Al Mao, sino al 23 marzo, “Rabbit Inhabits in the Moon”
“Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io ti porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Una leggenda gentile che ricopre vasti territori dell’Asia Centrale e dell’Estremo Oriente, sino all’Iran e alla Turchia, l’effetto è magico se in alcune notti certe macchie della luna posata sul Giappone e sulla Corea e su quei mari ricordano le forme di un coniglio: che gli abitanti di quei paesi immaginano lavorare instancabilmente, intento com’è a preparare dentro un mortaio torte di riso con cui allietare gli esseri lunari. “Rabbit Inhabits in the Moon” è il titolo dell’installazione del 1996 dovuta all’arte di Nam June Paik e medesimo è il titolo, ampliato nell’”Arte di Nam June Paik allo specchio del tempo”, della mostra che s’inaugura oggi al Mao Museo d’Arte Orientale in via San Domenico 11 (visitabile sino al 23 marzo 2025): un piccolo coniglio in legno ad osservare, attraverso lo spazio e il tempo, uno scuro schermo televisivo dentro cui si staglia una luna rotondissima e azzurra, uno sguardo altresì in doppia direzione, dal momento che la luna rimanda e ricambia quello sguardo. Si osserva la realtà e si vive di immaginazione, la tradizione scambia tangibili segnali con il futuro, in un continuo gioco di sguardi e di suggestioni.
Concepita ad inaugurare la stagione espositiva 2024/25 e a festeggiare il 140° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea e Italia, è immediatamente confessabile quanto si proceda in una sorta di magia attraverso le varie stanze protettive e inaspettate di questa mostra – curata da Davide Quadrio, direttore del museo, e Joanne Kim, critica e curatrice coreana, con Anna Musini e Francesca Filisetti e con gli apporti di Manuela Moscatiello della Maison de Victor Hugo di Parigi, di Kyoo Lee, curatore della sala dello sciamanesimo, Professore di Filosofia alla City University di New York e di Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto -, i vari ingressi alleggeriti da candidi veli bianchi, la tradizione e la contemporaneità strette in forti legami di cui il Mao si è fatto e si fa portavoce, simboli e simbologie, la percezione del rito e la performance artistica, “oggetti rituali, opere e installazioni che accostati tra loro suggeriscono nuove narrazioni, letture e significati”, la bellezza di una cultura pressoché sconosciuta ai molti, le sensazioni avveniristiche che si trovano affiancate a raffinati manufatti coreani provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private, nazionali e internazionali, il parigino Musée Guimet, il Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” di Genova, il Museo delle Civiltà di Roma. Ogni elemento risulta leggero, fluido e aereo, quasi danzante, “tra l’umano e il divino” si spinge ad affermare Quadrio, avvolto nelle musiche di un pianoforte che rivisita Chopin o specchiantesi nella superficie del pavimento che rimanda in un gioco di specchi ogni immagine, ferma o in movimento. Un movimento, l’avanzare di ognuno di noi dettato dalla necessità e dal piacere di “prendersi il tempo giusto per vedere le cose”, per sentire, per cercare emozioni.
Al centro del progetto la figura di Nam June Paik (Seul, 1932 – Miami, 2006), artista centrale nel panorama culturale del XX secolo e considerato uno dei pionieri della video arte. Figlio di un fabbricante tessile, fu allevato nello studio del pianoforte e della composizione, nel ’56 si spostò in Germania dove incontrò e si legò in amicizia con Stockhausen e soprattutto con John Cage, aderì al movimento Fluxus, uno dei primi movimenti d’avanguardia a essere coinvolto nella musica e sviluppatosi negli Stati Uniti e in Germania all’inizio degli anni Sessanta, lavorò su vari progetti con la violoncellista Charlotte Moorman. Nel 1968, allorché la Sony mette sul mercato “Porta Pack”, la prima telecamera portatile, l’artista l’acquista immediatamente e realizza un video sul traffico caotico nel giorno della visita di Paolo VI a New York; nello stesso giorno presenta questo suo primo video e una installazione video: è nato il primo video d’arte della storia. E ancora il premio nel ’93 per il miglior padiglione alla Biennale veneziana, del 2005 “Chinese Memory”, una delle sue ultime opere, ovvero un’installazione contenente un apparecchio televisivo dove pittura libri antenna e una pergamena cinese felicemente coabitano. Un maestro quindi, portatore di un’eredità e di un’importante influenza su chi è venuto dopo di lui, Jesse Chun, Chan-Ho Park e Shiu Jin tra gli altri, debitori di uno sguardo nuovo, di una filosofia che guarda alla spiritualità e al progresso della tecnologia, all’assogettamento al capitalismo contrapposto ad una poetica insita in ciascuno di noi.
Non dovrà – hanno pensato con intelligenza i curatori – il visitatore affidarsi a un percorso “obbligatoriamente” cronologico, ma affidarsi diremmo quasi ai sentimenti, ai pensieri, al gioco di rimandi e riletture, alle metafore che le tappe del percorso suggeriscono. In primo luogo a quell’involucro di elementi sonori, musicali e performativi, che ci lasciano tornare con la memoria all’interesse primo dell’artista. Di sicuro interesse saranno “Sounds Heard from the Moon. Part 2” (2024) che il Mao ha per l’occasione specificatamente commissionato a Jiha Park che “nella sua ricerca utilizza strumenti tradizionali coreani, come il piri, il Saenghwang e il Yanggeum”; e “Nocturne No. 20 dove Kyuchul Ahn propone una rivisitazione della musica di Chopin, completata da una performance (“una scomposizione”, indicano le curatrici) in cui gli 89 martelletti del pianoforte saranno gradualmente rimossi a ogni esecuzione del pianista, portando alla graduale scomparsa del suono.
Con assai più prezioso interesse saltano all’occhio di chi guarda le fotografie a colori chiamate a testimoniare performance, un antico dipinto coreano del XII secolo, una giacca sovrakimono maschile, di fattura giapponese, degli anni Trenta del XX secolo che mostra al suo interno una coppia di conigli intenti a macinare il riso per la preparazione di un dolce tradizionale, come su una parete s’allineano, firmate dall’artista, un’immagine (“Human Cello”, 1984) che rimanda con un’altra lingua alle tematiche di Man Ray o anche a una più o meno scollacciata cinematografia italiana (ma qui non d’obbligo!) degli anni Settanta, e uno strumento (“Plexiglas Cello Tv”, 1989), dove trovano posto corde e altri elementi lignei di violoncello.
Un fitto public program si articolerà nei mesi d’apertura della mostra, dai video di approfondimento alle tante pubblicazioni, da un programma musicale a cura di Chiara Lee e Freddie Murphy alla perdurante collaborazione con il Mercato Centrale, che ha già visto la performance del gruppo coreano GOOSEUNG, per la prima volta in Italia e che proseguirà con una serie di eventi a tema che coinvolgeranno cibo, ritualità e design, “combinando con spirito contemporaneo l’Asia e le sue realtà più sperimentali di arte, cultura e cucina”, sottolineano ancora gli organizzatori.
Elio Rabbione
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