L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Tove Ditlevsen “Infanzia” -Fazi Editore- euro 15,00

Una bellissima riscoperta letteraria femminile quella della penna di Tove Ditlevsen, importante poetessa e scrittrice danese del Novecento (nata nel 1917, morta suicida nel 1976); autrice della Trilogia di Copenaghen di cui “Infanzia” è il primo volume, pubblicato in patria nel 1967.
La trilogia è di fatto la sua struggente autobiografia, articolata anche nei successivi volumi “Gioventù” e “Dipendenza” di prossima pubblicazione, per la prima volta, in Italia.
Il suo sguardo sulla vita è amaro e disincantato: «L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli….».
Racconta così i suoi stati d’animo, con frasi brevi, incisive, scolpite nel profondo del suo essere. Come tutti i sommi scrittori ha la capacità di trascinarci nel suo mondo, nel suo sentire e nella sua sofferenza con parole che ci afferrano e non ci lasciano più.
La piccola Tove è nata in un quartiere operaio di Copenaghen, figlia di un uomo dalle simpatie socialiste che perde il lavoro e scivola nell’inferno della disoccupazione; vissuta dalla famiglia come onta suprema e vergogna da nascondere.
La madre Alfrida, invece, è una donna astiosa, piena di rabbia e rancore, facile agli scatti d’ira, distante e, per la figlia, decisamente irraggiungibile e incomprensibile.
Tove l’adora e cerca disperatamente di conquistarne l’affetto…senza mai riuscirci e portandosi per sempre nel cuore questa ferita sanguinante.
Un’esistenza che sarà segnata dal desiderio di scrivere poesie; le custodisce e nasconde in un album in cui riversa i suoi pensieri e tutta la sua sensibilità, la difficoltà di crescere, il suo sguardo sugli adulti.
La fase dell’infanzia le va decisamente troppo stretta, eppure inizierà a rimpiangerla nel momento in cui se la lascerà alle spalle.

Una meravigliosa scoperta quella di questa autrice che ebbe vita difficile, breve e travagliata, con i sassi dell’esistenza che la ferivano continuamente. La prigione dell’infanzia lascerà il posto a quella dell’età adulta.
Lei, che era uno spirito creativo e libero, non riuscirà mai a venire a patti con la vita; si sentirà sempre fuori posto ed affogherà il suo male di vivere in alcol e droghe. Fino al tragico epilogo: la morte per un’overdose di sonniferi che fermò la sua vita a soli 58 anni.

Amélie Nothomb “Primo sangue” -Voland- euro 16,00

E’ il trentesimo romanzo pubblicato dalla baronessa belga 55enne -scrittrice di lingua francese che mette a segno un libro all’anno (sempre in testa alle classifiche), ed è dedicato al padre morto a 83 anni, il primo giorno del lock-down.
Un romanzo catartico in cui presta la sua voce al genitore, Patrick, ex diplomatico ed eroe che nel 1964 aveva salvato 1.450 ostaggi in Congo. Artefice di estenuanti trattative con i ribelli, inoltre era rimasto immobile e coraggioso di fronte al plotone d’esecuzione che era sul punto di fucilarlo.
117 pagine in cui la Nothomb, con la sua scrittura elegante e poetica, racchiude infanzia, giovinezza, matrimonio e primo incarico diplomatico di Patrick Nothomb; nato nel 1936 e morto nel 2020, erede di una delle famiglie più importanti del Belgio.

Quando aveva solo 8 mesi era rimasto orfano del padre; militare 25enne saltato in aria mentre imparava a sminare un terreno (destino volle che qualcuno avesse sbagliato usando una mina vera). Due anni prima aveva sposato Claude, donna bellissima che rimase vedova a soli 25 anni; ne indossò la maschera per non togliersela mai più.
Una giovane donna quasi inaccessibile al figlio. Lasciò volentieri che lo crescessero i nonni; mentre lei passava da un ricevimento all’altro, veleggiando nell’alta società, sempre impeccabile ma scostante.
Claude è la nonna della scrittrice e nel libro è una presenza incostante, distante e fredda con il figlio, che chiamava “Paddy” come imponeva l’anglofilia. Tendenza in voga nell’aristocrazia belga dell’epoca (durante la Seconda guerra mondiale e protratta fino agli anni Sessanta) per cui il massimo dello chic era fingersi inglesi, e Claude parlava francese con accento inglese.

Compaiono spesso i nonni di Patrick; dai genitori della madre che praticamente lo hanno cresciuto, alle trasferte dai nonni paterni, esperienza che finirà per divertirlo parecchio, nonostante le privazioni.
E si, perché quando andava dal barone Pierre Nothomb, che viveva nella roccaforte di Pont d’Oye,-in un castello, ma faticava a sfamare i numerosi figli- Patrick cadeva sotto l’incantesimo di quel luogo.
Il nonno paterno aveva avuto la bellezza di 13 figli, (dei quali 3 erano morti, incluso il padre di Patrick) e due mogli. La sua casa pullulava di vita e Patrick entrava a pieno titolo in quell’orda di Unni che erano tecnicamente i suoi zii e zie, compagni di giochi e di scoperte continue.
Una casa in cui il cibo scarseggiava e comunque prima andava agli adulti; solo se avanzava qualcosa era dato ai bambini, perché gli spiegarono «..se arrivi all’età di 16 anni poi sarai sfamato».

Scorrono altre pagine che ci danno la misura di Patrick: il suo tallone d’Achille per cui sveniva alla vista del sangue (persino a quello di una bistecca), le amicizie e le delusioni, le aspirazioni e l’incontro con l’amore della sua vita che finirà per sposare ad ogni costo.
Ampio spazio anche al suo eroismo come ambasciatore nel Congo, che si era appena liberato dal colonialismo ed aveva conquistato l’indipendenza. Sulla situazione politica di quel paese e l’esperienza del sequestro scrisse anche il libro “Dans Stanleyville”.
Insomma un magnifico omaggio a quel padre a cui la Nothomb assomiglia tanto, che vedeva immortale, salvo poi non poterlo neanche accompagnare al cimitero causa epidemia. Quel padre tanto affascinante e pieno di coraggio ci appare vicino in questo bellissimo libro che lo riporta in vita.

 

John O’Hara “Elizabeth Appleton” -Nutrimenti- euro 20,00
Questo romanzo è un grande classico della letteratura mondiale e mette a fuoco i campus americani: le loro dinamiche, ipocrisie, gelosie, rivalità, e molto altro di una società arroccata nel perbenismo. Scritto dall’americano John O’Hara (1905- 1970), considerato uno dei più importanti autori della sua generazione, anche se dal carattere difficile. O’Hara era abilissimo nelle short story; narratore dallo sguardo disincantato che scandagliò, soprattutto in questo romanzo, l’America e le sue mille sfumature.
Protagonisti sono il docente John Appleton -preside di facoltà nel College più antico del luogo- e la moglie Elizabeth; che nel 1950 vivono immersi nel mondo puritano e sonnolento della cittadina universitaria di Spring Valley in Pennsylvania. Abitano in una casa che è l’emblema anche del loro matrimonio, ovvero solida, rispettabile e comoda. Almeno così appare a un primo sguardo veloce.
O’Hara però ci conduce nei loro pensieri e ci offre un’immagine più approfondita. John è un insegnante in carriera, stimato e rispettato. Ma per quanto lontano possa arrivare non riuscirà mai a ricompensare appieno la moglie Elizabeth, abituata al benessere della sua ricca famiglia di origine. Lei riesce a permettersi qualche piccolo lusso solo grazie al denaro inviatole dalla madre rimasta vedova dopo un matrimonio infelice.
Agli occhi del microcosmo in cui vive, Elizabeth, si è ritagliata l’immagine pubblica di moglie devota e operosa.
Ma l’autore ci offre una ricostruzione provocatoria in cui mette a nudo le falsità, i maneggi sotterranei, i giochi di potere, gli intrighi e i segreti che vanno ad intaccare l’immagine sacra delle università americane. Lo fa con una sottigliezza che emerge dai dialoghi serrati e dall’immergersi negli stati d’animo dei protagonisti. Dietro le quinte dei riti sociali si annidano insoddisfazioni, tradimento, discrepanze tra classi sociali.

 

Giorgio Van Straten “Una disperata vitalità” -HarperCollins- euro 18,00

Possiamo leggere questo libro dell’autore fiorentino come una sorta di bilancio della vita del protagonista, Giorgio, alle soglie del 60esimo compleanno. Momento in cui si trova sospeso tra la vita precedente a Roma e Firenze dove ha lasciato –ma non del tutto- l’ex moglie e la sua esperienza newyorkese con ritmi di vita frenetici, tra un incontro e l’altro.
L’omonimia con l’autore, la professione di scrittore e agente letterario, e New York (dove Van Straten è stato direttore dell’Istituto di Cultura Italiano tra 2015 e 2019) inducono a pensare che il protagonista altri non sia se non l’autore stesso. Comunque in queste pagine ci sono parecchie cose in comune tra i due: mestiere, passioni, interessi, città.
Nelle pagine del romanzo abbondano i malanni -veri o presunti- del protagonista, il rapporto con il corpo e l’usura del tempo, l’idea di una vitalità a tutti i costi, lo spettro della morte. Giorgio ci porta con lui tra un evento newyorkese e l’altro, le infatuazioni più o meno passeggere per donne che per un po’ abitano il suo cuore. Party, presentazioni di libri, film, mostre d’arte, in cui i discorsi vacui affogano in cocktail ad alta gradazione alcolica con cui stordire l’affanno del vivere.
Questa frenesia, la vitalità disperata e a tutti i costi, gradatamente perdono consistenza e diventano meno interessanti. Invece iniziano a pesare le paure, le tachicardie a ogni rampa di scale.

Giorgio fa un bilancio della sua esistenza secondo parametri che hanno a che fare con il tempo che fugge, i fallimenti sentimentali, la disillusione della sua generazione, e una nuova realtà newyorkese che lo spiazza parecchio, intrisa di decadenza morale ed etica.
Un disincanto che alberga abbondantemente in questo libro di auto-fiction, in cui l’autore si è anche parecchio divertito a prendere in giro non solo se stesso, ma anche persone amiche o incontrate strada facendo.

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