Sugli schermi “House of Gucci” (film mancato) di Ridley Scott
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Con e dopo il processo l’avrebbero definita “la vedova nera”, Patrizia Reggiani, la pietra angolare di una storia di “assassinio, follia, fascino e avidità”, se vogliamo prendere a prestito il sottotitolo del libro di Sarah Gay Forden, “House of Gucci”, da cui Ridley Scott è partito per dare vita ad una “Dinasty” della Milano più che bene e tutta da bere degli ultimi decenni del secolo scorso. Prima, umili origini, una nascita nella piana modenese, a Vignola il paese delle ciliegie, un padre biologico mai conosciuto, la madre che ricostruisce una vita per sé e per la figlia sistemandosi nel piccolo impero di un trasportatore, un bel numero di camion e di dipendenti, l’adozione e la tranquillità economica. Certo però che imbattersi, ventiduenne, nel rampollo Maurizio Gucci ad una festa, scambiandolo per il barman di turno, è un affare di tutt’altro tono e mica da tutti i giorni: il nome alletta anche se il bel Maurizio è al momento in rotta con il padre Rodolfo (un passato di attore, con vari film in curriculum, che nel cinema trovò pure una moglie) e del marchio con la doppia G non sa che farsene. Per il momento. Ma il nome alletta, certo, e Patrizia amerà travestirsi da gatta spregiudicata, innamorata, chi glielo nega? ma pur sempre inevitabile arrivista – femme fatale, a metà strada tra Cenerentola e Lady Macbeth -, per festeggiare un matrimonio osteggiato e un ravvicinamento, la nascita delle figlie soprattutto, per sfoderare, una volta messo il naso in azienda, tutta la spietata freddezza, come l’appoggio ad un marito piuttosto debole e inconcludente, sempre da spingere, sempre da consigliare, per ambientarsi assai facilmente nell’attico newyorkese e tra i nuovi amici come Jacqueline Kennedy Onassis, tra i disegni inconfondibili degli abiti, tra i conti bancari e le proprietà, tra i giochi al massacro che serpeggiano in quel covo di vipere, da cui nessuno è escluso. Figli contro padri, cugini contro cugini, zii contro nipoti, tutta una enorme lotta per porsi alla cima della piramide dei luccicanti quattrini (che tornano a circolare, italianissimi, e a scricchiolare amaramente, nella filmografia del più che ottantenne Scott, dopo “Tutti i soldi del mondo” sul rapimento del giovane Getty).
Avvolti nella nebbia milanese, trascorrono tredici anni di matrimonio, ville e feste, antiquariato che appaga l’occhio, macchine di lusso che alleggeriscono di parecchio il portafoglio, la separazione della coppia, le lacrime di lei e la durezza di lui (che non si farà vedere neppure al diciottesimo compleanno della figlia maggiore, che nonostante l’affidamento congiunto della prole non s’occuperà mai o troppo poco): sino agli attimi finali (“Non credevo di aver sposato un mostro”, “Hai sposato un Gucci”), alla decisione ultima di togliere di mezzo il consorte che già s’è fatta una nuova compagna, l’aiuto della maga Pina Auriemma e la “collaborazione” di un paio di sicari. Patrizia verrà condannata (nel 1998), come le cronache ci hanno insegnato, a 28 anni ridotti dopo solo due anni a 26 e ridotti ulteriormente a 16, chiaramente “per buona condotta”. È uscita dal carcere nell’ottobre 2016. Ed è ancora e sempre “una Gucci”: “Nel nome del padre, del figlio e della famiglia Gucci”. Inesorabili, i titoli di coda ci avvertono che all’interno del marchio, della famiglia Gucci non esiste più nessuno. Le due G hanno preso altre strade.
Un mare di sentimenti negativi, di arrivismo, di inganni, una grande e vasta materia che il cinema s’è preso la briga di trattare (ma ne sentivamo davvero la necessità? Forse, strano a dirsi, a uscirne quasi vincitrice in tutto questo gran balletto di ipocrisie, è proprio la maison, se diamo ascolto a quella variopinta ricerca di vintage che pare abbia colpito non pochi rappresentanti del mondo dello spettacolo e del jet set), senza che tuttavia Ridley Scott, confezionando una soap opera da serata televisiva e puntando dritto dritto al solo intrattenimento (che finisce col diventare dopo la prima ora – in tutto sono 156’ – anche abbastanza noioso), stropicciando ogni cosa sopra le righe, non abbia avuto – alleggerendosi della verità storica – in animo di fare una pur leggera luce su come possano essere andate realmente le cose, abbia in un baleno impaginato il verdetto dei giudici nel ridicolo quanto tragico finale, guardando con occhio tutto americano l’aspetto mafioso della storia (e Al pacino, nelle vesti di zio Aldo – fautore di una filosofia imprenditoriale, “la qualità si ricorda a lungo, mentre il prezzo si dimentica” – cui tanto piacciono le feste di famiglia, manco fosse il padrino Brando, ne è il degno rappresentante: e non sai neppure dire se sia bravo o no nel ruolo), pasticciando con i personaggi a cui nega un auspicabile aspetto psicologico, fatto di radici e di formazione (possibile che il cugino Paolo fosse così in formato scemo del villaggio, con Jared Leto da pollice verso e grottescamente truccato, in maniera pessima), guidando malamente un Adam Driver, attore sopravvalutato del resto, qui un Maurizio decisamente inespressivo, sempre eguale sotto gli occhiali dalla montatura d’antan, o lasciando nell’ombra un Jeremy Irons (zio Rodolfo) dalle vistose occhiaie. Rinunciando ad un bel filmone di impianto processuale, dove forse saremmo stati coinvolti assai di più. Chi convince maggiormente è Lady Gaga, in odore di candidatura all’Oscar, che passa con disinvoltura (ma il suo capolavoro resta sempre “A star is born”) attraverso l’escalation della sua Patrizia, anche se anche lei è pronta a debordare in gesti e occhiate non proprio misurati e tenuti a bada. La signorina Germanotta la vince sui suoi colleghi ma non vale ancora il prezzo del biglietto. Come ogni rivisitazione con l’occhio d’oltreoceano di una realtà di casa nostra, “House of Gucci” è infarcito come un panettone di Natale con i canditi di canzoni come più non si potrebbe: chiaro che nel finale non possa mancare l’ugola di Pavarotti.
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