Le incertezze narrative e registiche di una triste “Felicità”

Sugli schermi l’opera prima di Micaela Ramazzotti

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Gruppo di famiglia (sgangherata) in un interno. Che è uno di quelli infossati nei tanti serpentoni di pareti e balconi tutti eguali della periferia romana, la famiglia è quella di Desirè (“con l’accento”, ci tiene a precisare), ragazza dolce e “strana”, parrucchiera sui tanti set cinematografici della capitale, detta anche “la bicicletta” perché “tutti ci hanno fatto un giro”. Malinconica e per tutti rassicurante, volgarotta, dolce e perdente, non soltanto perché l’attore di turno, nel chiuso della roulotte, prima del ciak, riesce per l’ennesima volta ad approfittarsene: ma perché continua a essere vittima di una coppia di genitori che non fa altro che rinfacciarle fatti e misfatti di una vita, egoista, ricattatoria, con un padre che la sfrutta economicamente (“se non ci aiutiamo tra noialtri”) e una madre pronta a spiattellarle qualsiasi mancato appoggio, cieca come una talpa di quanto stia succedendo in casa sua. Vittima, Desirè, anche di quel professore universitario che l’ha scelta e che dice di amarla, che la porta alle cene chic tra colleghi dove la figuraccia è sempre servita tra tentativi di discorsi e storpiature di parole: una relazione che tra sorrisi e litigate resta in piedi con i continui rattoppi erotici, immediati, frustranti, assurdi ma per entrambi inevitabili. Il suo unico scopo di affetto e di protezione è il fratello Claudio – una pioggia di “Cla’” per il gran romanesco, a tratti incomprensibile, che circola doverosamente nella storia -, ragazzo problematico e depresso, vagonate di pasticche, senza un futuro, “strano”, sull’alterino della madre che continua a stirargli la camicia bianca, pronta per un lavoro che lui nemmeno riesce a fare.

Felicità” è l’opera prima (tristissima e incerta) di Micaela Ramazzotti, scritta con le amiche Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, che a Venezia ha vinto il Premio Spettatori nella sezione Orizzonti. Se la è cucita addosso la sua Desirè, le vuole bene, la protegge, la compatisce, la comprende a differenza di quanto furbescamente e malvagiamente non facciano gli altri: ma siccome è tutta sua, una maschera che ormai conosciamo a menadito, altro non è, senza un briciolo di nuova invenzione, che l’ultima tappa – per ora, ne siamo sicuri – di un vecchio percorso, partito da “Tutta la vita davanti” sino a “Gli anni più belli”, passando attraverso piccoli capolavori come “La pazza gioia” e “Vivere” e “La tenerezza”. Le donne, soprattutto, di Paolo Virzì. Una donna squinternata, di animo buono ma strapazzata, sempre affannata, di corsa di qua e di là, sciupata, vicina alla disperazione e al baratro ma in qualche modo pronta a rialzarsi, qualsiasi sia il modo, semplice in quella vita che tira avanti a fatica. Prevedibili personaggio e attrice, senza equivoci, il che in non poche situazioni sminuisce quell’affetto e anche quell’autenticità che Ramazzotti ha fatto di tutto per infonderle.

Si sarebbe tentati di dire che ha pensato troppo a se stessa, mettendo in ombra gli altri, lasciandoli ai luoghi comuni e a certe caricature di troppo, a certi sopra le righe, come è il padre Max Tortora, nella sua sguaiataggine, in quella scena d’ospedale davanti al letto dell’immigrato, nel redde rationem nello studio della psicologa, nell’incontro burrascoso con il mancato genero, con lo sgambetto che il regista Veronesi gli tende tra le maestranze del film. Intenzioni di Ramazzotti, va bene, ma una briglia più serrata avrebbe giovato al racconto e al personaggio. Più a suo agio Sergio Rubini nelle frustrazioni del suo professore, nella ribellione che s’accende su altre scelte; da elogiare il fratello Matteo Olivetti, anche se il suo Claudio (rimaniamo di più di fronte allo svilupparsi dei rapporti con Desirè ma della malattia sappiamo in definitiva poco, con accenni sempre eguali) più di altri rientra nei difetti del film, le cose non dette, i personaggi non sviluppati abbastanza, e poi le volgarità disseminate troppo spesso, le scene interrotte di fretta. Di prim’ordine, al contrario, le persone di cui l’autrice ha saputo e voluto circondarsi, da Jacopo Quadri, per il montaggio, a Luca Bigazzi per la fotografia, a Carlo Virzì per le musiche.

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