Paolo Siccardi: dai teatri di guerra alle rotte dei migranti

Al Centro Interculturale della Città di Torino 

Il Centro Interculturale della Città di Torino di corso Taranto ospita giovedì 6 Novembre alle ore 18 l’evento “Dai teatri di guerra alle rotte dei migranti”. Partendo da alcuni scatti realizzati nell’arco della sua carriera, il giornalista e fotoreporter Paolo Siccardi racconta il suo percorso umano e professionale tra memorie, immagini e storie raccolte nelle zone di conflitto di tutto il mondo per dare voce a tutte quelle persone dimenticate dalla cronaca e cancellate dalla storia. Nell’arco di alcuni decenni Siccardi ha costruito il suo linguaggio fotografico con cui leggere e interpretare la realtà. Un linguaggio che diventata racconto di una lunga esperienza di fotoreporter. Il suo è un percorso umano e professionale che viaggia tra memoria, immagini e le storie raccolte nelle zone di guerra più calde del mondo, e che si riconosce da un obiettivo sempre al servizio di quell’umanità fatta di singole persone sovente dimenticate dalla cronaca e cancellate dalla storia. Realtà che conosce bene per avere a lungo frequentata come fotoreporter in quei luoghi dove tornavano, dopo l’ultimo conflitto mondiale, i terribili bagliori della guerra. Come Robert Capa, uno dei più grandi maestri della fotografia, sostenitore della tesi contenuta in una delle sue frasi più famose ( “Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino” ) anche lo sguardo di Siccardi è sempre stato il più vicino possibile alla realtà che voleva rappresentare, limitando al minimo i filtri tra fotografo e soggetto. Le sue foto sono spesso asciutte, centrate sulla sofferenza, la miseria e il caos che la guerra porta con sé. In fondo , nel suo lavoro, ha messo in pratica l’insegnamento di Henri Cartier-Bresson: “quello che un buon fotografo deve cercare di fare è mettere sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio”. Ed è ciò che ha fatto con il suo codice di scrittura per immagini, con uno stile e una sensibilità che l’ha distinto da molti altri che preferivano le velocissime spedizioni di due o tre giorni con molto denaro a disposizione, giubbotti antiproiettile in prestito e una buona dose di cinismo nella ricerca dello scoop a tutti i costi. La conferma è testimoniata dai tanti lavori, dalle mostre, dai reportage pubblicati sulle testate più prestigiose, da libri come il bellissimo e quasi introvabile Una guerra alla finestra, testo fotografico che documentava i suoi reportage a Sarajevo e nei Balcani più di trent’anni, edito dal Gruppo Abele.
Eros Bicic, giornalista nato a Pola a quel tempo corrispondente dall’estero per il Corriere della Sera, presentando quel volume di Paolo Siccardi, scriveva con parole quasi profetiche: “Soltanto fra molto tempo capiremo forse quanto la guerra nella ex Jugoslavia sia stata devastante per tutti noi. Anche per quelli che si credono fuori, lontani, appartenenti a un’altra civiltà, ad altri valori e destini. Allora comprenderemo forse che senza che ce ne fossimo resi conto, quegli orribili massacri, quell’immensa sofferenza della popolazione, quella violenza senza limiti, avevano sconvolto, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, il nostro modo di essere, il nostro concetto del bene e del male, la nostra sensibilità all’ingiustizia, la convinzione di essere forti nel bene e capaci di fermare il male. Allora, quando i tempi saranno probabilmente anche peggiori di quelli attuali, ci ricorderemo che, chi sa come, proprio la guerra jugoslava ci aveva abituati a convivere con l’orrore, ad accettarlo come un fatto quotidiano, quasi normale, senza più l’ambizione di ribellarsi. E capiremo che doveva essere proprio in questi anni che, distratti, abbiamo perso la nostra coscienza”. Paolo Siccardi, all’epoca trentenne fotoreporter con già all’attivo numerosi servizi e reportage in giro per il mondo, in quella sessantina di pagine con trentasette scatti che documentavano il dramma della gente nella ex Jugoslavia e in particolare a Sarajevo, interrogava le coscienze quasi in presa diretta, richiamando l’attenzione in quel 1993 sul conflitto che infuriava da quasi tre anni sull’altra sponda dell’Adriatico, nel tempo in cui Sarajevo nel cuore della Bosnia, la regione più jugoslava della terra degli Slavi del sud, era stretta d’assedio e si preparava al secondo, terribile inverno di sofferenze. L’occhio della sua macchina fotografica inquadrava la realtà, indagava la vita che resisteva testardamente alla violenza, scavava in quella tragedia dall’interno, si soffermava sulle istantanee della vita di tutti i giorni nella Sarajevo “amorosa che non si arrende” ( Liubavno Sarajevo se ne predaje ) come scriveva il poeta Izet Sarajlic. Da quel tempo e come allora le sue foto hanno documentato molte realtà, migrazioni e conflitti. I suoi scatti vanno guardati senza fretta per coglierne l’essenza. Come diceva Bicic “bisogna lasciare che quelle immagini entrino in noi da sole, senza forzature” per avvertire il dolore di cui sono impregnate, per cogliere il racconto “ dell’assurdità della sofferenza, della distruzione e dell’ingiustizia”. Un lavoro di decenni che narra il caos che produce morte e pulizia etnica, le migrazioni in cerca di speranza, cibo e pace per sfuggire alle violenze e alle carestie, le corse a perdifiato per sfuggire al tiro dei cecchini ai quattro angoli del mondo, le file per l’acqua e il pane ma anche i giochi dei bambini, la voglia di vivere che non si fa soffocare e prova a resistere in condizioni spesso oltre il limite, dal medio oriente al Dombass, dal Sud America all’Africa spesso dimenticata. Il suo lavoro e le immagini che ha scattato nel corso di una vita sono necessarie per aiutarci a comprendere e forse ( perché la speranza in fondo è davvero l’ultima a morire..) a diventare un poco migliori e meno disattenti su ciò che ci accade attorno. Sono scatti d’autore che rappresentano con la stessa forza il punto dove la cronaca e l’informazione incontrano l’arte perché è fondamentale riflettere su ciò che è stato evitando gli “sguardi indifferenti e bui” dei tanti, veramente troppi, che preferirono e preferiscono guardare da un’altra parte. In fondo è questa l’unica ragione etica nel lavoro di un buon fotoreporter.

Marco Travaglini

 

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