IL PUNTASPILLI di Luca Martina
Da alcune settimane le notizie provenienti dall’Asia centrale sono il pane quotidiano di tutti gli analisti, anche di quelli che si concentrano sulle sue ripercussioni economiche.
Dopo la presa del potere da parte dei talebani la Cina si è detta subito disponibile a intraprendere con loro relazioni “cooperative ed amichevoli” e l’agenzia di comunicazione ufficiale di Pechino ha sottolineato come ora l’ Afghanistan potrà finalmente beneficiare degli investimenti previsti dalla “Nuova via della seta”, la “Belt and Road Initiative (BRI)”.
Si tratta dell’ imponente progetto che viene descritto per esteso nel sito governativo cinese come “Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road”.
La “cintura (belt)” è costituita dalla rete di collegamenti via terra tra la Cina e l’Europa mentre la “strada (Road)” circumnaviga le terre emerse, dal Mare Cinese meridionale al Mediterraneo.
Alcuni analisti lo ritengono un tentativo di esportare la globalizzazione in stile cinese assumendo il controllo economico di regioni sempre più ampie.
E’ curioso come ad innescare questa iniziativa siano stati proprio i loro attuali maggiori critici, gli Stati Uniti, quando nel 2011 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton propose la creazione di una Nuova Via della Seta con al centro proprio l’Afghanistan.
Pungolata (e irritata) da una intrusione in quella che percepiva la propria area di influenza, la leadership cinese decise proprio allora di unire i singoli progetti intrapresi in giro per il mondo in una strategia ad ampio respiro.
Due anni dopo, nel 2013, il presidente Xi Jinping, annunciava ufficialmente la BRI, un gigantesco progetto di rafforzamento dei collegamenti e delle comunicazioni che andava ben oltre la regione euroasiatica, estendendosi sino al continente africano (al centro da tempo degli interessi del Celeste impero, sempre alla ricerca di fonti di approvvigionamento di materie prime per le proprie industrie).
L’obiettivo dichiarato, dettato da una visione globale del mondo che consentirà, a progetto completato, di dotare delle infrastrutture fondamentali (strade, oleodotti, ferrovie, ponti…) i Paesi in via di sviluppo, sarebbe quello di consentire una riduzione della povertà e delle disuguaglianze.
Inoltre saranno ridotti i costi ed i tempi richiesti al trasporto e questo si tradurrà in una maggiore crescita economica.
Pur se non esplicitamente menzionati innumerevoli sono i vantaggi per la stessa Cina che sarà così in grado di beneficiare, con le proprie aziende, di grandi commesse (finanziate in buona parte dai Paesi coinvolti) per i progetti da realizzare, potrà aprire nuovi mercati per la proprie aziende (sempre alla ricerca di nuovi mercati di sbocco che ne riducano la dipendenza da quello americano) ed avrà accesso all’esplorazione di vasti bacini di risorse naturali (delle quali è il principale consumatore mondiale).
Proprio questo ultimo aspetto risulta un evidente corollario del passaggio del testimone a Kabul.
Negli ultimi vent’anni le ricche miniere afghane hanno prodotto per il governo locale ingenti perdite (qualche centinaia di milioni di dollari ogni anno) e la precaria sicurezza (atti di violenza e intimidazione hanno impedito la messa in produzione della maggior parte delle miniere) ha scoraggiato gli investitori internazionali (con l’eccezione della Cina).
Il mese scorso il co-fondatore (con il mullah Mohammed Omar, morto di tubercolosi nel 2013) del ricostituito Emirato islamico dell’Afghanistan e Presidente de facto di quest’ultimo, Abdul Ghani Baradar, ha incontrato il ministro degli esteri cinesi Wang Yi.
Uno dei temi del vertice sino-talebano è stato sicuramente la “normalizzazione” della situazione afghana e la messa in sicurezza delle attività minerarie (la cinese Metallurgical Corporation of China, MCC, è il principale operatore del settore nel Paese) oltreché la garanzia di non intervenire in aiuto della minoranza islamica uigura in Cina.
Si preannuncia per i Paesi occidentali una sempre più sgradita dipendenza nelle preziose “terre rare”, indispensabili per la produzione di prodotti ad alta tecnologia (dai superconduttori ai motori per veicoli elettrici), dalla Cina (principale produttore) e dai suoi alleati.
A volere riscuotere il dividendo talebano c’è poi, oltre alla “solita” Russia (storicamente molto attiva nella regione) anche il Pakistan (Paese che, pur ricevendo enormi quantità di denaro dagli Stati Uniti, si è dimostrato assai poco affidabile nel contenere il terrorismo internazionale), nelle cui “madrase” hanno studiato molti dei nuovi governanti afghani, che già nel 1996 aveva fornito il suo supporto al governo degli “studenti” e questo potrebbe tradursi in accresciute tensioni con l’odiato vicino: l’India.
Dal punto di vista economico le conseguenze immediate di tutto ciò sono limitate ma l’ombra degli eventi di questi giorni si allungherà sicuramente nei prossimi anni ed è opportuno valutarle sin da ora per poterne prevenire gli effetti.
Nei giorni e mesi che verranno il principale rischio è quello umanitario e occorrerà che tutti i Paesi si attivino affinchè non si ripetano i fenomeni che hanno portato in passato allo sterminio e alla sottomissione di tutti coloro che si opponevano al regime.
L’Afghanistan ha una vasta superficie, pari a quella dell’Italia e della Germania, per lo più montuosa e desertica, insieme ed una popolazione (circa 38 milioni) di poco superiore ad un quarto alla nostra sommata a quella tedesca.
La capitale Kabul ha calamitato negli ultimi anni una fetta crescente di afghani sino agli attuali 5 milioni, che sono anche quelli più “occidentalizzati” e proprio perciò a rischio più elevato di subire persecuzioni e ritorsioni.
Solo uno stretto controllo della situazione da parte del mondo civilizzato, in questo momento alla finestra, potrà mantenere alta l’attenzione ed evitare le conseguenze più estreme.
Fondamentale sarà la pressione nei confronti della Cina: essendo l’unico Paese ad avere le carte in grado di influenzare l’esito della partita dovremo scongiurare il rischio che decida di tenerle in mano, giocandole solo quando lo riterrà ed a proprio unico vantaggio.
Non sarà certo un compito facile perché, come amava dire il segretario di Stato americano Henry Kissinger: “I Cinesi, avendo fatto a meno di noi per 5.000 anni, pensano di potere continuare a farne a meno.”
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