Ad Asti, nelle sale di Palazzo Mazzetti, sino al 1 maggio 2022
Ottanta opere a rappresentare una trentina di artisti e a formare la mostra dei
“Macchiaioli”, curata da Tiziano Panconi, sino al 1 maggio 2022 nelle sale di Palazzo
Mazzetti, i nomi tra gli altri di Silvestro Lega e di Giovanni Fattori, di Telemaco
Signorini e di Giuseppe De Nittis, di Giovanni Boldini e di Cristiano Banti, l’apporto di
varie collezioni private come del Museoarchives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia
o del Butterfly Institute Fine Art, Galleria d’Arte di Lugano, la realizzazione dovuta alla
Fondazione Asti Musei in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Asti,
la Regione Piemonte e il Comune di Asti, un accurato percorso di approfondimento, un
progetto didattico con laboratori e visite guidate per la scuola dell’infanzia e primaria
come pure per quella secondaria di primo e secondo grado, la rivisitazione di
un’epoca, colma di piccoli capolavori, e di un movimento che, allontanandosi dalle
radici e dalle regole accademiche, diede vita ad una vera innovazione pittorica, tutto
questo a ribadire “come Asti sia ormai una meta sempre più importante sul piano
culturale”.
In una Firenze intesa come culla dell’arte d’Italia e capitale artistica dei piccoli
staterelli esistenti a metà dell’Ottocento, s’accende una nuova generazione d’artisti
che abbraccia non soltanto la rivoluzione fatta con le armi ma altresì quella artistica.
Gli incontri e le polemiche, i confronti e le discussioni animate sono all’interno del
Caffè Michelangelo, tra il 1855 e ’56, là dove più c’erano certezze e più era necessario
combattere contro i giudizi aspri e sprezzanti, pronti a mettere in ridicolo artisti e
opere (il titolo ridicolizzante di “Macchiaioli” arrivò nel 1862 da parte di un anonimo
redattore della “Gazzetta del Popolo”), della maggior parte dei critici. Nel maggio 1857
la prima grande polemica pubblica, allorché il direttore della Promotrice fiorentina,
Augusto Casamorata, comunicò a Telemaco Signorini il rifiuto da parte della
commissione giudicatrice di due sue opere, accusate “di accentuazioni chiaroscurali
eccessive, rigettando di fatto i tipi stilistici peculiari della ‘macchia’ e accendendo un
dibattito critico destinato a suscitare un’eco nazionale”. Più limpidamente, sosteneva
la genuinità di quegli artisti che “la visione delle forme solide è determinata dalla
proiezione della luce su di esse che crea zone d’ombra e zone di chiarore, costruendo
così, visivamente, le volumetrie”.
Sei sezioni a tema compongono la mostra, il paesaggio e il quadro storico rivisitato e
aggiornato con un’”impronta impressionista”, la violenza di certi chiaroscuri e le
piccole scene catturate nella familiarità di Piagentina, le tranquille colline di Fiesole, di
San Miniato e di Arcetri in lontananza; la poesia della natura e il naturalismo, pronto a
guardare al paesaggio urbano e alle campagne circostanti; in ultimo, la quiete e la
religiosa osservazione del Creato e un percorso che aveva il proprio punto d’arrivo nei
contrasti di luci e di ombre più raddolciti, che avvertiva a fianco, sul versante
letterario, le presenze veriste di Zola e di Verga, che “andava plasmando una cifra
stilistica del tutto originale e immediatamente riconoscibile”, che poneva l’attenzione
sugli sfondi sociali.
Spiccano nelle sale della mostra le “Acquaiole” di Vincenzo Cabianca, del 1864, un
gruppo di donne, chiuse nei loro costumi e rese stanche dall’attività, divise tra
l’asprezza del muro che le affianca e il mare in lontananza, “L’amore tra i campi”, un
corteggiamento dentro l’impercettibile fogliame della boscaglia, di Fattori che ci regala
anche due soggetti militari, una coppia di militari a cavallo e “L’artiglieria in marcia”
(1880 – 1881), bellissima scena che precede forse una battaglia, lo scalpitìo dei cavalli,
i comandi e la polvere, la collina sullo sfondo, ogni cosa sotto lo sguardo attento di due
contadine. Piena di dolcezza e di affetto materno è “La madre col bambino” (1866 –
1867), la compostezza delle “Contadine” di Cristiano Banti, di Odoardo Borrani la
ricerca dei particolari e la morbidezza dell’abito femminile nella “Visita al mio studio”
(1872), lo spartiacque che netto divide “Una via di Ravenna” del 1876, bambini che
giocano e donne che chiacchierano sulla porta di casa o lavano panni, la luce
accecante da un lato o sui tetti che fanno da sfondo al borgo, l’ombra dall’altro. Su
tutti, se volessimo inventarci una scala di valori, porremmo il “Bambino al sole” del
1869, un piccolo (cm. 19 x 16) olio su tela, opera di Giuseppe De Nittis, la verità cruda
e amara che colpisce molta adolescenza dell’epoca, i piedi scalzi, il povero abito e i
calzoni strapieni di toppe, il viso imbronciato, forse anche triste, ma con una indefinita
aria di sfida, un corpo poggiato contro un muro assolato e antico, alto realismo
suggestivo e crudele al tempo stesso.
Elio Rabbione
Nelle immagini: Silvestro Lega, “Mamma col bambino” (1866 – ’67), olio su tavola, coll.
privata; Telemaco Signorini, “Una via di Ravenna” (1876), olio su tela; Giovanni
Fattori, “Artiglieria in marcia” (1880 – ’81), olio su tela, coll. privata; Giuseppe De
Nittis, “Bambino al sole” (1869), olio su tavola, coll. privata, Courtesy Butterfly
Institute Fine Art, Galleria d’Arte, Lugano.