La redenzione del colpevole: ma c’è uno spazio per la vittima?

Sugli schermi “Elisa”, un film che fa discutere

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Anche il suo precedente (2021) “Ariaferma” parlava di carceri, un chiuso carcere in via di dismissione dove si intrecciavano rapporti tra carcerati e carcerieri. Leonardo Di Costanzo (collaboratori alla sceneggiatura Bruno Oliviero e Valia Santella) con “Elisa”, presentato a Venezia in concorso, s’immerge in un’aria all’apparenza più salutare e fresca, laddove in nuove architetture, quasi grandi alberghi di montagna, trova l’ambientazione per un istituto sperimentale carcerario, in quel di Moncaldo in Svizzera, con ampi spazi per le detenute, lunghi corridoi invasi dal sole, tra fiabesche casette disseminate sulla montagna, solitari e tranquilli tragitti tra l’attività quotidiana e il riposo notturno, meditativi silenzi e piccoli dialoghi con la compagna di stanza, un’eccellenza universitaria in cui il criminologo Alaoui svolge quasi un corso per addentrarsi nella mente e nel passato delle detenute. Concentrandosi su quelli di Elisa – le basi del racconto stanno nel saggio di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali “Io volevo ucciderla”: vicenda trasposta sullo schermo ma realissima, il nome dell’omicida essendo Stefania e il luogo dei fatti la Brianza -, appunto, amara, stracolma di inquietudini che inquietano, al decimo anno della sua detenzione, gliene rimangono secondo la sentenza altrettanti, rea di quello che lungo le sedute non si dovrà più definire “il fatto”, ma chiamarlo per quello che realmente è, “un omicidio”. Una condanna per l’uccisione e per aver dato alle fiamme il corpo della sorella maggiore, tra sequestri, sotterfugi, inganni, falsi messaggi. Forse senza un un motivo, forse perché sempre e da sempre sottovalutata, rifiutata, messa all’angolo da una famiglia che anche l’ha caricata di troppe responsabilità.

Un percorso, tra criminologo e colpevole, che parte dalla denuncia da parte di lei di non ricordare nulla di quanto commesso: ma un percorso che procede altresì lentamente tra le ammissioni e i ricordi che affiorano in una serie di flashback, disseminati da Di Costanzo qua e là, con intelligente tessitura, in un continuo prendere coscienza, confrontarsi con il passato, guardare al proprio interno, inventarsi un futuro, aprire il proprio squarcio ancora oscuro. Frasi, sguardi, parole che aprono scenari, mentre la macchina da presa di Luca Bigazzi si chiude in primissimi piani che sono allo stesso tempo un rapporto e una lotta, pronti in contrappasso a spalancarsi nell’ampiezza degli ambienti interni, ed esterni in quelle riprese dall’alto a inquadrare le giravolte della strada che dovrebbe condurre alla struttura di ricovero. Il percorso di Elisa è fatto di apprensioni e di dolore, di alti e bassi, di ricadute e di momenti di nuova speranza – ed è una nuova, eccezionale prova di Barbara Ronchi, che si carica sulle spalle gran parte della storia e del film, in un ritratto che non si potrà dimenticare nei Nastri o nei David di fine stagione, un ritratto fatto di gesti e parole sospesi, di attimi che riempiono lo schermo, di occhi che ri-costruiscono una ferocia e un misfatto, che cercano aiuto, che esprimono appieno sentimenti e cacciano via una cecità per lasciare posto a una tentennante consapevolezza.

Panorami, luoghi di sole e luce, un lavoro in prospettiva, un percorso sempre più angusto di rieducazione: per una affermazione di “umanità”, ricordava Ronchi presentando il film al pubblico torinese nella sala del Nazionale, perché “non si ritorni al medioevo, ad un’idea esclusiva di vendetta”, auspicava il regista davanti allo stesso pubblico. D’accordo. Nel convincimento tuttavia che la giustizia debba chiamarsi giustizia. Ma in una sceneggiatura che alimenta a tratti il sospetto del farraginoso e della poca chiarezza, che soprattutto non le concede più spazio per l’affermazione di un’idea che a chi scrive pare sacrosanta, c’è un cameo di Valeria Golino, madre compostamente dolorosa, che non accusa (più) perché “lasciamo stare qui, non ci sono più parole” ma che racconta al criminologo di quel branco feroce di ragazzini che le ha rubato, con una serie di coltellate, un figlio e che adesso forse sono già liberi – una manciata di minuti, esile esile, che pare dire “è vero, ci siete anche voi vittime”, un guardare dalla parte opposta, dalla parte di chi ha perso e continua a perdere giorno dopo giorno, “perché volevo rappresentare il punto di vista delle vittime, proprio perché lo spettatore non lo trascuri.” Una goccia di nessun conto nel mare magnum (necessario) della redenzione. Nel cinema come nella quotidianità. Fatto non comune, di questi ultimi giorni anche, affidato a un giudice che oggi “assolve” dalla accusa di maltrattamenti un uomo che ha sfigurato la mente e lo spirito e il viso di una donna come le immagini dimostrano ad ognuno, all’uomo della strada come all’uomo di legge: e poco deve importare che un procuratore abbia presentato ricorso in Corto d’Appello. Si continua a rimanere sospesi, all’obbligo del perdono, a non guardare a fondo a un dolore che resta il primo e il più angosciante.

Elio Rabbione

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