La ricerca e la felicità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi il National Bureau of Statistics of China, l’omologo del nostro ISTAT, insieme al ministero della scienza e a quello delle finanze, ha pubblicato il “Communiqué on National Expenditures on Science and Technology in 2020”.

 

Si tratta di un dettagliato rapporto sull’andamento della spesa nazionale in ricerca e sviluppo.

 

La crescita, superiore al 10%, ha ancora una volta superato quella dell’economia cinese, portando gli investimenti in ricerca al 2,4% del PIL.

 

In valore assoluto i cinesi investono oggi nella ricerca il doppio dei giapponesi, più di due volte e mezzo dei tedeschi e la metà degli americani.

 

Le cifre assumono una dimensione ancora più significativa (ed esprimono più correttamente l’impegno finanziario) se aggiustate per il loro potere di acquisto (con la stessa somma si possono acquistare quantità diverse degli stessi beni, a seconda del loro prezzo, nei diversi Paesi): emerge così che le somme investite dalla Cina eguagliano ormai quelle degli USA, sono 3 volte il Giappone e 5 volte la Germania.

 

Non a caso lo stesso giorno il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha pubblicato il piano strategico quindicennale per trasformare la Cina in una superpotenza nella proprietà intellettuale.

 

La cosa può apparire sorprendente viste le cruente battaglie combattute per anni tra le aziende occidentali e le autorità di Pechino per ottenere il riconoscimento dei brevetti, violati o copiati dalle imprese cinesi.

 

Si tratta di un altro segnale del cambiamento di marcia della politica economica sotto la guida di Xi Jinping.

 

Dopo la stretta sulle multinazionali private e quella sul settore immobiliare (che sta portando al fallimento controllato del colosso nazionale China Evergrande) appare sempre più chiaro che il timone della corazzata cinese stia puntando con decisione sull’innovazione di Stato e sulla riduzione della speculazione e della corruzione.

Il settore immobiliare costituisce più di un quarto del PIL cinese (negli USA è intorno al 6-7%) ed è stato uno dei motori che ne hanno maggiormente sostenuto la crescita negli ultimi 30 anni ma questo ha generato una bolla fatta di prezzi elevatissimi, debiti esorbitanti ed enormi investimenti improduttivi (intere città create e rimaste desolatamente disabitate).

 

Basti pensare che per acquistare un appartamento in una grande capitale occidentale servono tra le 13 (a San Francisco) e le 22 volte il reddito medio annuo mentre a Pechino occorre destinare all’acquisto l’equivalente di 50 stipendi.

 

Anche la ulteriore stretta appena annunciata dal governo cinese, sull’utilizzo delle criptovalute per i pagamenti, può essere ricondotta alla campagna di riduzione delle operazioni speculative, di un maggiore controllo dei flussi finanziari e, di non trascurabile importanza, del contenimento delle emissioni inquinanti.

 

La Cina sta da tempo cercando di proporsi come paladina delle energie rinnovabili (è la sede dei maggiori produttori di impianti fotovoltaici) con l’obiettivo di uscire dalla lista dei Paesi più inquinanti del pianeta.

 

La produzione dei bitcoin comporta, infatti, enormi consumi di energia che in estate è fornita, a basso costo, dai molti impianti idroelettrici che, foraggiati dalle abbondanti piogge, hanno un eccesso di produzione, ma che nella stagione secca fanno ricorso a inefficienti, inquinanti e spesso abusive e pericolose, miniere di carbone ancora presenti in tutta la Cina centrale.

 

A questo proposito va sottolineato come sin dalla prima violenta presa di posizione del Comitato del Partito, lo scorso maggio, i grandi “minatori” stanno spostando i loro attrezzi (enormi computer, trasportati da altrettanto imponenti autotreni) verso Paesi più accoglienti ed il Texas sta diventando una delle destinazioni preferite.

 

Ad inizio anno i tre quarti dell’“estrazione” complessiva di bitcoin veniva fatta nel celeste impero e si stima che oggi si sia più che dimezzata.

Più in generale, il ruolo del mercato privato in Cina rimarrà importante ma circoscritto alle aree non ritenute strategiche e funzionali alla crescita del benessere nazionale.

 

Lo standard, il livello di innovazione, richiesto per competere nei mercati internazionali sta crescendo con sempre maggiore rapidità e rimanere indietro oggi vorrà dire trovarsi soli, nel deserto, senza viveri né acqua, domani.

 

L’ Italia investe in ricerca e sviluppo circa l’1,47% del Pil (di cui lo 0,93% da parte delle imprese private, dati ISTAT 2019): la Germania e gli Stati Uniti quasi il 3% e la media dei primi 40 Paesi l’ 1,75%.

 

La buona notizia per la nostra regione è che il Piemonte si trova (secondo il rapporto ISTAT pubblicato un anno fa) al vertice con il un il 2,17% del PIL speso in ricerca.

 

C’è un lungo cammino da percorrere ma prima bisognerà costruire strade sicure (come le infrastrutture digitali) che ci possano consentire di tornare a correre.

 

Le nostre nuove generazioni di imprenditori stanno mostrando, con le loro “startup”, una grande vivacità come testimoniato nella, appena terminata a Torino, seconda edizione della Italian Tech Week.

 

Questo importante evento (che merita un prossimo “Puntaspilli” ad hoc) ha riunito nella nostra città innovatori di tutto il mondo, lanciando importanti segnali sulle opportunità che ci vengono offerte dalle nuove tecnologie.

 

Risulta perciò chiaro come nella “ricerca della felicità” (economica) la parola chiave potrebbe proprio essere la prima.

 

La speranza in un futuro dove le grandi potenzialità del nostro Paese possano tornare a dare i loro frutti ha quindi tutti gli elementi per essere alimentata.

 

D’altronde, come ha ricordato l’ospite d’ onore della kermesse torinese, Elon Musk, è sempre meglio essere ottimisti e sbagliare qualche volta che essere pessimisti ed avere sempre ragione.

 

 

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

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