Al 42mo TFF storie di famiglie e i rapporti madre/figlia

La nascita, le scelte fatte e da farsi, la volontà di tener nascosto il proprio stati, il saper
condurre avanti una vita insieme e l’affidamento, la sparizione e la ricerca di un essere
umano a te così vicino, i rapporti e la loro complessità. Quelli della famiglia, dei legami
madre/figlia, delle unioni che coinvolgono visceralmente, sono i temi che più hanno
trovato spazio nelle scelte fatte per il concorso del 42mo TFF, quelle che più hanno
colpito il sentimento del gruppo selezionatore. Felicità e dramma eterni, a ogni
latitudine del mondo, sotto sguardi e con prospettive diversissimi, dal Belgio alla
Tunisia, dalla Corea del Sud all’Iran, dalla Danimarca alla Germania. Di qui, da
quest’ultimo paese, arriva una delle opere più belle del festival, avvolta di una cruda
realtà, di un oggi esasperato, di un panorama che ha parecchie ombre di una certa
gioventù che vediamo stranamente vivere nelle città, della sua debolezza, dei non-
sogni che continuano a coltivare, dei molti rapporti in cui non si possono intravvedere
luci, della miseria di certi ambienti, della sicura solitudine. Il titolo è “Vena”, la regista
è Chiara Fleischlacker, trentenne, con studi di psicologia a Friburgo, già autrice di
cortometraggi e documentari, questo è il suo diploma di sceneggiatrice e regista
all’Accademia del cinema del Baden-Wuerttemberg. Questo è forse un piccolo
capolavoro che guarda con occhio più sicuro a certe esistenze giovanili, dove la
commiserazione e i sentimenti stereotipati non trovano posto, ma anche ogni piccolo
attimo di una relazione, ogni più piccola area buia vengono guardate, analizzate,
lavorate con un bisturi che apre altre ferite, un lavoro eccellente di scrittura prima e di
direzione poi. Una storia che in tutta la sua gelida quanto struggente evoluzione non
dovrebbe lasciare indifferenti i giurati, un’interpretazione, quella della matura e più
che umanamente espressiva Emma Drogunova, da tenere presente quando si tratterà
di assegnare i premi finali.
Jenny già alcuni anni prima s’è vista obbligata dai servizi sociali ad affidare alla madre
il suo primo figlio, adesso è incinta del suo nuovo compagno Bolle, passione smisurata,
un’attrazione fisica e d’emozioni ma le giornate riempite dalle droghe che coinvolgono
pienamente entrambi. Il suo stato dovrà essere affidato a una giovane ostetrica,
dicono ancora i servizi, una decisione che rende Jenny dapprima chiusa, decisamente
contraria, scettica e arrabbiata contro quella persona che dovrebbe sorvegliarla e
decidere per lei: poi inaspettatamente, giorno dopo giorno, le asprezze si allentano e
un legame fatto di sincera complicità si instaura tra le due donne, prende posto la
fiducia che lascia alla ragazza affidare il proprio segreto a Marla, un segreto che la
lega al passato e che la condannerà a staccarsi da sua figlia quando nascerà. Estrema
verità, lucido racconto, attenzione estrema alla tragedia di una giovane donna e al suo
staccarsene, un ritratto autentico – e quello del compagno contiene altrettanto le
necessarie asprezze e quei momenti che dovrebbero portarlo a una liberazione che
non avviene – che è al centro di un film che convince appieno.
Dalla Danimarca arriva – claudicante e imperfetta – la storia di Cecilia, una quindicenne
orfana ospite di un orfanotrofio all’inizio degli anni Cinquanta. Aspetta un bambino, e
lo spettatore presto intuisce chi ne abbia approfittato. Non è quello che interessa
all’opera prima del giovane Jacob Møller, “Madame Ida”, il film non andrà ancora una
volta a descrivere il rapporto tra vittima e carnefice. La realtà da scoprire è altrove, tra
le nebbie di una campagna che dovrebbe rassicurare. Per nascondere la gravidanza,
Cecilia è condotta nella casa di Ida, nella ricca casa dove un tempo si svolgevano
concerti e feste e cene e dove ora ogni cosa appare chiusa in un silenzio e in
un’assenza di vita che coinvolgono la padrona di casa e l’anziana domestica Alma: con
la decisione che la creatura alla nascita verrà affidata a Ida in adozione, cancellato
ogni diritto di Cecilia. Non accetta la ragazza la nuova coabitazione nei primi tempi ma
poi prendono il sopravvento gli atti di affetto, le premure, i gesti e le serate passate a
cercare una certa unione, si fa largo quell’amore di una famiglia che Cecilia non ha
mai provato. Come allo stesso tempo Ida ritrova quel legame che in precedenza aveva
​perso. Fino a questo punto la scrittura di Møller è sicura, si lascia seguire con
attenzione; poi come per la volontà sconsiderata d’infilarsi in un vecchio romanzone
d’appendice dell’Ottocento, di quei racconti a puntate che avrebbero fatto il successi
di qualche gazzetta, quella medesima scrittura ci informa della disgrazia che ha
colpito Ida anni prima, del suo allontanarsi dal mondo, del perché una certa porta della
grande casa continui a essere chiusa, perché una cena di bentornati amici prenda
strade che ribollono di una sessualità a lungo dimenticata, come Cecilia debba
ubbidire alla decisione del ritorno e come il finale s’inviluppi in modo disordinato, non
trovando una via d’uscita che confezioni appieno quelli che erano stati dei promettenti
preamboli.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene da “Vena” (Germania) e da “Madame Ida” (Danimarca)
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