“Ivo Saglietti. Lo sguardo nomade”. Al Museo del Risorgimento la prima retrospettiva del grande fotografo

“Nomade” e ribelle, una vita a raccontare gli ultimi del mondo

Fino al 28 gennaio 2024

… Quando si dice … il destino! E nel destino Ivo Saglietti ci credeva. Eccome, se ci credeva! “Ho aperto gli occhi – scriveva – nella luce del Mediterraneo, a Tolone, nel sud  della Francia, dove, se lo guardi a lungo, il sole diventa un cerchio nero. Credo che il primo sguardo determini anche un destino: quasi sicuramente è grazie a questa luce che sono diventato fotografo”. E di “destino” gli parlava anche l’amico scrittore Paolo Rumiz“Amico mio, alla fotografia hai sempre chiesto qualcosa che va molto oltre gli effetti speciali, qualcosa  che si chiama destino”. Già, il destino. Ognuno di noi ha il suo, si dice. Ed è un susseguirsi di eventi che ti accompagnano, senza vie d’uscita, per tutta la vita. E a volta ti giocano anche brutti scherzi che sarebbe bene non accadessero. In forme inaccettabili. Crudeli. Come quella, per un artista, di trasformare l’omaggio di una mostra a lui dedicata nella sua prima “retrospettiva”. La prima mostra del “dopo”. E’ il caso proprio di Ivo Saglietti (Tolone, 1948 – Genova, 2023), scomparso il 2 dicembre scorso, a poco più di una settimana dall’avvio della personale a lui dedicata nella “Manica” della Camera Italiana al “Museo Nazionale del Risorgimento” di Torino.

Personale divenuta dunque (per destino!) “mini-retrospettiva” volta ad omaggiare, fino a domenica 28 gennaio prossimo“la storia professionale dell’artista entrata a titolo definitivo nel Pantheon che raccoglie i grandi fotoreporter del nostro Paese”. Parole accorate, queste di Michele Ruggiero, presidente de “La Porta di Vetro” (impegnata dal 2013 in importanti attività di social engagement) promotrice della mostra – è ormai la quarta – realizzata con la curatela di Tiziana Bonomo (“ArtPhotò”), in collaborazione con il “Consiglio Regionale del Piemonte”, il “Comitato Diritti Umani e Civili” e “Intesa San Paolo”. 53 sono gli scatti esposti, tutti in bianco e nero (cifra linguistica ideale per esaltare i contrasti formali e quell’arsura di luce che impregna a fondo ogni immagine), quasi tutti di piccolo formato all’interno dei passepartout e incorniciati di nero, come la grande “scuola francese” (da Saglietti intensamente amata) ha sempre insegnato.

In parete troviamo un saggio, che va dagli anni ’80 al 2018, di un’importante carriera professionale ((ben tre i “World Press Photo Award” vinti, oltre ad altri numerosi e prestigiosi riconoscimenti) che si srotola per oltre quarant’anni, dall’inizio delle rivolte in Centro America – Cile e Perù – ad Haiti e ancora dal vicino Oriente al “Mar Musa” in Siria, dove Ivo incontra padre Paolo Dall’Oglio con cui stringe un sodalizio importante ed una complicità di idee sfociata in alcune mirabili foto presenti in mostra (“Padre Dall’Oglio sale nella luce verso la montagna”) e nel libro (negli anni ne ha realizzati otto) “Sotto la tenda di Abramo” (Peliti Editore), prima del rapimento nel 2013 del gesuita italiano mai più ricomparso. Si tratta di lavori in assignement come quelli per il “New York Times Magazine”, “Time”, “Der Spiegel”, “Newsweek” e collaborazioni con prestigiose agenzie di fotogiornalismo come “Sipa Press”, “Stern” e “Zeitenspiegel”. Ma ad Ivo non piaceva il lavoro “mordi e fuggi” sottoposto ai ritmi frenetici della cronaca. Da “cavallo solitario” e di gran razza, amava – l’immancabile Leica sempre a portata di scatto – la “lentezza”. Diceva: “La lentezza è un fondamento della fotografia …  Quando arrivo sul luogo del mio lavoro, il primo giorno raramente estraggo la macchina fotografica. Avanzo torno indietro, passeggio, giro intorno, osservo, prendo appunti. Tutto con grande lentezza, lasciandomi penetrare dalle sensazioni, cercando di entrare in sintonia con i luoghi e con le persone”. Mirabili, in questo senso, la foto dei “Braceros” a Cuba o quella dell’infermiera che bacia sulla fronte, sempre a Cuba, un bambino vittima del disastro di Chernobyl o ancora a Srebrenica l’immagine delle due donne vestite di bianco, con il velo sul capo, chinate in preghiera sopra le bare dei propri cari, premio “World Press Photo” 2010. Cristallizzazioni di sofferenze e dolori e tragedie indicibili. Vuote però di rabbia, di urla sguaiate, di esibizionismi rancorosi.

La fotografia, secondo Saglietti, non ha nulla da “dimostrare”, ma tanto da “mostrare”. Scrive Tiziana Bonomo:  “Neri intensi, ombre lunghe, colpi di luce muovono le magie che Saglietti usa per commuoverci. In lui sono inseparabili amore, disperazione e speranza”. E coraggio. Tanto. Quel coraggio “che non si  esprime soltanto – conclude Michele Ruggiero – nella ricerca di un bianco e nero che vuole snidare l’indifferenza dalle nostre coscienze, ma nell’amore che esprime per gli ultimi, che sono anche i più deboli”.

Gianni Milani

 

“Ivo Saglietti. Lo sguardo nomade”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimentotorino.it

Fino al 28 gennaio 2024

Orari: dal mart. alla dom. 10/18

Nelle foto: “Braceros il giorno della paga”, Repubblica Domenicana, 1993; “Padre Dall’Oglio sale nella luce verso la montagna”, Mar Musa – Siria, 2002; “La città dei bambini”, Cuba, 1993; “Due donne piangono dopo aver trovato le bare dei propri cari”, Srebrenica-Potočari (Bosnia ed Erzegovina), 2009

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