“Io sono ancora qui” di Walter Salles
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
C’è molta allegria sulla spiaggia di Rio, a due passi dalla casa dei Facciola Paiva, una casa dove qualsiasi motivo è buono per festeggiare, dove si balla e si beve e si ride, accogliente e sempre aperta agli amici, la domestica che prepara piatti e tartine. Sotto il sole, sulla riva del mare, i ragazzi si buttano sulla pallavolo mentre le ragazze si bagnano il corpo di Coca cola per apparire più scure. A guardarlo così, sembra felice il Brasile, e ricco e innovativo. E libero di vivere. È l’inizio dei Settanta, nelle camere delle ragazze sono appese le locandine dei film dell’epoca, si gira in famiglia in super8, si cantano le canzoni di Caetano Veloso e di Gilberto Gil, il Cinema Novo si esprime attraverso i titoli di Glauber Rocha, anche l’architettura vive un periodo felice con le architetture e le innovazioni di Niemeyer. Ma in quella stessa capitale, come nel resto dell’immenso paese, tutto si fa scuro, regnano gli annientamenti e le sparizioni, la violenza e le morti di quanti sono contrari alla dittatura militare che nel ’64 aveva rovesciato un governo eletto democraticamente e che sarebbe rimasto al potere per più di vent’anni.
“Io sono ancora qui” è la storia di una famiglia e della scomparsa nel gennaio del ’71 di Rubens Paiva, marito e padre di cinque figli, ingegnere e attivista politico, ex deputato del Partito laburista del suo paese. È la storia che Walter Salles (“Central do Brasil”, “I diari della motocicletta” sulla gioventù del Che) ha tratto dal libro di memorie scritto una decina di anni fa dal figlio del desaparecido, Marcelo Rubens Paiva, premio per la miglior sceneggiatura a Venezia 2024, già Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico ad una immensa Fernanda Torres, in attesa della serata degli Oscar con le candidature per il miglior film, per il miglior film straniero e ancora per la protagonista. Una testimonianza che sembra arrivare tarda nei confronti della scomparsa di un uomo il cui corpo non venne mai ritrovato – le sepolture in fosse comuni e i lanci dagli elicotteri nell’oceano erano all’ordine del giorno – ma anche una necessità da parte di quello che fu un ragazzo in amicizia con i figli di quell’uomo e abituato a frequentare la loro casa. La casa dove irrompono, all’improvviso, oscurando immediatamente le finestre in un giorno di solare inverno, uomini che gli dicono di prepararsi, che li deve seguire per una semplice testimonianza e lui che dice tranquillo “un paio d’ore e sono di nuovo a casa”. Non lo rivedranno più. Anche la moglie Eunice e la figlia Eliana sono poco dopo prelevate e portate nelle celle di una caserma, questa per una notte soltanto, quella per dodici giorni, tra domande incessanti e tavolacci e formalità per cui non c’è da temere, tra le urla che provengono dalle stanze vicine e uomini che buttano secchiate d’acqua sui pavimenti a lavare il sangue. Al ritorno a casa, prima che i vestiti di Rubens siano dati via e prima che s’abbandoni quella casa che diventerà un ristorante, per cercarne una nuova a San Paolo, prima che si sia cancellata ogni speranza di un ritorno, non dovrà mai apparire la “tragedia”, i sorrisi di un tempo non dovranno mai scomparire, anche se lo chiede il regime che per una nuova immagine da distribuire vorrebbe tutti i superstiti almeno seriosi, no, rimarranno impressi quegli stessi sorrisi che abbiamo visto nelle tante fotografie che circolano nei tanti momenti, esposte o sfogliate o rimesse in grandi scatole, nulla deve cambiare, per la tranquillità sognatrice dei più piccoli, per la necessità di andare avanti, per la caparbietà che Eunice vive negli anni pur di arrivare a qualche risultato, pur di ottenere per il marito e per la famiglia un qualche riconoscimento, pur di coltivare una memoria che resti con tutto lo strazio intimo per sé, e per gli altri.
Sino all’ultimo festeggiamento, una fotografia anche lì da scattare, quando Eunice, ormai vittima dell’Alzheimer (è scomparsa nel 2018), rivede in un vecchio filmato che passa in televisione il volto del marito e i suoi occhi hanno un moto di felice stupore. Ogni attimo è trascorso incredibilmente su un percorso piano, rassicurante, aperto, dove le urla e la disperazione non hanno mai trovato posto. Salles ha voluto mantenere, tra storia privata e Storia pubblica, ogni tono sommesso, rinchiuso, lasciando alla macchina da presa, attraverso gli sguardi e i piccoli gesti, il compito di “accompagnare” un misfatto che non può non aver attraversato intere esistenze: le lacrime scorrono sulle guance, ma durano un attimo, vengono immediatamente cancellate, i singhiozzi e le urla e la disperazione stanno da altra parte. Forse questi silenzi non incontreranno i favori di molti dei giurati dell’Oscar, chissà, ma certo cominciamo fin da adesso a tifare per Fernanda Torres (negli ultimi fotogrammi Eunice è Fernanda Montenegro, sua madre nella vita e già indimenticabile interprete di “Central do Brasil”) che incarna e vive perfettamente, in ogni parte del corpo e della mente, nei piccoli segni premonitori della malattia e negli insperati traguardi, quella che fu la personale, richiusa “tragedia”, perché al fondo di tutto questo dire il termine deve essere comunque scritto, di Eunice Paiva.
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