Dalla classicità a Giacomo Grosso, dalla Scapigliatura a Pellizza da Volpedo
“Le sempre più manifeste fragilità” della GAM avevano obbligato i responsabili, nel dicembre 2018, a chiudere la collezione del XIX secolo, ospitata al secondo piano. Una chiusura che si sperava breve, ma così non è stato. Nel frattempo, mentre si eseguivano i lavori di irrobustimento del solaio e di impermeabilizzazione totale dei tetti del museo, numerose arrivavano le richieste del pubblico affinché quella raccolta fosse restituita all’interesse e alle visite degli studiosi e degli appassionati. Dopo circa quattro anni ecco dunque “Ottocento”, la mostra curata da Riccardo Passoni e Virginia Bertone che, riaprendo gli archivi, attraverso un percorso critico che allinea circa una settantina di opere tra dipinti, sculture in marmo, a cere e gessi, a pastelli, riapre le porte di una grande collezione.
Cinque eleganti sezioni, “Nascita di una collezione”, “Nuove sensibilità e ricerche”, “La pittura di paesaggio al Museo Civico”, “Dalla Scapigliatura al Divisionismo” e “Ricerche simboliste tra pittura e scultura”, accompagnate da tre focus su Andrea Gastaldi, Antonio Fontanesi e Giacomo Grosso. Un valido quanto suggestivo percorso che Passoni ama definire altresì una “ricognizione del nostro patrimonio storico”, dove trovano posto anche opere mai esposte, restaurate grazie al contributo degli Amici della Fondazione Torino Musei, quali “Ecco Gerusalemme” di Enrico Gamba, acquistato nell’anno della sua esecuzione per il Museo nel 1862 dalla Società Promotrice delle Belle Arti, e “Nobili in viaggio” (ma ritrovandone il titolo originale con cui fu esposto nel 1867, “La Guida. Studio di castagni dal vero”) di Francesco Gonin, sempre presso la Società Promotrice torinese.
Ancora pienamente legato ai propositi della pittura accademica, il mondo di Gastaldi apre quel percorso con il celebre “Pietro Micca” nell’atto di dar fuoco alle polveri, in un atto di umiltà e sacrificio e in una postura che, ha indicato Enrica Pagella, ricorda il “San Gerolamo” leonardesco, con il ritratto dell’Innominato manzoniano del 1860 o con quello di Saffo, suicida sul litorale dell’isola. Poco più in là chi ancor più pare legato ai canoni classici, siamo nel 1864, immaginati qui a rappresentare “Gli ultimi giorni di Pompei” – grande era stato il successo dell’inglese Edward George Bulwer-Lytton trent’anni prima -, con il dipinto “Jone e Nidia”, “in un’ambientazione antichizzante, resa con precisione quasi antiquaria”, è il napoletano Federico Maldarelli, una classicità ricercata e studiata, osannata quasi e derivata da quelle campagne di scavi, nella città sepolta secoli prima dall’eruzione del Vesuvio, che avevano avuto inizio nel Settecento.
Da quel mondo si era già staccato il milanese Filippo Carcano con “Una lezione di ballo”, soltanto dell’anno successivo, una grande tela (133 x 168 cm) a “fotografare” un momento di modernità, una vasta sala piena di luce dove un maestro di danza è impegnato a condurre una giovane ballerina in abito blu, mentre le altre ragazze, alcune accompagnate da un cavaliere, attendono il loro turno sedute lungo le pareti. I suonatori di pianoforte e di violino non sono gli unici particolari su cui soffermarsi nell’ammirare oggi un’opera bocciata al suo apparire (“Il signor Carcano, colle eminenti qualità che possiede, cessi di far della fotografia e faccia della pittura, e sarà un vero artista”, scriveva Fulvio Accudi alla presentazione di “Una lezione di ballo” alla Promotrice torinese nel 1867, dopo averne definito il soggetto come “insignificante, infimo e volgare”), tanta è la preziosità con cui Carcano definisce la propria opera. Come è doveroso soffermarsi davanti a “La femme de Claude” (o “L’adultera”) di Francesco Mosso (un’esistenza brevissima, nacque a Torino nel 1848 e morì a Rivalta nel 1877), composto nell’ultimo anno di vita e derivato da un dramma di Alexandre Dumas figlio di quattro anni prima. Inutile dire che, pur riconoscendosi da molti l’attualità spregiudicata del quadro e Mosso “vero pittore del presente”, lo scandalo esplose tra il pubblico benpensante, affievolito appena dall’acquisto per le collezioni del Museo Civico (“la più vivace, ardita e significante” opera tra quelle esposte, la definì Marco Calderini), ma oggi riconosciuto autentico capolavoro, la giovane donna distesa sulla dormeuse, il corpo avvolto in una raffinata “robe d’intérieur”, il soffoco dell’ambiente in quei tendaggi fitti ed eguali, i particolari del cilindro e del revolver a terra a definire il compimento di una cruenta vendetta maschile.
Altri preziosi capolavori i paesaggi di Fontanesi e i vari studi che guardano alle acque e alle luci posate sugli stagni nelle diverse ore del giorno, il “Ritorno alla stalla” di Carlo Pittara, uno dei maggiori paesisti dell’Ottocento piemontese e l’esponente principale della Scuola di Rivara, capace di allargare i propri orizzonti e di guardare ai colleghi francesi dell’Ecole di Barbison, la palude di “Castelfusano” dipinta da de Andrade, il famosissimo “Lungo Po” di Enrico Reycend del 1883 dove lo spettatore di oggi individua ancora con curiosità le antiche costruzioni attorno alla Gran Madre. Come davanti a capolavori ci troviamo con “Nuda” e con il ritratto d “Virginia Reiter”, del 1896, di Giacomo Grosso, giocato quest’ultimo sull’uso “sfacciato” della gamma di gialli e proposto in un ambiente raffinatissimo, dove troneggia la figura della grande attrice, reduce dal successo ottenuto tra il gennaio e il febbraio di quell’anno con “La lupa” di Giovanni Verga, rappresentato per la prima volta al torinese teatro Gerbino.
Mentre le sculture di Bistolfi (“Crepuscolo”, “Le lagrime”) e di Rubino (“La danza” del 1902) punteggiano il percorso attraverso la ricchezza delle sale, il divisionismo di fine secolo vede nello “Specchio della vita” di Pellizza da Volpedo forse uno dei suoi punti più alti del Divisionismo come “L’edera” di Tranquillo Cremona viene considerato una delle immagini più affascinanti della scapigliatura di area milanese, un’immagine disperata e struggente, un successo che si è prolungato lungo i decenni, “una delle opere più note e riconoscibili dell’Ottocento italiano”, nelle parole di Enrico Thovez una “preziosissima opere che molte Gallerie invidieranno al nostro Civico museo”, una lunga gestazione fatta di riprese e ripensamenti, che attraverso le parole di Camillo Boito accompagnerà la sepoltura dell’artista scomparso troppo prematuramente nel 1878, all’età di quarantuno anni, una morte dovuta ad una intossicazione che lo colpì per l’abitudine di stemperare i colori direttamente sulla mano e sul braccio.
Elio Rabbione
DIDASCALIE
Nelle immagini (Ph. Perottino): Giacomo Grosso (Cambiano 1860 – Torino 1938), “Nuda”, 1896, olio su tela, 105 x 205 cm, dono di Eugenio Pollone, GAM Torino e “Ritratto dell’attrice Virginia Reiter”1896, olio su tela, 245 x 177 cm, acquisto presso la Società Promotrice delle Belle Arti, Prima Esposizione Triennale, Torino 1896, GAM Torino; Filippo Carcano (Milano 1840 – 1914), “Una lezione di ballo”, 1865, olio su tela 133 x 168 cm, lascito di Ada Olmo Serra Torino 1977, GAM Torino; Francesco Mosso (Torino 1848 – Rivalta 1877), “La femme de Claude (“L’adultera”), 1877, olio su tela, 201 x 154 cm, acquisto presso la Società Promotrice delle Belle Arti, Torino, 1877, GAM Torino; Tranquillo Cremona (Pavia 1837 – Milano 1878), “L’edera”, 1878 ca, olio su tela, 132 x 98 cm, Legato di Benedetto Junck, Torino 1920, GAM Torino; Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato 1859 – La Loggia 1933), “Crepuscolo” 1893, gesso, 52 x 60 x 45 cm, pervenuto dai depositi di Palazzo Madama Torino nel 1981, GAM Torino
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