“La vegetariana”, in scena all’Astra sino a domenica 2 febbraio
“Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno: quella sua aria timida e giallognola mi disse tutto quello che mi occorreva sapere di lei”. Procede in questa sorta di narrazione dimessa e disillusa il signor Cheong (un dolente quanto ammirevole Gabriele Portoghese, decisamente convincente) nel romanzo “La vegetariana”, pubblicato nel 2007 e da noi per Adelphi nove anni dopo, autrice Han Kang, coreana del sud, recente premio Nobel per la letteratura, e nella trasposizione teatrale che Daria Deflorian (anche regista e coprotagonista) che fatto con la collaborazione di Francesca Marciano – sceneggiatrice di successo, un timido percorso come attrice e poi un repentino cambio di rotta per un procedere di tutto rispetto, suoi compagni di viaggio Salvatores e Verdone e Bernardo Bertolucci, Valeria Golino e Maria Sole Tognazzi e Cristina Comencini, tra gli altri. Narra il signor Cheong, impiegato dalla mediocre e ormai spenta esistenza, narra della moglie Yeong-hye, decisamente tradizionale ma ordinata, anonima e più o meno felice, dopo pochi anni d’unione pressoché invisibile.
In questa nebbiosa quotidianità, l’uomo si sveglia un mattino per scoprire che lei è intenta a svuotare il frigorifero di casa – come lei anonima e vuota, tolti quegli oggetti che l’abiteranno poco a poco, un lercio materasso che è letto e divano, una tivù, due fogli di giornale che imiteranno un tavolo per il pranzo, un sacco di patate rovesciate a terra che la protagonista prenderà nervosamente a sbucciare, un water e una vasca da bagno – dei tanti sacchetti di carne. “Ho fatto un sogno”, è l’unica risposta della donna alla domanda di una spiegazione, e da oggi in poi di carne non ne mangerà assolutamente più. Nemmeno la famiglia di lei può farle cambiare idea, se il padre, che da sempre racconta ad ogni occasione della sua guerra in Vietnam, non trova altra soluzione che schiaffeggiarla e ficcarle dentro la bocca bocconi di maiale che Yeong-hye regolarmente sputa. Una ribellione, un rifiuto a uniformarsi e ad accettare quei codici che regolamentano la vita familiare e non soltanto che la donna è costretta a vivere. Un annientarsi definitivo, una voce femminile che caparbiamente e ferocemente, tentando anche il suicidio, s’oppone pure al cognato (Paolo Musio), imbarazzante videoartista che filma scene di sesso tra due persone a cui prima ha dipinto fiori su tutto il corpo e questo è quello che propone anche a Yeong-hye, in un avvicendarsi di violenze verbali e fisiche. Come s’oppone alla sorella, che sceglie per lei l’ospedale psichiatrico, mentre procede in un dimagrimento spaventoso, ossessivamente. La terza e ultima parte di un vedersi vivere che s’è fatto tragedia è scolpita nelle parole della sorella, separatasi ormai dal marito, che vede Yeong-hye prosciugarsi sempre più, rinunciare a ogni cosa per prendere a comportarsi come un albero, a poggiarsi come un albero, la testa in giù e le palme delle mani ben fisse al pavimento, un albero che ha soltanto bisogno di acqua e che lei va a cercare nel folto di un bosco, durante una fuga che nella sua mente è libertà. La natura e un nuovo rapporto, quello con la sorella che con le continue corse in autobus va a trovarla in ospedale, non più distruzione degli affetti o repressione, ma un legame che forse qualcosa saprà e potrà costruire. Non conoscevo le pagine scritte da Han Kang e questa trasposizione ha il merito di spingermi domani a sceglierle e a farmi iniziare la lettura: e non è poco.
Soggetto non facile e non tranquillo, che provoca imbarazzo e certo disturbante. Perché questa trasposizione, dove il racconto è esposto di volta in volta con il racconto in terza persona dei tre coprotagonisti, nella scena disadorna di Daniele Spanò, un solo quanto vistoso neon, con un serpeggiare di luci e ombre, posto lì da Giulia Pastore a rischiararla dall’alto, suddivisa da indicazioni di luogo e di tempo che danno svolgimento e concretezza all’azione e suddivise cromaticamente attraverso i colori del rosso, dell’azzurro chiaro, del verde, è portatrice di una poesia alta, tutta da ri-ascoltare, da assorbire, tutta in quel corpo rinsecchito, estremamente eloquente, di un linguaggio che nella propria crudezza mantiene quelle aree di ampia universalità che sanno parlare al sentimento. Dentro un mondo diverso, ricomposto. La regia di Deflorian – preferibile all’attrice – accompagna con precisione lo sguardo e la viva attenzione dello spettatore all’interno della vicenda, si carica di particolari, costruisce parole e azioni e minimi movimenti con rara bravura, scandisce con padronanza, ha in Monica Piseddu una protagonista tesa sino allo spasimo, fatta di intime vibrazioni, prosciugata, ammirevolmente disposta a esporsi nei profondi mutismi, entusiasmante in quel duro esempio di fredda carnalità. Serata di successo per un ragguardevole testo, frutto produttivo di Teatro Piemonte Europa con altre realtà italiane e significativamente estere Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris e Théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse, testo che ben s’ambienta nella stagione “Fantasmi” “inventata” per la stagione odierna da TPE. Allorché il direttore Andrea De Rosa chiese ai vari responsabili come i loro spettacoli convogliassero in quel titolo, Daria Deflorian ebbe a scrivere: “Se per fantasma intendiamo qualcosa, qualcuno, che improvvisamente sfugge alle forme, alla comprensione, si dissolve, cambia, allora nel romanzo di Han Kang il fantasma è lei, è questa donna qualunque, normale, che improvvisamente prima smette di mangiare e poi, via via, rinuncia a tutto.” Un fantasma che abita le case in qualsiasi latitudine, oggi, sempre.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Andrea Pizzalis.
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