L’artista iraniana Bahar Heidarzade tra fughe e dolori e ricordi

Dieci anni” alla Galleria Riccardo Costantini Contemporary

Ha abbandonato il proprio paese a ventisei anni Bahar Heidarzade, quell’Iran in cui non può esprimere una propria opinione, in cui le è impedito un accenno di trucco o un abito, in cui le è proibito studiare musica o ballare o cantare, dove non può togliere l’hijab, anzi più volte è arrestata per il modo in cui lo indossa. Nel 2007 si trasferisce in Armenia e successivamente in India: ma è l’Italia che raggiunge sei anni dopo, scegliendo Torino per quelle montagne – dice – “che alle spalle della città ricorda i luoghi dove sono nata e ho vissuto”, s’iscrive all’Accademia Albertina frequentando il corso di Pittura. Sperimentando differenti tecniche pittoriche e linguaggi differenti d’espressione, tra pittura installazioni fotografia e performance dà il via a una produzione artistica che la porterà a esporre al torinese Palazzo Barolo, a Venezia e Genova, alla Fondazione Sandretto e al Castello di Govone, a Paratissima e al Castello Scaligero di Malcesine.

Sino al 22 settembre (con chiusura per l’intero mese di agosto), Heidarzade espone alla Riccardo Costantini Contemporary di via Goito 8 a Torino, la mostra s’intitola “Dieci anni”, dieci anni incastonati in una vita, accompagnata dalla cura di Elena Radovix. Che introduce e parla nel nome dell’artista: “Può la memoria riemergere da un passato mai raccontato? Quasi fosse materica e onnipresente alla vita di ognuno. Taci, non racconti, sembra che tutto passi… ti illudi che tutto passi e mentre continui il cammino della tua vita, improvvisamente nel lacerante silenzio, qualcosa in te urla.” E allora sono ricordi e visi e momenti che affiorano lentamente e poi si spalancano, sono immagini ed esperienze che ritornano, che sono antidoto ai dolori, sono fantasmi che si ripresentano alla mente e ai quali tu devi con impellenza restituire un luogo e un tempo. Prendi coscienza di una consapevolezza, la necessità d’esprimere un ricordo attraverso gli acrilici e la tecnica mista, attraverso il leggero magma cromatico che s’imprime, il colore e il gesso e la cera, il colore che si libera in estrema libertà, finché la tela si riempie, grande o quasi impercettibile nella vasta parete, senza più ritegno, dentro una liberazione ricercata per anni. Ma sono anche ricordi difficilmente tollerabili, facce su cui è meglio stendere un largo tratto di colore blu, a nascondere, a dimenticare, a fuggire; non soltanto dipinti ma fotografie in bianco e nero (ma sono anche anfratti forse d’abitazioni: altro tempo, altro ricordo, altra dolorosa suggestione) di donne e bambini (“Memorie”), sono personaggi giovanili che sembrano materializzarsi e prendere consistenza, sono frazioni, frammenti inseriti nella tela, sono visi che si fa di tutto per camuffare, incappucciati e divenuti anonimi, centrati con il loro colore in una cornice bianca.

Non sempre di facile lettura, il lavoro di Heidarzade tuttavia affascina, ti conduce per mano, senza forzature ma con garbo, come è garbata Bahar quando si presenta, si fa ricerca all’occhio di chi guarda e ti spinge al convincimento, lavoro rarefatto, sospeso, evanescente e senza tempo, anche se per l’artista quel tempo è ben determinato. Ci sentiamo obbligati a confrontarci, per un attimo a entrare in quelle immagini e in quei ricordi, tutti e senza distinzione, pensare a una terra e a un affetto abbandonati, partecipi di una verità (troppo?) lontana da noi, un lavoro che necessita “della nostra empatia, di silenzio, di ascolto”. Arte e vita s’incrociano, l’uno entra nel territorio dell’altra, mentre “in questo processo di condivisione l’artista si espone in tutta la sua fragilità e forza enigmatica coinvolgendoci in una profonda riflessione umana, a noi il compito di continuare la narrazione con profondo rispetto”.

Bahar da quando ha lasciato l’Iran, non vi è più tornata.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcune opere di Bahar Heidarzade.

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