Chiuso il 42mo TFF. Belgio, Germania e Egitto vincono con il tema della maternità

 

È stata la maternità il tema che più ha interessato il gruppo di selezionatori, quello che più ha raccolto titoli all’interno dei sedici film del concorso lungometraggi del 42mo TFF: ed era quasi logico, nel ripensare al valore delle opere, che la giuria guidata da Margaret Mazzantini andasse a pescare proprio lì. Opere subito apprezzate, amate, discusse, provenienti da cinematografie per noi a volte lontanissime, pochissimo o nulla frequentate, che hanno saputo proporre al loro interno meccanismi diversi e sentimenti contrastanti, guardare con estrema sicurezza alle problematiche che “quelle” maternità imponevano, considerare le ansie e a tratti le sottili crudeltà che giorno dopo giorno il mettere al mondo un figlio poteva presentare.

Il titolo di miglior film se lo è aggiudicato “Holy Rosita” della belga Wannes Destoop, dove la protagonista chiusa nella sua solitudine ma sempre con un sorriso per tutti coltiva il sogno grande di diventare madre salvo poi tacere una felice realtà allorché rimane incinta. Il Premio speciale della Giuria è andato a “Vena”, diretto dalla tedesca Chiara Fleischhacker, film che chi stende queste note ha amato molto, magari in attesa anche di un riconoscimento alla protagonista, un’altra madre in attesa, che lotta contro quella dipendenza dalla droga che continuerà a distruggere il suo compagno e vive nella disperazione e nella speranza guardando a un futuro che, per un piccolo conto aperto con la giustizia, le toglierà la bambina poco dopo la nascita (il film ha altresì vinto il premio Fipresci, “per la sua capacità di trasformare la storia intensa di una maternità in un percorso plausibile di salvezza dalle dipendenze grazie a un’interpretazione molto umana, una storia emotivamente forte e un montaggio che scandisce bene i tempi della narrazione, a tratteggiare complessivamente una maturità registica non comune per un’opera prima”). All”Aiguille” dell’egiziano Abdelhamid Bouchnack il premio per la migliore sceneggiatura, il ritratto e la scrittura esatti di una giovane coppia che in un costruirsi di progressive quanto differenti emozioni e stati d’animo rimane divisa per la nascita di un figlio in cui natura maschile e femminile s’uniscono.

 

Una vicenda condotta con estrema esattezza dal regista, che si trova anche a far fronte a una cultura estremamente chiusa e antica e ai pregiudizi che inevitabilmente ne nascono, una vicenda che ha visto assegnarsi anche il premio Achille Valdata, quello Scuola Holden per la miglior sceneggiatura con una motivazione da parte degli allievi che sottolinea “una drammaturgia intensa che procede per azioni, dialoghi mai banali e atti mancati, il film racconta un conflitto di grande potenza che ricade su tutti i personaggi.” “L’aiguille” si aggiudica altresì il Premio Interfedi.

Due film che poco (mi: e non soltanto) hanno convinto, imperfetti, si sono divisi i premi per le interpretazioni: il trio femminile delle interpreti, chiuse nei dolori e nelle violenze di una vecchia casa di “Madame Ida”, sono le migliori attrici in una unanimità affatto condivisibile, mentre il miglior attore è River Gallo di “Ponyboi” che il film ha scritto interpretato e diretto e in cui soprattutto ha personalmente creduto. L’Italia – il suo cinema – è qui a mani vuote e certo non lo diciamo con soddisfazione: ma è la conferma di quanto le due opere presentate di Minucci e Danco siano pretenziose (“Europa Centrale”) o decisamente azzardate e vuote nel voler buttarsi su strade fortunatamente e altrimenti per nulla frequentate (“n-Ego”).

Una gran festa per chi ama il cinema e ha sempre visto nello studio e nel consumarsi quasi dentro certi personaggi, nei gesti, nelle scelte e negli atteggiamenti e nelle prese di posizione – aver mandato in vece sua sul palco degli Oscar una nativa americana a rivendicare intere esistenze e violenze – il vero esplodere e il soffio rivoluzionario di un antico cinema americano, trovarsi per una intera settimana davanti a manifesti locandine programmi con il viso di Marlon Brando inquadrato nella sala da ballo parigina del “Tango” di Bertolucci. È stata la festa per i 24 titoli con cui il direttore Giulio Base gli ha voluto rendere omaggio nel centenario della nascita, impossibile elencarli tutti, ma sono state vere boccate d’aria “A Streetcar Named Desire” e “Julius Caesar”, “Guys and Dolls” dove Marlon non sapeva cantare ma cantava benissimo pronto a rivaleggiare con Sinatra e “The Chase”, “Queimada” del nostro Pontecorvo e “The Godfather”, da “The Men” a “The Missouri Breaks” di Penn: e l’elenco potrebbe continuare.

Adesso, davanti alle immagini di “Waltzing with Brando” – presentato a chiusura del festival – e vedendoti Billy Zane davanti, nella sala grande della Cavallerizza con contiene le conferenze stampa, pare che il vecchio Marlon abbia avuto la sua brava resurrezione. Magari il potente fantasma incombe da sempre sullo psicopatico di “Ore 10: calma piatta” o sul fidanzato di Kate Winslet, riccastro e spregevole, che non esita a salvarsi, solo, dalla tragedia del “Titanic”: ma oggi più che mai, con il suo corpo massiccio, con qualche chilo in più, con la profondità marcata dello sguardo, il vecchio Marlon pare essere lì. Se ci mettete il modo di muovere le mani, il momento di poggiare il capo sulla mano e il gesto di grattarsi la fronte, immediatamente sopra l’occhio, e confrontate tutto questo con le scene del “Padrino” o di “Tango” ricostruite per il film di oggi, vi accorgete che il vecchio Marlon è lì. E vi godete appieno anche il nuovo personaggio, quel Billy Zane che ha voluto fortemente “Waltzing”, termine ultimo per ora di una carriera ondivaga e crediamo non soddisfacente appieno, storia tratta dal libro “Planning Paradise in Tahiti”, scritto da Bernie Judge, architetto californiano che, votato a progetti portati avanti ed esauriti per dare un giusto posto alla protezione dell’ambiente, incontrò in Brando e Brando in lui il giusto referente per un più o meno idilliaco lavoro in quelle isole da sogno, là dove l’attore durante la lavorazione dell’”Ammutinamento del Bounty” aveva trovato un’isola e una moglie.

L’isola è quella di Tetiaroa, un’isola della Polinesia francese, un insieme di bungalows e di altre costruzioni che dovevano vedere la luce con tecniche e sguardi d’architetture mirate con occhio e intenti decisamente moderni, in un’epoca ancora troppo lontana da discorsi di tale genere. Non lo spaventano i costi che crescono o tutte le contrarietà che si possono presentare, quello è e sarà il suo eremo felice, dove magari anche poggiare per terra come ferma porta l’Oscar vinto. Un ambientalista, posto al centro di un film che non importi se non soddisfi molto: l’importante è che ci restituisca un Brando in anticipo sui tempi, come lo era stato nella recitazione.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene da “Holy Rosita”, “Vena” e “L’aiguille”. Billy Zane Marlon Brando in “Tango a Parigi” nel film “Waltzing with Brando” che ha chiuso il festival.

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