Quando nel deserto del New Mexico nacque la bomba atomica

Sugli schermi “Oppenheimer” di Christopher Nolan

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Ci sono gli occhi di Harry Truman (un irriconoscibile Gary Oldman), difesi dagli occhiali cerchiati d’oro, a fissare lo scienziato: “La gente non si ricorderà di chi ha costruito la bomba ma di chi ha deciso di sganciarla”, rassicurante, mentre gli porge il fazzoletto con il quale simbolicamente lavarsi il sangue di cui ha sporche le mani. C’è l’agghiacciante sberleffo del politicante che, nella necessità di dover scegliere i bersagli su cui sganciare l’atomica, con un sorriso invita “va bene, allora siamo d’accordo su Nagasaki e Hiroshima ma per favore non Kyoto, è una città così bella, ci sono andato in luna di miele con mia moglie.” C’è, soprattutto nella frenetica prima ora di proiezione, svolta in un montaggio da brivido (di Jennifer Lame), un alternarsi di pioggia e di esplosioni, di fuoco che avvampa e che distrugge, c’è il puzzo e l’amara sensazione di distruzione che riportano con immediata memoria alle ultime ondate di un conflitto che già aveva visto la disfatta e la capitolazione dell’esercito tedesco e lo sfacelo del dittatore italiano, come un Giappone che di lì a poco avrebbe sicuramente deposto le armi. C’è il gioco spietato e subdolo, raggiunto con sottile perversione – parole dette e non dette, inviti e suggerimenti, affermazioni e negazioni, appoggi e voltafaccia -, della politica, le riunioni nella piccola e appartata sala dei segreti dove, in un gioco e in un impianto già del tutto costruiti lo scienziato “distruttore di mondi”, prima spinto e autorizzato secondo le sacre leggi del Bene Supremo della patria, viene colpevolizzato da Lewis Strauss, il presidente dell’”Atomic Energy Commission” (un Robert Downey jr. in odore di Oscar: e siamo pronti a scommettere che nel marzo prossimo non sarà l’unica statuetta pronta a convergere su un solo titolo): lui che nel 1942 ha contribuito a porre Robert jr. Oppenheimer a capo del progetto “Manhattan”, dettato dalla paura dei progressi fatti dalla Germania nazista nella ricerca sulla fusione nucleare e dalla necessità di ostacolarne i risultati.

Studi e preparativi che trovano spazio nel deserto del New Mexico, nella costruzione dei laboratori e degli alloggiamenti di Los Alamos, dubbi e sensi di colpa che avanzano e che trovano angoli concreti e distruttivi nel cuore e nella mente del fisico, deflagrazioni e squarci di futuro, frammenti storici e personali che costruiscono e irrobustiscono le anse della storia, i contrasti familiari e le occasioni per avventure del migliore dongiovannismo, le simpatie comuniste pronte a destabilizzare un destino e cancellate al momento giusto, l’ironia che entra negli interrogatori, gli appoggi di altri scienziati coinvolti, come Bohr e Rabi, Fermi e Lawrence, la collaborazione e la successiva inimicizia di Edward Teller, Albert Einstein che si chiama fuori del progetto, tutto in un gioire di bianco e nero e di colore, secondo la logica di un prima e di un dopo, di salti temporali che arzigogolano attraverso l’intera pellicola, del realismo degli effetti speciali, in questo “Oppenheimer” che il sempre visionario Christopher Nolan (con un budget di 100 milioni di dollari) ha ricavato dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin. Un autore che ha il privilegio mentale della grandiosità, che ha l’avventurosa coscienza di pensare sempre in grande, che mescola con rara intelligenza le carte del tempo e dello spazio, che sovverte ogni ordine per riaccompagnare immediatamente lo spettatore all’equilibrio del disegno, che supera le tracce del biopic e crede in una narrazione priva di ogni linearità, tutta movimenti e scatti, la visione completa di un immenso mosaico nel quale a tratti ti pare di perderti. Un grande film, non facile, che richiede attenzione costante, su cui ragionare, magari rivedendolo, imprigionando dentro di sé le forze a tratti troppo importanti e grandi della Scienza e della Storia.

E un grande autore che ha saputo regalarci non soltanto la trilogia del “Cavalier oscuro” ma titoli alti quali “Memento”, un forse non mai abbastanza considerato “The Prestige”, l’insuperato “Inception” e “Interstellar”, i sovvertimenti magici di “Tenet” come il cielo il mare la terra di “Dunkirk”, tra i panorami delle coste francesi. Sull’ultimo fotogramma, siamo indotti a pensare che “Oppenheimer” sia l’opera più profonda, profondamente pensata, complice quella Storia piena d’imbarazzo con cui Nolan si confronta, con quelle figure di vita e di morte, con quel giocare con i destini di milioni di esseri umani di cui si rischiò davvero di vederne la scomparsa.

Temi difficili, per molti lontani e incomprensibili (che tuttavia il pubblico ha accettato e continua ad accettare, se i botteghini oggi si fregano le mani e registrano nel mondo circa 800 milioni di dollari, in Italia in data 1° settembre arriviamo ai 14 milioni di euro, boccate d’aria fresca che si misurano con un recente passato non troppo felice). Non è facile accettare fisica quantistica e fusione e fissione, non sono facili le tre ore della durata del film, non è semplice essere spinto ad addentrarci in una storia d’oltreoceano che nelle proprie pagine non ancora del tutto chiarite è materia di studiosi. Ma “Oppenheimer” interessa, avvince, forse si tiene al riparo dalle emozioni ma certamente afferra lo spettatore e lo appassiona senza se e senza ma. Un interesse che ha una sua ragione, non ultima, nelle tempeste e nei venti d’attualità che circolano in un conflitto che a due passi dalle porte di casa nostra.

Nolan eccelle, cesellandoli di luci e di ombre, nella scrittura della sceneggiatura, s’affida alle musiche incalzanti di Ludwig Göransson e alla eccellente fotografia di Hoyte van Hoytema, chiama attorno a sé interpreti di assoluta sicurezza (Kenneth Branagh, Matt Damon, il luciferino Jason Clarke, Emily Blunt e Florence Plugh, possessiva amante filocomunista, Rami Maleck), in primo piano Cillian Murphy, dopo tante collaborazioni finalmente in veste di protagonista, un viso scavato per un tormentato Oppenheimer, che si porta appresso i suoi fantasmi, incapace nel ’52 di aderire alla costruzione della bomba all’idrogeno. Si ritirò alle isole Vergini, si comprò un terreno e si costruì una piccola modesta casa sulla spiaggia. Faceva lunghe gite in barca con la moglie e la figlia. Gli anni a venire furono ancora occasione per conferenze tenute e negate, per i timori circa i pericoli potenziali delle invenzioni scientifiche nei confronti dell’intera umanità, per le alleanze con Einstein e Bertrand Russell e nello stesso tempo per il rifiuto a firmare le varie proteste degli anni ’50 contro le armi nucleari, per l’onorificenza che il nuovo presidente Lyndon Johnson gli aveva voluto attribuire. Furono gli anni della malattia, verso la metà degli anni Sessanta, di un cancro che nel febbraio del 1967 lo portò alla morte. La moglie portò le cenere in quelle isole dove forse soltanto aveva ritrovato un po’ di tranquillità e le sparse in mare, a poca distanza dalla casa sulla spiaggia.

Elio Rabbione

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Articolo Precedente

Sara Curtis in Israele con la Nazionale per i Mondiali Juniores

Articolo Successivo

Merlo: “Jobs act, se il Pd adesso dice no cancella il suo profilo riformista”

Recenti:

IL METEO E' OFFERTO DA

Auto Crocetta