Dove sta la felicità? Proviamo a chiederlo a Platone!

Il filosofo e saggista Simone Regazzoni racconterà questa sera, giovedì 19 Settembre, cos’era l’Accademia di Platone all’interno del programma Building Happiness.

Ritorna Building Happiness, il progetto ideato dalla Fondazione per l’Architettura di Torino che indaga sul binomio Architettura & Felicità volto a capire e a creare delle linee guida che permettano di progettare case e città felici. L’evento di questa sera è una lectio o forse una chiacchierata più o meno informale che vedrà Platone come protagonista. A spiegarci cosa era la sua accademia e come possiamo sperimentare gli effetti e la pratica, ci sarà il Professor Simone Regazzoni, filosofo, saggista e docente universitario. L’ho incontrato per parlare di felicità.

 

Buon pomeriggio Professore, partiamo dalla definizione di fisolosia. Che cos’è e cos’è la filosofia di massa, che lei insegna.

Dare una definizione di filosofia dipende da come la viviamo, perché ce ne sono moltissime. Se uno chiede che cos’è la sociologia o che cos’è la critica letteraria, ci sono delle risposte molto precise, sulla filosofia ne abbiamo tante quante sono i filosofi. Io condivido quella che era l’idea della Grecia antica, fondamentalmente di Platone, per cui la filosofia è un’arte della vita, è per me la definizione più bella e completa. Non è un discorso tecnico teorico su una questione specifica che ha un linguaggio tecnico per comunicare questa questione, è un modo di vivere, come intendi la vita e come l’affronti, sia dal punto di vista del pensiero, ma anche dal punto di vista proprio del rapporto tra pensiero e quello che fai quotidianamente e riguarda anche il tuo corpo.

Per la grecia antica, la filosofia è allenamento, al contempo, della mente e del corpo.

Ricorda molto la psicoanalisi, sembra quasi uno strumento terapeutico.

Ecco, è una terapia nel senso che riguarda il modo migliore per affrontare i colpi che arrivano dalla vita. Platone, e ne parleremo proprio domani, decide di aprire la sua scuola, che era la palestra dove si allenava da ragazzo. Lui era un atleta, non lo ricordiamo mai, ma lui era un atleta che ha vinto le Olimpiadi nella lotta e domani al Circolo dei lettori andremo anche a vedere fisicamente come era questo luogo.

 

Però non sveliamo troppo.

 

Allora la questione appunto è del parare i colpi della sorte, cioè essere allenati del corpo e dell’anima, perché è evidente che quando ci capitano delle cadute, dei fallimenti, o dei disamori, non sono questioni che ci colpiscono da un punto di vista puramente intellettuale. Le sentiamo nei sentimenti, quindi le sentiamo nel corpo, nello stomaco.  Platone direbbe che è come un pugno che ci prende allo stomaco, quindi non possiamo affrontarle solo teoricamente. Cercare di lavorare su tutte le parti di noi stessi è un modo per affrontare la vita nella maniera migliore possibile, e in questo senso la filosofia è terapeutica. Ci dà una certa forza, ma non la forza di non cadere, o la forza di non subire i colpi, ma la forza di rialzarsi.  Per Platone, come per altri filosofi antichi, non c’è modo per evitare né il male, né le sciagure, però ecco, la filosofia fa il punto su come come le affronti, e in questo senso allora sì è terapeutica, ma non è mai consolatoria.

Ma esiste la felicità?

La felicità è qualcosa di cui noi facciamo esperienza, ma il punto è che non ce ne accorgiamo.  E questa è la grande questione.  La poniamo sempre come la ricerca, qualcosa a cui agogniamo, e in realtà la felicità è una cosa molto più semplice. Diremmo, nel modo greco, sentire che la vita è un bene e che quel bene ci appartiene. Questa è per me la definizione della felicità, ed è una formula di Aristotele. Il problema è che noi spesso ci dimentichiamo di sentire la vita. Siamo talmente affaccendati a fare duemila cose, a procurarci oggetti, a interrogarci su come raggiungere una condizione migliore, che ci scappa dalle mani il filo della vita.

E si tratta di sentire quell’intensità del vivere, che può capitare anche in un momento di difficoltà. Basta un attimo, un raggio di sole che entra dalla finestra, e illumina un pezzo di pane sul tavolo, in un piatto, e tu esclami: che è bello!  Senti in quel momento qualcosa di positivo, senti la vita. Il punto è fare attenzione a tutto questo. Quando un grande pittore come Cézanne dipinge un oggetto di questo tipo, due persone al tavolo, un uomo con un bicchiere, ci sta dipingendo quello che è la felicità. Di tutto questo te ne accorgi quando la vita sta per finire. Allora, cosa rimpiangi? Non è che rimpiangi qualcosa di particolare, rimpiangi quel sentire lì. Ecco, per me la felicità è in quella misura del sentire e dell’essere consapevoli.

 

Building Happiness indaga su cosa rende felice una città. Se lei dovesse dirmi 3 elementi che contribuirebbero alla definizione di una città felice, quali sarebbero?

Anzitutto il verde. Viviamo in città sempre più fatte di ferro e pietra,  che tendono a espungere la vita vegetale. La città è uno spazio che lascia fuori, tra virgolette, la natura per essere uno spazio culturale. eppure sappiamo oggi quanto sia essenziale, per esempio, per le temperature, per la qualità dell’aria, ma anche per il nostro benessere psichico, vedere del verde, vedere dell’erba, vedere delle piante. Quindi per me le città del futuro devono avere questa centralità della vita vegetale. In secondo luogo, a partire da Aristotele, la polis è lo spazio dei viventi. Abbiamo visto durante il Covid, quando noi ci siamo ritirati nelle case, che altri viventi si riprendevano lo spazio della città. Abbiamo incontrato cervi, daini che si aggiravano per le città.

I delfini a Venezia…

Esatto. Questo ci dice quanto la nostra modalità di vivere sia respingente per gli altri viventi. Noi vogliamo una città ospitale anche agli altri viventi, il che renderebbe il luogo in cui viviamo più ricco. È una terapia di coesistenza, avere altri viventi più vicini. Quando qualcuno sente il bisogno di allontanarsi dalla città e andare in altri posti è perché sente questo bisogno di vicinanza con altri viventi. Sappiamo quanto ci fa bene la vicinanza con gli animali, non per niente esiste la pet therapy.

 

Il terzo elemento riguarda la mobilità. L’auto è uno degli oggetti più arcaici che abbiamo, un oggetto narcisistico di potenziamento dell’io. Girare in auto  in città è qualcosa di insensato, ci si infila nel traffico, ci si arrabbia con se stessi e con gli altri. Le auto nelle città sono uno strumento non funzionante, e da un punto di vista psichico un danno enorme perché diamo il peggio di noi. Bisogna ripensare a una nuova mobilità, come si sta ormai facendo in moltissime città in Italia. Diciamolo in modo un po’ brutale: vorrei una città senza auto, che oggi ci sembra qualcosa di impensabile, ma questo ci dice quanto è limitata la nostra capacità di desiderare. Se devo pensare veramente, allora penso in grande, e una città senza auto è l’ultimo tassello di una città veramente più ospitale, nonché un desiderio di felicità.

Parliamo di gentrification. Il fenomeno Air BB sembra essere a un punto di rottura. Quest’estate abbiamo assistito alle proteste degli abitanti di Barcellona che patiscono il turismo di massa, la mancanza di appartamenti per affitti a lungo termine e lo svuotamento dei centri abitati per lasciare spazio a un grande hotel. Come se ne esce?

In realtà questi processi non li possiamo governare. Air B&B non sparirà ma dobbiamo ripensare il rapporto con gli spazi e con il tempo. Questa modalità è quella di andare in un posto con la mentalità del villaggio turistico, le città diventano un villaggio turistico. Prima le due cose erano separate. Avevamo la vacanza da villaggio turistico e avevamo invece degli spazi nelle città per poterle frequentare. Oggi le due cose si stanno sovrapponendo. Quando è che finirà tutto questo? Il rischio è che non c’è più il luogo che desideriamo vedere. Questa trasformazione implica un effetto distruttivo sull’economia di una città che si trasforma in uno spazio vuoto.

 

Questi processi in realtà poi troveranno il loro limite nella loro autosussistenza. Il problema è che i processi possono arrivare da soli al loro punto di esaurimento o forse ce ne possiamo accorgere culturalmente. Culturalmente dovremmo fare un lavoro davvero a monte su che cos’è il turismo, su cosa significa andare in un posto, che cosa vogliamo davvero vedere e che cosa vogliamo essere. Il problema secondo me del nostro tempo è che ci stiamo veramente impoverendo dal punto di vista del linguaggio, della cultura, della capacità di immaginare. Quindi procediamo con piccoli schemi che applichiamo. Nelle città che diventano un grande villaggio turistico  si procede senza visione, senza immaginario, senza respiro culturale. A Barcellona questo processo ha raggiunto il suo limite, infatti la gente ha iniziato a ribellarsi. E forse, invece di al punto di rottura, riflettiamo su come possiamo intervenire.

A Milano invece il caro affetti sta piegando chiunque abbia bisogno di recarsi in città per studio o lavoro. Cosa succede e come si risolve questa situazione?

Io Milano la frequento poco, l’ho frequentata quando insegnavo, e non la amo moltissimo. Nella mia città, vivo nella periferia verde, e cerco spazi di questo tipo. Da una città come Milano bisogna fuggire, non c’è altro da fare, perché il rischio è quello di ritrovarsi in una città nevrotica, con tutte le malattie dell’animo contemporaneo, e da quello spazio lì non si può che fuggire per non subirne gli effetti negativi. Se parli con  amici milanesi, parlano male di Milano, e la colpa è del modo di vivere, nel senso proprio di abitudini, del modo di fare, del rapporto tra lavoro e tempo libero. C’è una politica culturale che andrebbe totalmente cambiata, altrimenti l’unica soluzione è la fuga, l’abbandono di quella città oppure arriviamo ai processi che incontrano il loro limite, dove la gente va via così come è andata via dalle grandi città in un certo momento negli Stati Uniti.  Quell’idea di città che è stata creata tantissimi anni fa viene dal Medio Oriente e arriva fino a noi, ma oggi incontra davvero il suo limite, ci sarebbe anche da domandarsi, abbiamo ancora bisogno della città? Il modello di città che conosciamo è superato poiché oggi abbiamo le città che soffocano, città ormai invivibili.

Torino corre lo stesso rischio di Barcellona e Milano?

Non so, è come se ci fosse qualcosa di arcaico in Torino, un’eleganza arcaica, che non si lascia afferrare e sedurre. Milano e i milanesi per primi si sono lasciati sedurre da questa modalità e adesso ne subiscono le conseguenze. In Torino c’è come un fuoco di diffidenza che sento ancora verso questa modalità, come del resto Genova. Genova è una città che conserva il suo spirito arcaico, di contaminazione, quindi il problema non lo sento minimamente.

 

Lei mi sta dando una nuova chiave di lettura di Torino. Io ho sempre patito l’essere sempre un passo dietro Milano, quasi, mi passi il termine, più provinciale o “bogia nen” come diciamo da queste parti. Ma forse questo restare un passo indietro è la strategia giusta per mantenere la propria autenticità?

 

Questo è il mio gusto. Mi piace essere un po’ in contrattempo sui tempi, Nietzsche diceva che un certo anacronismo sui tempi ci dà una prospettiva, una capacità di pensare, di fermarsi un attimo. Qui non mi piace essere proprio contemporaneo, perfettamente contemporaneo, perfettamente al passo coi tempi. Un passo indietro non sto malissimo, quindi Torino, Genova io le apprezzo ancora moltissimo.

Questa sera lei parlerà di Accademia, raccontando quella che era l’Accademia per Platone: palestra per allenare mente e corpo. Esiste un luogo cosi e, se si, dove? Senza svelare troppo.

 

Io collaboro con la scuola Holden, faccio spesso corsi da loro, e ho collaborato con il Circolo dei Lettori, e sia Holden sia il Circolo dei Lettori, che ringrazio, hanno promosso qualcosa che rievoca proprio quello spirito e quella materialità dell’accademia. Siamo abituati a pensare agli spazi del sapere come una classe con sedie su cui ti siedi, col docente davanti. Per Platone e per il greco non era così. Vi erano spazi dove ci si muoveva, ci si allenava fisicamente, si dialogava, e le cose erano in continuum, proprio perché sapevano già quello che le neuroscienze ci dicono oggi: la postura è un modo di pensare, cambiare postura è un nuovo modo di pensare. Al Circolo dei lettori di Torino abbiamo fatto una serie frequentatissima di lezioni all’aperto al Parco del Valentino, facendo insieme allenamento e filosofia.

 

Alla Holden ho fatto molte lezioni dove sono stati eliminati banchi e sedie, dove eravamo scalzi in aula e si facevano una serie di movimenti o di esercizi e al contempo si lavorava sulla scrittura e sulla lettura. Questo all’inizio può sembrare un po’ disturbante, in realtà è sempre un modo di interrogare gli spazi della nostra città.  

 

Dove è scritto che un’accademia, una scuola, un’università debbano essere strutturate solo in un certo modo? Quello è un modello che ci viene dal mondo ecclesiastico, dove ci sono i banchi dei fedeli e il prete ex cathedra che fa la predica. Certo ci può essere anche quello, ma si può anche fare lezioni senza fare la predica e usando il corpo e tutte le sue potenzialità. Questo significa mettere in moto altre forze per scrivere, per pensare, per elaborare concetti. Stasera parleremo del rapporto tra spazi architettonici e innovazione nel pensiero.


Lori Barozzino

 

Per tutte le info sul progetto BUILDING HAPPINESS

Building Happiness – Fondazione per l’architettura / Torino (fondazioneperlarchitettura.it)

 

Evento di questa sera: Giovedì 19 settembre, ore 18.30

Circolo dei lettori, via Bogino 9, Torino. 

Prenotazione consigliata all’email info@circololettori.it

 

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