Auto in crisi, futuro incerto per l’economia: Torino rischia

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Il settore dell’automotive sta vivendo una fase di profonda trasformazione e incertezza, che a Torino e in Piemonte assume una valenza particolarmente delicata. L’area che per decenni è stata il cuore pulsante dell’industria automobilistica italiana, con la Fiat prima e poi con Stellantis, oggi affronta una crisi strutturale dovuta a una combinazione di fattori: la transizione verso l’elettrico, il rallentamento della domanda in Europa, la riorganizzazione delle strategie produttive globali e la perdita progressiva di occupazione.

Negli ultimi anni, la produzione automobilistica in Italia ha subito un calo costante, e il Piemonte ne è uno degli epicentri. I dati diffusi dai sindacati mostrano che Stellantis ha ridotto di diverse migliaia il numero di dipendenti nel Paese, con una parte consistente degli esuberi concentrata tra Torino e Mirafiori. Lo storico stabilimento torinese, simbolo del “miracolo industriale” del Novecento, è oggi al centro di un difficile processo di riconversione: la produzione della Fiat 500 elettrica, su cui si erano riposte molte speranze, non ha raggiunto i volumi attesi, e l’azienda ha dovuto fare ricorso a cassa integrazione e programmi di uscite volontarie per centinaia di lavoratori. Le linee produttive funzionano a ritmo ridotto e, in più occasioni, sono state sospese per mancanza di domanda.

Le cause di questa crisi sono molteplici. Da un lato, la transizione ecologica impone investimenti enormi per aggiornare impianti e competenze, mettendo in difficoltà i territori che per decenni hanno basato la loro forza su motori termici e componentistica tradizionale. Dall’altro, la concorrenza internazionale — in particolare dei produttori cinesi di veicoli elettrici a basso costo — sta erodendo quote di mercato, mentre l’Unione Europea si trova a dover bilanciare le politiche ambientali con la tutela della propria base industriale. A ciò si aggiunge la strategia di Stellantis, che tende a razionalizzare la produzione su scala europea, concentrando le catene di montaggio nei siti più competitivi e lasciando in secondo piano alcuni stabilimenti italiani.

Le ripercussioni per il Piemonte sono significative. Oltre agli effetti diretti sull’occupazione nelle fabbriche torinesi, si osservano difficoltà diffuse nella rete dei fornitori locali, composta da centinaia di piccole e medie imprese specializzate in componentistica meccanica, elettronica e servizi di supporto. Molte di queste aziende rischiano di non reggere l’urto della trasformazione se non riusciranno a riconvertire rapidamente le proprie produzioni. Tuttavia, la regione conserva un patrimonio di competenze tecnico-industriali e di ricerca di altissimo livello, sostenuto da poli universitari e centri di innovazione che potrebbero diventare un punto di forza nella filiera dell’elettrico, della mobilità sostenibile e delle tecnologie digitali applicate all’automotive.

Per evitare che la crisi si traduca in un declino irreversibile, occorre un impegno coordinato tra istituzioni, imprese e sistema formativo. Le priorità riguardano la riqualificazione dei lavoratori, il sostegno alla riconversione delle PMI, la creazione di infrastrutture per la produzione di batterie e componenti per veicoli elettrici, e una politica industriale capace di attrarre nuovi investimenti. Alcune iniziative in questa direzione sono già in corso, ma serviranno tempi rapidi e strategie condivise per restituire competitività a un comparto che ha costruito la storia economica e sociale del Piemonte.

La crisi dell’automotive torinese, insomma, non è solo la fine di un ciclo produttivo, ma il segnale di una transizione epocale. Se affrontata con visione e coraggio, potrebbe diventare l’occasione per ridisegnare il futuro industriale della regione, mantenendo viva una tradizione manifatturiera che ha dato al Paese alcuni dei suoi momenti più alti di innovazione e sviluppo.

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