A palazzo Madama, nella sala del Senato, sino al 30 gennaio
Ricordate, dai banchi della scuola? “Onde venisti? quali a noi secoli / Sì mite e bella ti tramandarono? / Fra i canti de’ sacri poeti / Dove un giorno o regina, ti vidi?” Carducci, mangiapreti e tritura monarchi, la vide passare per le vie di Bologna e ne rimase folgorato, cancellando in un attimo il suo passato repubblicano e beccandosi ogni tipo di critica dai compagni di un tempo: caduto anche lui sulla strada di Damasco, il giorno dopo era al cospetto dei sovrani, avviando con lei un’amicizia (il gossip dell’epoca ci andò a nozze e i rumors sulle visite alle regali stanze invadevano salotti e mercati), una fitta corrispondenza e la sana abitudine delle camminate estive tra i sentieri della Val d’Aosta. Fino al 30 gennaio, nella Sala del Senato di Palazzo Madama, l’antico foglio originale, ripensato e corretto, de “Alla regina d’Italia”, è uno dei tanti oggetti che trovano spazio, nell’elegante quanto arioso allestimento dell’architetto Loredana Iacopino e per la cura di Maria Paola Ruffino, all’interno della mostra “Margherita di Savoia. Regina d’Italia”. Oltre settanta opere d’arte, tra ritratti, dipinti, sculture, abiti e gioielli, strumenti musicali e manoscritti, tappezzerie e mobili, un racconto prezioso attraverso i settantacinque anni di vita della sovrana (nacque a Torino, a palazzo Chiablese, nella notte del 20 novembre 1851 e morì a Bordighera all’inizio del 1926) raccolto dal Musée d’Orsay di Parigi, dalle Gallerie degli Uffizi – Palazzo Pitti, dal Palazzo del Quirinale e dal Museo di Palazzo Boncompagni-Ludovisi di Roma, dal Palazzo Reale di Napoli e dalla Reggia di Caserta, dai Musei Civici di Venezia, dai Musei Reali e dalla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, dal Polo Museale del Piemonte.
Il padre era Ferdinando di Savoia-Genova, fratello di Vittorio Emanuele II, e la madre Elisabetta di Sassonia, al suo battesimo parteciparono Massimo d’Azeglio, allora Presidente del Consiglio, Cavour con le differenti cariche di ministro della Marina e dell’Agricoltura e Commercio, Alfonso La Mormora. Rimasta orfana di padre a soli quattro anni, appena tredicenne fu adocchiata come futura sposa dell’erede Umberto, ma i tempi non erano ancora maturi. Maturarono in maniera definitiva il giorno del matrimonio, il 22 aprile 1868: matrimonio che risultò essere, anche questo, “troppo affollato”, dal momento che già da quattro anni circolava e aveva preso il cuore del futuro re una innamoratissima Camilla, questa davvero bella, la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini Litta, di sette anni maggiore di lui, della miglior nobiltà milanese, un amore eterno e un figlio adulterino da crescere. Margherita all’inizio mal sopportò quel triangolo di cui tutti erano a conoscenza; ma poi seppe creare intorno a sé e all’immagine della coppia reale una perfetta cornice di finzione, di felicità e di salda unione che ebbe il proprio primo sfolgorante traguardo nei festeggiamenti delle nozze d’argento nell’aprile del 1893.
Era l’Italia di quel lungo periodo un paese che, nella propria diseguaglianza, guardava ai grandi sviluppi, all’espandersi a piccoli o grandi passi delle ferrovie, dell’industria, dell’istruzione, si poneva di fronte alle prime organizzazioni dei lavoratori, passava dalla carrozza all’automobile, dalla storia risorgimentale a quella coloniale: al centro, per lunghi decenni, Margherita, nella Storia – come nella mostra di Palazzo Madama – aureolata, posta al centro nelle vesti di icona di stile, di “eterno femminino regale”, di madre – quante volte sarà stata accanto alla culla del piccolo Vittorio Emanuele, disegnata da Domenico Morelli, uno dei pezzi più belli della mostra? -, di benefattrice, di musa, di illuminata sovrana, di colei che promuove la diffusione dell’istruzione e della formazione professionale, che accresce il consenso attorno a Casa Savoia, che crea salotti portando cultura e arte e li allieta con la sua voce e con il suono del pianoforte (era innamoratissima di Beethoven), che guarda alla modernità con occhio sempre attento e con cuore aperto al popolo (“La regina Margherita mangia il pollo con le dita”) e forgia frasi come “A che servirebbe essere principi se non si potesse fare il bene che si vuole?” o “Tutto quel che viene dal popolo deve ritornare al popolo”. Diremmo grandiosa. Ma è anche la sovrana che appoggiava l’operato di Bava Beccaris, nel maggio 1898, in occasione dei moti di Milano, che guardava con fiducia al fascismo e a Mussolini, unico argine ai disordini del biennio rosso, che forse non era di parere poi molto lontano da quello di Marco Minghetti, suo amato maestro di latino, che nel 1864 portò la capitale a Firenze e fu il responsabile dell’eccidio di piazza San Carlo, a Torino, che causò la morte di 47 persone, tra militari e civili.
Margherita si circondò del bello, molto dell’arredamento di palazzo Reale trovò posto nelle sale del Quirinale, i mobili intarsiati del Piffetti e la ricchezza barocca di Valentino Besarel, bellunese, occuparono i grandi saloni come gli ambienti di Monza e le abitazioni private della sovrana, i servizi di Meissen e di Sèvres, oggi in mostra, ornarono le tavole dei grandi pranzi, gli abiti alla moda – quella moda che la regina seguiva, con gli abiti parigini di Worth, o per molte occasioni dettava – rivestirono le dame della aristocrazia in occasione di balli e feste a corte. Margherita è la sovrana che si mostra al popolo ed elargisce sussidi a congregazioni religiose e istituzione laiche, asili d’infanzia, scuole, associazioni caritative; promuove la moda del pizzo nelle toilette femminili, aiutando nello stesso tempo la scuola di merletto di Murano e le tante donne che con le loro famiglia da quel lavoro dipendono. Come riporta in auge la moda del corallo (le lavorazioni sono ambientate in una delle sale più belle della mostra), amante dei libri crea biblioteche, nel ’93 tiene a battesimo la Biennale di Venezia. Il regicidio a Monza, ad opera di Gaetano Bresci, decreterà la fine di un epoca forse dorata e la sovrana, lasciando il Quirinale al figlio e ad Elena di Montenegro andrà ad abitare il palazzo romano che da lei prenderà il nome, dedicandosi ancor più ai viaggi e al mondo dell’arte. L’ultima sala accoglie immagini dei Lumière, i viali torinesi con i tramvai, le piazze e le folle, gli antichi panorami, le precedenti e le teche che abbiamo attraversato ci hanno mostrato la sovrana nei tanti ritratti, uno per tutti quello di Pietro Paolo Michetti, le porcellane preziose e le tante componenti dell’arredamento, i mandolini e le chitarre, il ritratto di un giovane Vittorio Emanuele III ad opera di Giacomo Grosso, la pace di Gressoney La Trinité rappresentata da Demetrio Cosola e un altro capolavoro dell’arte di Andrea Tavernier, “Finita la messa”, due diversissime opere di Giacomo Balla, “Le risaiuole” di Angelo Morbelli, un abito nero con manto a striscio, in velluto di seta, ricamato con paillettes e jais e merletto lavorato a macchina, datato 1905-1915, appartenuto alla sovrana. In una teca, una piccola etichetta con il numero 239/B legata con un filo rosso, la Rivoltella Harrington & Richardson, modello “Massachusetts”, con cui in un nero 29 luglio, in tarda serata, venne assassinato il sovrano Umberto I. Tre coli l’avevano colpito al volto e alla gola, uno era andato a vuoto.
Elio Rabbione
Immagini dell’allestimento della mostra a Palazzo Madama (ph. Perottino)
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