Sugli schermi “1917” di Sam Mendes
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
E allora che dire di questo 1917 che Sam Mendes – magnifico autore di titoli quali American Beauty o Era mio padre, Jarhead o Revolutionary Road – ha scritto e diretto, mettendo da parte le proprie incursioni bondiane e tornando con la memoria ai racconti di guerra del nonno Alfred, che aveva combattuto per due anni sul fronte francese? di un titolo che già s’è aggiudicato i Golden Globe per il miglior film e la miglior regia, che da un paio di giorni si fregia di sette premi Bafta (miglior film, miglior regia, miglior film britannico, miglior fotografia tra gli altri) e che tra una settimana – Tarantino e Bong Joon Ho permettendo, troppo presto Scorsese essendo stato messo fuori da ogni competizione – potrebbe stringere una o più (dieci le candidature raccolte) di quelle statuette che “somiglia(no) tanto a mio zio Oscar”? di un titolo che sbandiera a cuore aperto i sentimenti del pacifismo, che parla di amicizia e di sacrificio e di orrori bellici, che ha tutti i numeri per intenerire i cuori dei membri dell’Academy?
In un giorno d’aprile del 1917 a due giovani caporali, Blake e Schofield, il generale Erinmore (Colin Firth) affida l’ordine di bloccare l’attacco del colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) e del suo battaglione di 1600 uomini su un nemico in fuga, ignorando questi che quella ritirata altro non è che una trappola, infida e strategica, che al contrario nasconde subdolamente una nuova offensiva che vedrebbe la sanguinosa carneficina di tutti quegli uomini. Blake, inoltre, è spinto più di ogni altro in quell’impresa, dal momento che tra le forze di quell’attacco c’è anche suo fratello. Si tratterà di percorrere le prime trincee e di riversarsi nella terra di nessuno, di attraversare terreni dilaniati dalla battaglia, di immergersi in buche ed in enormi pozze d’acqua piene di carcasse d’animali e di cadaveri su cui passeggiano corvi e topi, di incrociare visi orribili e mani ridotti a scheletri, di isolarsi tra casolari abbandonati, di cadere dentro le pericolose acque di un fiume, di addentrarsi in un villaggio ridotto a macerie dove ancora si può nascondere un fuoco accogliente ed una donna da proteggere, o in un bosco dove qualcuno ha ancora la forza di intonare una canzone che raccolga lo spirito di speranza di ognuno, di raggiungere il comando per il compito finale. Un viaggio, metro dopo metro, con tutta la propria fatica, forse sotto l’occhio invisibile del nemico, appena una decina di chilometri, cadenzato nel tempo reale, dove con la macchina da presa Sam Mendes inventa un continuo, lungo quanto “falso” piano sequenza, un (saggio) esperimento interrotto da espedienti, da momenti di buio, dal passaggio dai chiarori della giornata alle ombre della notte. Una macchina da presa che s’incolla ai protagonisti, a Schofield (George MacKay, il suo compagno è Dean-Charles Chapman) soprattutto che sarà costretto ad un certo punto a proseguire la strada da solo, che non li molla un istante, che scava di fronte o alle spalle, che cattura le varie stazioni della missione, le emozioni, le paure, i pochissimi momenti di pretesa ironia: ma il giudizio trattenuto sul terreno del condivisibile di chi scrive è perché spesso hai la netta sensazione che la sceneggiatura scritta dal regista e da Krysty Wilson-Cairns sia più costruita che umanamente vissuta (un episodio per tutti: il breve incontro tra il soldato e la giovane donna mentre tutto intorno, nel paesino di Ecoust brucia) e che il personaggio principale non riesca a costruire e mostrare un significativo svolgimento psicologico. E proprio quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di 1917 – l’uomo avvolto da quel incessante (?) piano sequenza – finisce col dare sì un senso di claustrofobia tra quelle distese di desolazione, ma altresì con l’appiattire tutto quanto è racconto ed emozione.
Non è un impoverimento del film: ma quel che più ti affascina sono gli apporti tecnici, la grande squadra che ha inventato e costruito meraviglie al film. In primo luogo le scenografie di Dennis Gassner e Lee Sandales, la fotografia di un maestro come Roger Deakins (ha “appena” vinto l’Oscar due anni fa per Blade Runner 2049 ma perché non ridarglielo?), entusiasmante, con quei notturni che sono un vero capolavoro, la colonna sonora di Thomas Newman o gli effetti speciali o i montaggi sonori. Mentre rimane ben in piedi la validità dell’idea e della costruzione di Mendes, nella memoria, tra gli autori che ci hanno raccontato il grande conflitto, restano altri nomi, il nostro Rosi o l’immenso Kubrick.
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