Roman Polanski o la perdita del senno

The Palace” da Venezia ai nostri schermi

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Ci vuol poco a perdere la faccia, basta un passo falso: e Roman Polanski quel passo l’ha fatto. È quasi impensabile che un regista che ci ha dato, nella sua lunga storia, opere come “Chinatown” e “Frantic”, soprattutto come “Il pianista” e “L’ufficiale e la spia” (il penultimo suo titolo, soltanto quattro anni fa), abbia potuto mettersi ad un tavolo e buttar giù con gli amici Jerzy Skolimowski e la di lui consorte Ewa Piaskowska un fascio di gag e di personaggi tanto squinternati: eppure è successo. Uno tende ad aggiustare il tiro: ha voluto un ritratto pieno di cattiveria contro un genere umano che gli sta sempre più stretto. I mezzi da usare dovevano essere altri, ben diversi, non raffazzonati, mai esclusivamente volgari, mai privi di un briciolo di sacrosanta eleganza. Mai privi di quelle invenzioni di cui si deve cibare un buon film: e qui siamo al digiuno più completo. Comicità? Mi pare debba essere messa su altri binari.

The Palace” (presentato a Venezia vuoi per la benevolenza del direttore Alberto Barbera vuoi per le spinte insistenze del produttore Luca Barbareschi, anche attore che offende con quella patacca sul naso il Nicholson di “Chinatown”) è ambientato a Gstaad la notte che è il cambio tra il Novecento e il nuovo Millennio. Nel lussuoso quanto accogliente albergo del titolo (gli onori di casa li fanno il maître Oliver Masucci e il suo fido concièrge Fortunato Cerlino) “si scarica” una frotta di: attore porno immortalato nella mente (?) delle signore per le misure ragguardevoli del suo membro, gruppo di russi con vagonata di valige piene di denaro da nascondere immediatamente in un bunker bellico e stuolo di escort da accontentare, blasonata con cagnetto al seguito problematico nelle proprie minuscole defecazioni, infido lestofante con parrucchino pronto a ripudiare un figlio e la di lui moglie e prole, arzillo centenario con giovane e debordante moglie che nell’anniversario del matrimonio pensa bene di porgere in dono alla suddetta un altrettanto arzillo pinguino, osannato chirurgo estetico che all’occorrenza non rifiuta di diventare veterinario, madamazze rifatte che sfoderano a fatica faticosi sorrisi. Siamo a mezza strada tra il trash più sbandierato e il cinepanettone di un Neri Parenti nostrano già andato a male. Siamo nello svolgersi faticoso di episodietto dopo episodietto, siamo alla barzelletta da caserma, siamo in preda alla stanchezza di un maestro del cinema novantenne, che deve per un momento aver messo da parte la maestria e il senno, siamo di fronte al max dello spiritoso con le cameriere che disfano montagne di lenzuola alla ricerca della cacca del minuscolo quadrupede da analizzare. Siamo di fronte al rivoluzionario, forse qualcuno pretenderebbe, con le cameriere di cui sopra intente a intonare con i compagni russi l’”Internazionale”, mentre le tivù trasmettono l’abbandono di un Eltsin non propriamente lucido e il primo saluto di un Putin che inneggia alla democrazia e alla libertà. L’ultimo fotogramma sfoderato da Polanski è la trovata perfetta intesa sessuale tra il pinguino e il cagnolino: a scuola mi insegnarono “Tantoque bonus dormitat Homerus”, secondo il verso di Orazio. Rispolveriamolo per il Nostro. Della combricola, per pagare tasse e bollette della luce con più tranquillità, Fanny Ardant che fu con Truffaut, John Cleese dei furono Monty Python, Joaquim de Almeida che i Taviani abbracciarono, Mickey Rourke che in un lontanissimo passato frequentò Coppola e Cimino e Lyne.

Dimenticavo: lunedì scorso, allo spettacolo preserale, nella sala due dell’Ambrosio (un 190 posti all’incirca), mi sono ritrovato solo, unico spettatore. Davanti a uno schermo che mi è parso più vuoto della sala. Un magone per un amante di quello che fu il cinema d’autore.

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