“Mi chiamo Giovanna, amo il cinema immensamente e tra queste pagine proverò a raccontartelo, cercando di portarti per mano in un viaggio che può essere breve o lunghissimo, istantaneo o eterno.” Dimenticate la diva, ancor più la diva capricciosa, e pensate piuttosto ad una diligente quanto appassionata allieva che sottoponga ad un pubblico di amici, e di quanti abbiano seguito sino a oggi il suo percorso, quella relazione a cui tanto tiene. E dire che con il suo David di Donatello, con i 4 Nastri d’argento, con i 3 Globi d’oro e i 2 Ciak d’oro, i due premi Flaiano, la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Venezia (grazie alla “Bestia nel cuore”, Cristina Comencini regista), con il riconoscimento prestigioso da parte del National Society of Film Critics Award, l’associazione dei critici cinematografici statunitensi, a ripassare i tanti ritratti femminili portati sullo schermo, Giovanna Mezzogiorno ne avrebbe per tirarsela. E invece niente. È lì, sorridente, unico vezzo il continuo rigirarsi all’indietro la gran massa di capelli scuri, nell’anno della scadenza dei cinquanta, a portare sotto i riflettori della saletta conferenze della Mole, questo suo lungo componimento che è il libro “Ti racconto il mio cinema”, una spiegazione più che un tranquillo racconto, edito da Mondadori, in compagnia di Gabriele Molinari, vicepresidente del Museo Nazionale del Cinema. Non è un libro autobiografico ma necessariamente i ricordi personali c’entrano, è il racconto di chi fa cinema al di qua o al di là dello schermo, della bellezza di una sceneggiatura e dell’esattezza che deve avere in sé, dell’importanza di un montaggio capace di sovvertire una storia, è il rispetto per le troupe, per quanti stanno fuori dello schermo (quei titoli di coda che nessuno si ferma mai a leggere), per gli operatori (Giovanna ne ha scelto uno ad un certo punto della vita che è il padre dei suoi due gemelli), per i costumisti, per il trucco e parrucco, per le tante comparse che a volte dall’alba aspettano di girare.
Parte da lontano Mezzogiorno, l’intento è pressoché pedagogico (“il libro me lo hanno richiesto per i ragazzi – “dagli 11 anni”, ti avvertono dalla casa editrice -, chiaro che io speri che il pubblico s’allarghi”), parla della camera oscura di Leonardo, dei dagherrotipi, della lanterna magica, delle figurine ritagliate e portate a scorrere in un movimento continuo, parla di Meliès e della luna. L’approccio non è stato facile, immediato (“mi sono messa le mani nei capelli”), poi tutto è sembrato chiarirsi. “Amo il cinema, sono andata sul mio primo set che avevo cinque anni, era il ’79, mio padre girava con Depardieu e una Nastassja Kinski di una bellezza sconvolgente. Erano gli anni della ricchezza di Cinecittà, di quegli stessi studi “rubati” poi dalla televisione ma che adesso, a poco a poco, anche se c’è ancora parecchio da fare, ci stiamo riprendendo. Erano gli anni in cui vedevo gli attrezzisti costruire con i loro spostamenti delle nuove prospettive, oggi è sufficiente uno screen e in un attimo ti ritrovi lontano chilometri e chilometri da dove eri sino a quel momento. Erano gli anni in cui esisteva la pellicola e a sera si controllava il girato del giorno, magari per cestinarne via gran parte, buttando all’aria ore e ore di impegno e fatica, pezzi di pellicola calpestati che non sarebbero serviti più a nulla. Oggi il digitale fissa in un attimo tutto quanto il girato”.
È chiaro che la nostalgia non può non farsi largo nell’ora e più di chiacchierata. “Se oggi mi mandano una sceneggiatura per mail, io vado subito dal tabaccaio a farmela stampare, voglio leggermela sul foglio di carta, sono stata abituata fin da piccola a veder girare copioni in casa mia, pile di copioni che sarebbero poi stati utilizzati o messi da parte definitivamente, ci disegnavo sopra io ai copioni di mio padre.” Torna al rispetto per le maestranze, “ricordo le tante ore di make up per la Fermina Daza dell’”Amore ai tempi del colera”, ricordo i ritmi, quella disponibilità che io mi sono sempre imposta. Certo però anch’io voglio la mia parte”. Durante la lavorazione di “Vincere”, il sofferto ruolo di Ida Dalser, amante prima e rinchiusa in manicomio con il figlio poi da Mussolini, una lunga scena e otto pagine di copione: “Non si poteva girare con campo e controcampo, ne ero sicura, come era stato deciso. Non sono andata da Bellocchio, inviperita sono andata di mattina presto dal direttore della fotografia e da quanti gli stavano intorno, prima riprendete me, mi lasciate il mio monologo dall’inizio alla fine e poi riprendete quelli che stanno in opposto a me. Così è stato fatto e Bellocchio ha accettato.”
Una diva se ne starebbe chiusa nel proprio camerino, aspettando il ciak. Mezzogiorno sembra ancora oggi preoccuparsi di quanto le sta intorno: “Ma avete in mente che cosa voglia dire girare un film in costume, come “Vincere”, proprio qui, nel centro di Torino? Eliminare le insegne, bloccare il traffico e ogni suono di macchine e ambulanze, convocare le comparse che dovranno essere vestite e truccate, un vero e proprio “formicaio”. Significa far viaggiare un intero set, una sorta di famiglia che per alcune settimane dovrà vivere insieme.” Come in ”Effetto notte” di Truffaut, con tanti alti e bassi.
Poi altri ricordi, tra le libertà che un’attrice sente di doversi prendere (“le didascalie le seguo ma sempre ci deve essere un qualcosa di cui non sono a conoscenza”), Michele Placido che “con nonchalance devastante” le viene a dire prima di girare che ha completamente cambiato la scena di “Del perduto amore”, in un momento a due essere rapita ad ascoltare le battute di Luigi Lo Cascio nella scena più importante della “Bestia nel cuore” (“perché anche in quel momento mi stava insegnando qualcosa”), il percorso fatto con Sergio Rubini, “forse il regista che mi ha dato di più”, l’esperienza americana con Los Angeles che non l’ha certamente fatta impazzire. E molto ancora. Con un’annotazione finale intorno al Tempo e la sua importanza, la responsabilità non soltanto nel non farsi mai attendere dagli altri ma soprattutto con la consapevolezza che nell’attesa di girare anche l’attore perde energie, quella concentrazione che non sarà più in grado di ritrovare.
Elio Rabbione
Nelle immagini: Giovanna Mezzogiorno (foto di Saverio Ferragina) e la copertina del suo libro; scene tratte da “Vincere” di Marco Bellocchio e da “La bestia nel cuore” di Cristina Comencini.
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