Dopo il rapper Piotta, fu Piero Chiambretti a usare questa frase durante il Festival di Sanremo del 2011.
Come ad ogni edizione molti, anche tra chi non guarda mai la televisione, si trasformano in critici televisivi o musicali realizzando una propria classifica, decretando l’insuccesso di questo o quel cantante, prevedendo addirittura quando arriverà il primo disco di platino e a chi.
La tecnologia da un lato, che ci permette di rimanere sintonizzati sul pianeta Sanremo (ma non solo) ventiquattr’ore su ventiquattro e la rinuncia volontaria ad azioni differenti (leggere un libro, meditazione, uscite con amici, cinema, ecc.) fanno sì che oltre 11 milioni di spettatori (pari a oltre il 64% di chi stava guardando la TV) si sia sintonizzato sul festival.
Al di là su ogni considerazione sul diritto di svagarsi, rilassarsi, stare in casa (soprattutto nelle regioni dove si sono verificati eventi atmosferici devastanti), è palese che moltissimi utenti tv amino ancora un festival giunto quest’anno alla 75° edizione.
Molte le critiche su questo o quel cantante, su canzoni che non ricordi cinque minuti dopo averle ascoltate, ma soprattutto non ne ricordi né il contenuto né l’autore, su abbigliamento di dubbia coerenza con il luogo, sul fatto che ormai non si canta ma si parla o si sbadiglia sottovoce.
Se Faber fosse ancora tra noi sicuramente direbbe che “non è vero che i giovani non abbiano valori, siamo noi ancora molto attaccati ai nostri a non riconoscere i loro. Occorre attendere di storicizzarli.”
Occorre però analizzare un altro aspetto della questione: mai come negli ultimi anni la discografia è stata orientata all’aspetto economico; non dico che Guccini, Battisti, Bertoli, Lauzi o altri abbiano lavorato per la gloria, sicuramente essendo il loro mestiere rendeva loro guadagni in linea con le loro aspettative; ma, mentre, nel loro caso, dietro al guadagno c’era un lavoro di creazione, di composizione del testo e della musica, ore di sessione in studio, ora si massimizza l’utile minimizzando i tempi.
Con la tecnologia attuale chiunque può creare musica, incidere il brano in casa, inviarlo all’editore e cinque minuti dopo teoricamente essere in classifica. L’importante è fare, non importa se il giorno dopo nessuno si ricorderà di te, se nessuno ti chiederà l’autografo per strada, se nessuno riuscirà a cantare la canzone perché con una metrica impossibile: hai guadagnato, ti pagano per qualche comparsata qua e là, ti illudi di essere qualcuno ma faresti bene a ricordare le parole del Marchese del Grillo.
Dress code inesistente, rispetto degli spettatori neppure, esagerazioni dovute in alcuni casi a stimoli sintetici hanno trasformato una passerella dei migliori artisti della canzone italiana in un coacervo di personaggi che di italiano hanno solo il testo della canzone e, spesso, neppure il nome d’arte.
Quando poi qualche vecchia gloria si riaffaccia alla ribalta, anche in compagnia di nuove leve, ecco che il suo brano diventa un tormentone dell’estate e lo si riascolta volentieri anche qualche anno dopo. Forse sarebbe il caso di analizzare, extra festival, come si siano modificati i gusti degli italiani (e non solo, visto che la trasmissione è in Eurovision) e capire se quegli artisti siano antesignani di un’epoca o solo schegge impazzite di un mondo che attira molti ma ne scontenta altrettanti.
Personalmente, questa è la mia forma mentis, non giudico e non critico non possedendo gli strumenti culturali per farlo: analizzo il fenomeno, soprattutto quello di chi critica, e osservo ma mi piacerebbe capire: è l’artista che si rivolge al produttore o il produttore che crea l’artista? E’ il cantante che propone il suo lavoro o l’editore che glielo commissiona?
Forse così riuscirei a capire meglio cosa accada prima, durante e dopo.
Sergio Motta
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