Il rogo della Vijećnica negli scatti di Siccardi

 

Tra le immagini esposte nella mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo”, organizzata da La Porta di Vetro e giunta alla quinta settimana ( resterà aperta al pubblico nel Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al prossimo 19 marzo ) quella dedicata al rogo della biblioteca nazionale di Sarajevo è particolarmente evocativa.

La prima cosa che viene in mente è la canzone intitolata Cupe Vampe, contenuta nell’album Linea Gotica che il Consorzio Suonatori Independenti pubblicò nel 1996: “Di colpo si fa notte e s’incunea a crudo il freddo. La città trema, livida trema. Brucia la biblioteca, i libri scritti e ricopiati a mano che gli ebrei sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna. S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe. Brucia la biblioteca degli Slavi del Sud, europei dei Balcani..”. La Vijećnica è uno dei simboli tragici dell’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Prima del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali rappresentava il solo archivio nazionale di tutte le pubblicazioni bosniache. Un  milione e mezzo di libri, tra i quali oltre centocinquantamila esemplari rari e preziosi e numerosi manoscritti unici al mondo. La sua imponente maestosità in stile pseudo moresco, opera degli austroungarici che nel 1894 la eressero ai piedi delle colline dove nacque la città, la pone da allora  in stridente contrasto con le  case e le vie strette dellaBascarsija, l’antico mercato ottomano. Le altissime finestre di vetro intarsiato si affacciavano sul fiume Miljačka e  sul monte Trebević. All’interno tra panchine, sedie e scrivanie di legno massiccio “c’era un odore misto di polvere antica e di quel grasso che un tempo si usava per conservare il legno”. I visitatori entravamo in silenzio,  quasi con il fiato sospeso, cercando di smorzare il suono dei passi. Avvertivano l’importanza di quel grandioso palazzo dove si conservavano libri che a Sarajevo erano sempre stati considerati alla stregua degli oggetti sacri. Il 25 agosto 1992, scoccata la mezzanotte, dalle colline che circondano la città i serbi spararono le prime bombe incendiarie sulla Vijećnica. La biblioteca fu bersagliata dall’artiglieria degli assedianti per tre intere giornate. L’accuratezza dei lanci non lasciava dubbi sul fatto che il bersaglio fosse proprio l’ostentato e  volgare desiderio di cancellare le memorie, i percorsi, le storie, le vite degli altri. Dopo tre giorni di incendi della biblioteca rimasero solo lo scheletro di mattoni anneriti e una montagna di cenere. Un disastro che rimase impresso nella memoria di Kemal Bakaršić, uno dei bibliotecari: ”Tutta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo giù come neve nera. Afferrandola, per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”. Perché bombardare una biblioteca? Perché lanciare proiettili e bombe, impiegando mezzi, uomini e tempo per distruggere qualcosa che non spara, che non offende? Una semplice domanda, quasi ingenua, che si fecero in molti mentre cercavano, armati di secchi di acqua sporca, di spegnere i roghi e smorzare le  fiamme. La risposta, che valeva allora come vale oggi, la diede il mite bibliotecario Bakaršić: “perché lì dentro la loro guerra non esiste. Perché lì dentro gli scrittori serbi sono nello stesso scaffale di quelli bosniaci”. Una convivenza culturale inaccettabile per l’ottuso, ignorante e violento nazionalismo. Solo tre mesi prima i medesimi incendiari avevano distrutto alla stessa maniera l’Istituto Orientale a Sarajevo. Un odio aggressivo verso il sapere degli altri e di tutti che mandò in fumo la grande collezione di manoscritti e testi rari, spesso documenti unici in arabico, persiano o ebraico che testimoniavano mezzo millennio di storia della Bosnia e dell’Erzegovina. In quel momento la perdita aprì gli occhi a molti esponenti della cultura e della scienza. Tra loro si fece strada la consapevolezza che stava accadendo qualcosa di terribile. Ma quando toccò alla Biblioteca Nazionale, il dolore venne avvertito da tutti i sarajevesi, compresi quelli che non avevano mai preso in prestito  un suo libro. I cecchini e l’artiglieria serba non stettero a guardare e concentrarono il fuoco sui vigili del fuoco, sui bibliotecari e sui giovani volontari che formavano una catena umana nel tentativo di salvare i libri. Una ragazza che lavorava alla Vijećnica, Aida Buturović, perse la vita per salvare quei preziosi documenti. Lo scrittore bosniaco Goran Simić , guardando dalla sua finestra la Biblioteca in fiamme, in preda alla disperazione, prese carta e  penna e  con rabbia  lanciò il suo urlo di dolore in versi:”Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane  Tom Sawyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov”. Le foto di Siccardi, fotoreporter torinese che frequentò a lungo la “Gerusalemme d’Europa” e i Balcani, restituiscono trent’anni dopo ricordi tragici e emozioni che non possono lasciare indifferenti.

Marco Travaglini

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