sfogliando la sua filmografia, si contano dieci titoli – titoli che sono nella maggior parte capolavori, “Il petroliere” e “The Master” e “Il filo nascosto” con un oscarizzato Daniel Day-Lewis, nonché quel “Boogie Nights” a cui Leonardo DiCaprio rispose picche (“è il più grande rimpianto della mia vita d’attore”, avrebbe detto) e che oggi vediamo qui nelle vesti paranoiche e arruffate di Bob Ferguson, a girare dentro una vestaglia (il Grande Lebowski ha fatto proseliti nel nuovo millennio!) dai riquadri rossi per le strade assolate, accanto agli apparecchi telefonici della città e lungo quei lunghi nastri stradali, tutti sali e scendi, della California di cui Pynchon non può fare a meno -: e forse, nella cabala dei numeri, dieci e dieci, questo incrocio dell’anno non può essere privo di significati. Ma probabilmente stiamo guardando e ragionando oltre. Un altro agguantato quanto spericolato capolavoro di ritmo, vorticoso, una discesa all’inferno e tra i mali della nostra quotidiana società, le lotte e le sconfitte, e di montaggio incrociato, di maestria e di invenzioni di ogni singolo attore, di un racconto fluidissimo nonostante un narrato di 162 minuti, ma capace al tempo stesso di perdersi per mille rigagnoli e sottostorie e di reggerli con estrema padronanza, per cui si plaude a una sceneggiatura che, in compagnia del miglior attore protagonista (DiCaprio) e del miglior attore non protagonista (Sean Penn, è lui il più “immenso” della compagine attoriale: perfido e gigionescamente insulso, perfetto di postura e di alterigia e di tic, muscoli venati in bella mostra e magliette militari attillate, parente stretto dei tanti generali pettoruti visti al cinema – per tutti, Ford Coppola e Kubrick -, con quelle labbra che tentennano di continuo, quello squarcio che si porta su un lato della faccia offesa nelle inquadrature finali, il suo esercizio sessuale per essere pronto al comando panteresco di Perfidia, ogni attimo è da manuale, ogni battuta e ogni eroismo da strapazzo ti impongono di guardarlo e di ammirarlo), ci dobbiamo aspettare nelle nomination delle prossime statuette pronte per il Dolby Theatre. Senza tacere della presenza, su ogni red carpet, dello stesso Anderson in veste di regista.
Nella mezz’ora iniziale – che il New Yorker ha definito “rumorosa, tesa e straordinariamente propulsiva” – facciamo la conoscenza di Pat Calhoun detto “Ghetto Pat” e di Perfidia “Beverly Hills”, attivisti senza se e senza ma del gruppo rivoluzionario di estrema sinistra noto come “French 75”. Tra incendi e colpi di mitra, lui stralunato lei grande pancione in bella vista liberano immigrati dai centri di detenzione californiani, assaltano banche e mandano per aria tralicci della rete elettrica e uffici di rappresentanza di politici potenti: una lotta armata che non ammette limiti e ripensamenti. Quando dalla loro relazione nascerà la piccola Charlene, Pat cercherà in ogni modo di dissuadere la compagna a continuare la lotta armata, sempre più feroce, sino all’uccisione di una guardia giurata durante una rapina in banca: sarà allora che la donna incontrerà nuovamente una vecchia sua conoscenza, di guerra e piccanti intimità, quel capitano Lockjaw che le propone la denuncia dei compagni in cambio di una riduzione della pena. Lei entrerà nel programma di protezione testimoni e tra i compagni di un tempo sarà una carneficina. Trascorrono sedici anni, Pat ha preso la nuova identità di Bob Ferguson ed è un uomo che le droghe e l’alcol hanno reso instabile e confuso e un padre iperprotettivo e oltremodo ansioso nei confronti di Willa (guai ad un cellulari, stai attenta ai tuoi amichetti, si rientra presto la sera); Lockjaw, elevato a colonnello ed entrato per alti meriti nelle fila del gruppo “Pionieri del Natale”, tra suprematisti e nazistoidi accaniti, tra prove d’affiliazione e ricordi che riaffiorano e sospetti di paternità, vive nell’istinto intimo di dover dare a ogni costo la caccia all’erede di Perfidia, intenzionato com’è a chiudere i conti una volta per tutte. Sarà una lotta all’ultimo sangue tra due uomini, con una ragazzina nel mezzo che sa togliersela in ogni impiccio, che ha appreso perfettamente le idee e le azioni della madre, succhiate si direbbe con il latte, una lotta senza risparmio, nella scrittura di Anderson, di felicissime sorprese, di un susseguirsi di scene a pieno effetto, di personaggi che pur in una loro breve comparsa sono capaci di lasciare nella mente dello spettatore un segno netto, nella solitudine di quelle strade di cui sopra si diceva come nel chiuso di certi asettici uffici che sono rappacificazioni e chiarimenti e trappole di morte.
Non soltanto l’aspetto tragico e di lotta della vicenda interessa ad Anderson, lui – che ha avuto a disposizione un budget di 150 milioni di dollari ma che non si sa se porterà a casa un briciolo di guadagno di fronte a un pubblico piuttosto ostile, spaventato forse dalla eccessiva lunghezza della pellicola – scava con convincente proprietà di toni nei rapporti d’affetto e d’incomprensioni tra padre e figlia, lascia in sospeso – a tratti – ricordi e piccoli particolari fatti di azioni e di parole, ironizza (metteteci anche un monastero di suore che con fare disinvolto coltivano e consumano marijuana) e mette in caricatura una certa America trumpiana (ma io credo che stia anche ipotizzando un futuro distruttivo e nerissimo, con parecchie nuvole imbronciate all’orizzonte), dà la carica alla sua macchina da presa accelerando assalti e inseguimenti, l’intero svolgimento dei fatti che scalciano e pare che si sovrappongano, in una fantasmagorica, vulcanica, tragicomica velocità raramente incontrata sullo schermo. Tutto è condotto sul filo di un rasoio affilatissimo e non c’è assolutamente tempo per la noia. Considerata la bella prova dell’emergente Chase Infiniti che è Willia, veniamo a DiCaprio. Sta qui in una delle sue prove migliori, decisamente oltre quella maggiormente fisica di “Revenant” che dieci anni fa gli ha procurato l’Oscar, la più gigantesca e folle, squinternata, drogata di quella rivoluzione strasognata e ammuffita che ne fa un personaggio anche rinsecchito e amaramente disilluso (non a caso s’accontenta di guardare, lui attivista a brandelli, cosa succedeva sessant’anni fa in casa d’altri, nel mezzo televisivo e nella poltrona di casa, affidandosi alla “Battaglia d’Algeri” del nostro Pontecorvo), cedevole in tutta la debolezza ammonticchiata (gli è difficile durante una telefonata ricordare le varie parole d’ordine che gli offrirebbero una traccia per avvicinarsi al nascondiglio in cui è tenuta prigioniera Willia: momenti anche ricchi di spunti e immagini di divertimento), letteralmente scardinata in mezzo a quel caos infinito che sta nelle pagine di Pynchon come in quelle di un grande autore di cinema. Di quel Cinema che va scritto con la C maiuscola. E di cui fin troppo si sente il bisogno.
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE