Negli spazi della Galleria Malinpensa by La Telaccia
Terminerà sabato 6 dicembre, nelle sale della Galleria Malinpensa by la Telaccia, tappa di quel percorso più ampio che è “Raccontare e raccontarsi”, la mostra (a cura di Monia Malinpensa) che vede in esposizione le opere di quattro artisti, Cesare Iezzi, Graziano Rey, Gianalberto Righetti e Fulvia Steardo Fermi. Un passato, quest’ultima, che ha visto approfondimenti all’Accademia d’Arte Albertina di Genova, Steardo mette in primo ordine, sulle sue tele di lino, una eccellente tecnica mista che ama arricchire con l’uso di foglie d’oro – “Red garden” del 2024, una sorta di filiforme e stilizzato ikebana su fondo rosso, un allinearsi di piccoli steli e degli accenni di fievoli fiori: “una forte predisposizione e soddisfazione nel dipinto gliela riserva l’impiego della foglia d’oro 24 kt, che rappresenta per lei il massimo rispetto e omaggio all’arte e alla creatività”, aveva scritto di lei con entusiasmo Vittorio Sgarbi.
È la raffinatezza coloristica a colpire soprattutto nei lavori della pittrice, c’è un’eleganza non discosta da una bella vivacità che si espande, altresì nei tratti simbolici posti in aree concettuali, nella sensazioni emozionali che ne nascono. Le sono sufficienti piccoli tratti di colore in rapida successione verticale per creare, ancora su un supporto di lino, un delicato affresco di “Bouganville”, i rossi gli azzurri i verdi acidi usati a illuminare i bianchi che intervallano sempre accompagnati da queste strisce dorate che fanno da contraltare alla “semplicità” dell’opera. Sono suggestioni, è musicalità, è da parte di chi guarda un immaginare continuo, al di là del vero e proprio progetto, dello stesso titolo, della poesia innegabilmente presente, dell’intensità che l’artista pone nella sua natura, espressa in differenti modi (ancora una composizione che colpisce, “Green”, del ’22, pressoché un quadrato di colori che sembrano abbracciarsi, vivificati da alcuni deboli fiori rassastri che tentano timidamente una nascita). È un ambito di rivelazioni, di espressioni convincenti, quelle che prendono origine dall’uso preciso e forte della materia, quelle a cui Fulvia Steardo dà vita.
Di natura ci parla anche Gianalberto Righetti – ingegnere e fotografo genovese, dagli anni Novanta espone le sue opere in varie gallerie d’arte contemporanea, opere “di razionalità e logica tipiche di un ingegnere. laddove Righetti “fotografa esponendo per le luci, ottenendo immagini sottoesposte e con colori saturi, grazie anche al frequente uso del filtro polarizzatore” -, sotto altra forma, attraverso la fotografia coniugata sotto sguardi diversi. Attraverso una “foglia” (2020), quasi rinsecchita nei suoi colori autunnali, imprigionata tra due robuste colonne, attraverso l’immagine lattiginosa di un angolo di deserto in Namibia, “Presenza invisibile 8” del 2023, attraverso il tronco contorto e spigoloso di un albero (“Frammenti ricomposti 6”), colto lo scorso anno nella campagna della ligure Bogliasco. Estetismi che non sono superflui esercizi di tecnica, quelli di Righetti, quelli che guardano e coniugano l’essenza e la concretezza allo stesso tempo dell’”albero”, che rimane il protagonista di questo spazio di galleria dedicato all’autore: davanti a ogni opera ci imbattiamo in un risultato profondo, nella trasformazione del “linguaggio visivo in un’esperienza naturalistica” (scrive Malinpensa nella sua presentazione), nel ritrovarci spinti a sentirci far parte, inglobati nel soggetto che abbiamo davanti a noi. Quella di Righetti è poi una natura non statica ma in movimento, parte di un ambiente che vive e che respira, Righetti vivendola dall’interno pare giocarci insieme: “Frammenti Ricomposti 4” nel suo incessante sfuggire verticale, come uno specchio deformato, ne è la prova, come i chiaroscuri, rubati alle Cinqueterre, di “Presenza invisibile 1” (un’opera del 2008), come quelle immagini che sembrano quasi soltanto impressioni e accenni, riprese dai panorami di States del nord americano, come tutto quanto emblematicamente diventa macchia, rossastra o verde, nelle tante ricercate tonalità, tra le campagne di Chaumont, soltanto pochi mesi fa. Opere che sono respiro, immersioni, lirismi, coloriture, “poesie visive”, ragnatela di accordi e di rapporti a mano a mano più stretti e compatti, dove la presenza umana è saggiamente bandita.
Graziano Rey – torinese, classe 1953, membro della “Soffitta macabra di Alessandri, dentro il mondo della pittura e della musica (sua la sigla di “Buona Domenica”, suo il premio “Rino Gaetano” 1991/92 come il premio Viareggio come cantautore: nonché opinionista per numerose puntate del “Maurizio Costanzo Show”) – poggia in maniera assai personale sulle proprie tele “un mondo di colori”, per estrema astrazione, di grande movimento e di forte impatto visivo, simpaticamente strambo e dinamico, variante e ritmato, grumi di colore che sono note posate in vario disordine su un frastagliato e scomposto rigo musicale; gioca in “frammenti di tela” con quelle che paiono coreografie costruite sulla tenuità dei colori, i rosati gli azzurri i grigi, insetti sconosciuti o gemme preziose ; o piccoli mondi in movimento; sogna e ondeggia con deboli profondità attraverso “Frammenti di blu” (2024), ovvero impercettibili sagome che paiono guardare ad accenni umani, piccoli e ormai cresciuti, oggetti che spetta a noi decifrare, in pieno sfondo di un giallo acceso, mentre tutt’intorno è calmo silenzio, un invito a considerare, a trattenersi un attimo, tra quanto può essere realtà e quanto diventa immediatamente sogno.
Dalla classicità parte e s’avventura Cesare Iezzi – nativo di Chieti, premio artistico Giuliano Nozzoli 2024 -, dal mondo greco e rinascimentale, dalla perfezione dell’oggetto, dalla conclamata bellezza dell’esecuzione, colma di partecipazione e di misura, nel chiarore del bianco dell’elemento principe, abbinando di volta in volta gesso, pvc, luce e legno marino, di differenti altezze, attraversando maschere dai nomi inusitati come Medeine (2023, in un perfetto gioco di materiale naturale e di tratti oscuri che paiono deturparle il volto), Anakin, Inanna, Poseidon (2023, quasi un sfinge, mentre i capelli scomposti gli nascondono parte dello sguardo), Euterpe (dall’ampiezza frontale, dallo studiato svolazzo di copricapo e di abito, 2025), Harnauta (forse una cecità che soltanto una luce azzurrognola può disperdere, 2023), Halcestis (lo sguardo rivolto all’alto nella propria immolazione di tragedia, assorto o indagatore, 2022), Sarepide, tra mitologia e letteratura e sogno. Calde espressività e movimento vivificato dalla luce posta all’interno di copricapi dal sapore quattrocentesco e fiammingo, che riportano lo spettatore a un ampio tratto di Storia, entrambi costruttori di quella forte energia che scaturisce dall’opera. Un tempo antico, che piace qui ritrovare (ma lontano dal rétro e dalla nostalgia), dove gli inserti lignei accrescono e fortificano un’età, una ricerca in più, un confronto maggiore con il passato dei vecchi capolavori e dove la lampada inserita, che finisce con l’avvolgere da questo o da quell’altro lato, da un elemento in più che piomba dall’alto e rivela a poco a poco i tratti sottostanti, mostra una bellezza dai tratti femminili, dove ogni piega diventa poesia, tratti sospesi nella memoria, nella spiritualità di ognuno. Tratti perfetti ravvicinati a qualcosa di incompiuto ma egualmente vibrante, sinfonia di guance e di bocche che esprime sentimenti, emozioni, sguardi lontani e imperscrutabili.
Elio Rabbione
Nelle immagini, opere di Fulvia Steardo Fermi (“Metropoli”, 2020), di Gianalberto Righetti (“Frammenti Ricomposti 4”, Chaumont 2025), di Graziano Rey (“Frammenti sul verde”, 2024), di Cesare Iezzi (“Medeine”, 2023)
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

