La lunga strada di Seydou, attraverso il deserto e il mare

Nelle sale “Io, capitano”, miglior regia a Venezia a Matteo Garrone

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

“Lo cunto de li cunti” dei nostri tempi, incessante, pressoché quotidiano, fatto di approdi e di tragedie, è quello delle migrazioni. Lo ha voluto affrontare anche Matteo Garrone, arrivato alla sua decima opera, lasciando doverosamente il clima baroccheggiante e cromaticamente sfarzoso del suo “Racconto dei racconti” (sono passati otto anni) e semmai immergendosi in un realismo pieno dove trova spazio la semplicità coniugata con i soprusi e le violenze (che furono già di “Dogman”) e dove possono, come in un miraggio lattiginoso e tremolante, nascere dagli occhi di un ingenuo ragazzo sparuti sprazzi fiabeschi e leggeri, di rappacificazione con il mondo e con se stesso (come già fu in “Pinocchio”). Una vicenda lineare, prevedibile nel suo svolgersi, per quella memoria che abbiamo dalle tante cronache, qui vista dall’interno (“una sorta di controcampo, rispetto a quel che siamo abituati a vedere qui in Europa”, dice Garrone), con gli occhi dei diretti protagonisti, con le testimonianze di quanti li hanno preceduti, necessariamente riscrivendo ogni cosa il regista e i suoi collaboratori Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri nonché Massimo Ceccherini, scavezzacollo della compagine pieraccioniana e già impegnato per la trasposizione del romanzo di Collodi: con la confessione, nei giorni scorsi, da parte ancora di Garrone, “racconto una grande avventura popolare e Massimo viene dal popolo, è puro, mentre io faccio parte della borghesia.” Mah!

“Io, capitano” ha vinto il Leone per la miglior regia (gli altri cinque compagni allineati a Venezia da un Alberto Barbera troppo generoso sono rimasti a mani vuote) e il suo intenso interprete Seydou Sarr il Marcello Mastroianni come miglior giovane promessa. Racconta di Seydou, ragazzo sedicenne che vive a Dakar, che trasporta sacchi di cemento, che abita dignitosamente in una piccola casa con le sorelline più giovani e con la madre, e la sera se ne vanno tutti quanti a ballare per le strade della capitale. Nessuna guerra per combattere un’economia povera, nessun colpo di stato sanguinoso, sonni profondi, allegria, luci per le strade, musica. Ma il miraggio dell’Europa di tanto in tanto compare, pronto con prepotenza a coinvolgere il cugino Moussa: la madre urla no ma i ragazzi continuano a ingrossare e a nascondere il loro mucchio di soldi nella sabbia. Salire su quell’autobus è l’immagine della ragazzata incosciente, le risate, gli occhi trasognati e tranquilli si spingono sempre più oltre. Ma poi c’è la necessità di un nuovo passaporto e di nuove generalità, c’è la crudeltà che si espande dagli uomini alla natura, ci sono i brutti ceffi senza scrupoli che pretendono sempre più soldi, quelli che aiutano e invitano a collaborare “altrimenti sarete uccisi”, ci sono le botte e le torture e la corruzione, le lunghe traversate del deserto dove si può essere dimenticati a morire, la Libia delle promesse che nasconde soltanto soprusi, ci sono le lacrime e le ferite, c’è l’imposizione, ad un ragazzo di sedici anni che non sa nemmeno nuotare, a guidare una carretta del mare che dovrà portare lui e tutti i suoi compagni al di là delle acque del Mediterraneo. Ma Seydou ce la fa: “Nessuno è morto, una donna ha partorito il suo bambino, io li ho guidati sino a qui, io capitano!”

È un viaggio il film, della speranza e dell’azzardo, dell’affrontare la propria “stagione all’inferno”, è la crescita e la conquista di una coscienza di se stessi, della maturità raggiunta, della sapienza nell’affrontare le avversità. È un racconto piano, che scorre senza che si incontrino giudizi e prediche, che Garrone conduce in avanti con grande correttezza e con umana partecipazione, squarciando quella rete di crudeltà, in un paio di occasioni, con un sentimento leggero di favola, di sospensione onirica; è l’occasione per il regista, all’interno di quel vasto mare di realismo, per affidarsi a quella componente favoleggiante che gli è propria. “Io, capitano” ti riporta con la mente a certe idee e a certi momenti del “Pinocchio”, e allora il viaggio del burattino verso l’umanizzazione e la sua crescita tanto s’avvicina all’odissea sabbiosa e acquea di Seydou (attraverso la Nigeria e il Sudan e il Sahara e il mare), allora il vecchio muratore prende il posto della fata turchina che incoraggia e aiuta, i tipacci che sbarrano la strada quello del gatto e della volpe, il paese dei balocchi ha la medesima immagine delle luci che si scorgono lontane. Garrone lascia il suo ragazzo con quell’urlo in gola, gli occhi rivolti alla costa, quasi in un atteggiamento di sfida, nel disegno del suo film non c’è posto per il dopo, per i giorni e per le tante domande a venire, interrompe e preferisce non tratteggiare un approdo, un’accoglienza, un inserimento.

Con quello sguardo il viaggio fisico e morale di Seydou è terminato. Dell’interprete e del personaggio. Adesso che abbiamo visto con i suoi (loro) occhi le stazioni della lunga via crucis, ci chiediamo legittimamente se quelle luci laggiù lontane, immerse in un paese dei balocchi che proprio dei balocchi non è, non possano domani prevalere e far dimenticare le angosce del lungo viaggio. La sincerità e la genuinità di quelle lacrime che hanno accompagnato la premiazione (“grazie, grazie a tutti, sono felice, non ci sono parole”) ci spingerebbero a sognarlo perfettamente integrato: vogliamo credere che sarà così.

Elio Rabbione

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