“L’orto fascista” Romanzo / 10

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XL

Quando il prete apparve in cima alla scala, tra i 18 imprigionati serpeggiò la paura. Se avevano man-
dato un prete per confortarli e, eventualmente, somministrare i sacramenti, era perché il loro destino era stato deciso e la loro esecuzione vicina.
Don Pompeo capì al volo la situazione e, con un sorriso non troppo ampio dato il momento tragico, disse ad alta voce perché tutti lo sentissero:
“Allegri, sono qui non per darvi l’estrema unzione o per ascoltare i peccatacci che avete sicuramente commesso. Sono qui perché hanno pensato che anche un prete possa essere loro nemico e che è bene quindi tenerlo al fresco.” Continuò quindi raccontando l’incontro avuto con lo Sturmbannführer, guardandosi bene dal far capire che era tutta una bufala: tra i 18 ci poteva essere anche una spia dei tedeschi. Meglio essere assolutamente cauti.
Gli imprigionati non erano sicuramente in buone condizioni dopo tante ore di detenzione, ma si sentirono un po’ più sereni quando ascoltarono il racconto del prete. Se i tedeschi avessero scartato l’ipotesi politica, la loro reazione, forse, sarebbe stata meno violenta.
Non era stato dato loro né un goccio d’acqua né, tanto meno, da mangiare. Per i loro bisogni avevano usato un tubo di cemento rotto che spuntava a livello del pavimento in terra battuta e non si sapeva dove finisse. Purtroppo non avendo una sufficiente inclinazione gli escrementi ristagnavano e nell’ambiente aleggiava un’orribile puzza di urina.
Lo scantinato era diviso in tre locali senza porte: solo due ricevevano una scarsa illuminazione da una finestrella vicina al soffitto. Poiché lo scantinato era quasi completamente interrato, le finestrelle dovevano essere all’altezza del giardino che circondava la casa. A quell’ora la luce cominciava a scarseggiare e gli ambienti erano pratica- mente al buio.
“Non voglio sfruttare la mia posizione di prete” disse don Pompeo cercando di mantenere un tono il più scherzoso possibile, “e non voglio fare neppure il rompi- balle” continuò. “Ma, data la situazione nella quale ci troviamo, pregare un po’ il nostro Dio, sperando che ci dia una mano, non farà sicuramente male a nessuno. Io inizio a recitare il rosario, chi ha piacere risponda. Gli altri sono solo pregati di non disturbare”. Ma tutti, credenti e no, questi ultimi dapprima stentatamente, rispo- sero alla preghiera.
Alle diciassette la porta fu violentemente aperta. Una SS scese rumorosamente la scala e, preso per un braccio don Pompeo, lo spinse verso il piano superiore pronunciando in tedesco parole incomprensibili, ma che suonarono a tutti minacciose. Ritornando poi nello scantinato si guardò intorno ed indicato uno dei presenti, scelto a caso, lo invitò con un gesto a dirigersi verso la porta che aveva lasciato aperta.

Fausto Domeneghini, il figlio del pasticcere del paese, un uomo di circa 40 anni timido e introverso, che sicura- mente non aveva mai fatto male a nessuno, si trovò così a essere la prima vittima del furore tedesco. Insieme al sacerdote fu portato, da due SS grandi e gros- se, in una piccola stanza del primo piano. Una stanza desolatamente vuota ad eccezione di due sedie, una sistemata in un angolo e l’altra al centro della stanza. Sulla prima fu fatto sedere don Pompeo, al quale furono legate le mani dietro la schiena e le caviglie alle gambe della sedia. Sulla seconda il Domeneghini, al quale fu riservato lo stesso trattamento. Quando i due furono sistemati, la porta si aprì ed entrò lo Sturmbannführer, seguito da una pallida e tremante Annetta.
Questa, evidentemente sollecitata dall’ufficiale tedesco, chiese ancora al Parroco se intendeva o meno rivelare i nomi dei due assassini. Don Pompeo, pur preso da un attacco di panico, negò ancora la sua disponibilità. Annetta tradusse la nuova lunga frase che il Comandante le aveva detto, con voce quasi piangente
“Voi, don Pompeo, non sarete toccato, nessuno vuol prendersi la responsabilità di farvi del male. Ma il Fausto sarà picchiato sino a quando non cambierete parere. Ci pensi, per favore” soggiunse con fervore. Uno dei militi della SS si tolse la giacca, indossò un gros- so grembiule che chissà dove aveva trovato e che lo rendeva ancora più minaccioso, strinse nella mano destra un tirapugni in metallo, che si era tolto da una tasca dei pantaloni, e cominciò a colpire il Domeneghini che, tenuto dall’altra SS per i capelli, era costretto a mantenere il capo eretto.
Pugni violenti al viso, allo stomaco, alle spalle, alle gi- nocchia. Uno dietro l’altro, senza un disegno preordinato ma che erano mirati a fare più male possibile. L’uomo iniziò a urlare, mentre il viso diveniva una maschera di sangue perché il ferro del tirapugni lacerava i tessuti. Annetta, sempre più pallida, dopo poco si precipitò fuori della stanza e vomitò rumorosamente.
Don Pompeo più che impaurito era incredulo allo spettacolo che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Urlò anche lui, pregò che smettessero, li maledisse ma non ottenne nulla.
Allora si mise a pregare Dio, lo chiamò in causa perché intervenisse a fermare un simile obbrobrio. Quando la SS si fermò pensò di essere stato ascoltato. Ma quando questa, ripreso fiato, ricominciò nella sua azione distruttiva rimase muto, incapace di fare nulla.

Per fortuna il Domeneghini, non sopportando ulterior- mente il dolore, perse i sensi. Se non fosse stato trattenuto, sempre per i capelli, sarebbe caduto in avanti procurandosi altre lesioni. Il viso si stava gonfiando, l’occhio sinistro era scomparso sotto uno strato di sangue e neppure si vedeva se esistesse ancora. Ferite sulla fronte e sulle guance. Pure le ginocchia, colpite più volte, si vedevano sanguinare attraverso i buchi e gli strappi dei pantaloni. I due vennero liberati dalle sedie alle quali erano stati legati e trascinati nuovamente in cantina. Nessuno dei due si reggeva in piedi. Non il Domeneghini che non aveva ancora ripreso i sensi, ma che comunque non avrebbe potuto camminare soprattutto per i pugni ricevuti alle ginocchia; non il Pompeo che, come paralizzato dallo shock, non riusciva a muovere né le braccia né le gambe. Quando arrivarono in cantina e furono buttati sul pavimento, il terrore invase la mente di tutti i presenti. Erano talmente impressionati dalle condizioni del Do- meneghini che nessuno, per minuti, riuscì a muoversi per dargli aiuto. Un aiuto difficile da fornire, essendo to- talmente privi di acqua o di qualsiasi liquido per pulire e medicare le ferite.

 

XLI

Il fatto che il Parroco non avesse partecipato ai Vespri senza averlo avvertito preoccupò molto don Arlocchi. Infatti tutte le volte che don Pompeo non aveva potuto intervenire a una cerimonia per una qualsiasi ragione, si era sempre premurato di avvisare il suo coadiutore. Finita la recita del rosario aveva affidato la chiusura della chiesa al Silestrini, il sacrista, e si era diretto alla casa par- rocchiale per avere notizie del suo superiore. Probabil- mente non stava ancora bene: alla mattina quando lo aveva incontrato, anche se pieno di verve, era pallido e visibilmente stanco.
Quando arrivò in parrocchia gli aprì l’Elvira. Neppure lei aveva notizie di don Pompeo ed era preoccupata an- che perché era la prima volta che il Parroco non le aveva dato le solite precise istruzioni per la cena. “Fammi sapere, per favore, quando torna e come sta. La cosa è strana e sono veramente preoccupato. Chissà che cosa gli è successo?”
Si diresse verso la sua povera casa cercando, tra sé e sé, di trovare una spiegazione plausibile, ma non gli veniva in mente nulla di accettabile. Entrato nel portico si trovò improvvisamente davanti a una persona che, al momento, non riconobbe. Era una donna che, tenendosi stretta al corpo una pelliccia, tremava visibilmente.
Capì infine che era l’Annetta, la bella figlia dell’avvocato Duchi. “Cosa ci fai qui sulle scale? Cosa è successo?” le chiese calmo perché stava iniziando ad abituarsi alle visite strane in ore altrettanto strane. La donna si alzò in piedi e gli si buttò tra le braccia piangendo. “Ma cosa è successo, benedetta ragazza? Calma, calma vieni di sopra e raccontami tutto” e presala per un braccio la guidò verso il suo appartamento. In cucina la fece sedere, riempì un bicchiere d’acqua e glielo porse. Si tolse il tabarro, la sciarpa di lana ruvida che gli aveva fatto la sua perpetua ed una specie di papa- lina che portava sempre all’aperto, estate e inverno. “Bevi un sorso d’acqua. Se vuoi ti scaldo un caffè. Ma calmati, benedetta ragazza, che mi metti in confusione. Ci mancava anche questo, con tutti i pensieri che ho già per la mente”. “Li ammazzano tutti di botte, li ammazzano don Arlocchi. Oggi hanno picchiato a sangue il Faustino, il figlio del pasticcere, lo conosce, vero? Forse è morto” balbettò tra i singhiozzi la donna. “Ma chi, ma cosa? Io non capisco. Oh povero me, Signore Gesù, Madonna santa, aiutatemi, io non ce la faccio più. Calmati, prendi fiato e raccontami tutto se vuoi che capisca” e anche lui si lasciò cadere su una seggiola.

Annetta si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e, dopo aver tirato un paio di lunghi sospiri, raccontò tutto quello che era successo in sua presenza. Ogni tanto veniva interrotta, per chiarire qualche particolare, da un don Arlocchi sempre più agitato e che aveva iniziato a sudare abbondantemente. Quando Annetta arrivò a raccontare che il Parroco aveva riferito ai tedeschi di aver confessato due uomini di un paese vicino che si attribuivano la responsabilità di aver ucciso il soldato tedesco, don Arlocchi fece un salto sulla seggiola rimanendo con la bocca spa- lancata. Alla fine del lungo racconto il povero prete non sapeva più a che santo votarsi. Com’era il fatto che due persone avevano confessato al Parroco di aver ucciso il soldato tedesco se a lui lo avevano raccontato due perso- ne diverse? Ma quanti erano quelli che avevano fatto l’at- tentato? E perché avevano arrestato il suo Parroco se que- sti non aveva agito diversamente da quanto avrebbe fatto un altro sacerdote?
Le idee in testa si ingarbugliavano e lui cominciò a pas- seggiare avanti e indietro per la piccola stanza, bronto- lando tra sé e sé e cercando di mettere in ordine i fatti. – Un padre, un fratello, il Russì, il farmacista Temperini. Ma non è che Annetta aveva capito male? Il Russì e il far- macista non avevano sorelle ma, se per questo, non ave- vano neppure più un padre. E se uno dei due fosse anda- to a confessarsi anche da don Pompeo? Ma con quale scopo? Lui non aveva negato l’assoluzione, l’aveva solo rimandata. E poi di quelle cose così delicate meno gente ne sapeva meglio era. Ma se anche fosse andata così, il padre da dove spuntava? Oh Signore, io ti ringrazio per avermi fatto arrivare alla mia età senza dover affrontare grossi problemi. Ma negli ultimi tempi non è che stai un po’ esagerando? A me, un povero prete di campagna, non è possibile dare tutte queste responsabilità. Io non ce l’ho l’esperienza. A ognuno la sua croce, va bene. Io se devo portarla la porto, ma per dare aiuto agli altri in certe situazioni si deve avere o la predisposizione o l’e- sperienza. E io non ho né l’una né l’altra. Oh Signore e adesso io cosa faccio? Guidami tu, ti prego. Diciotto parrocchiani in carcere che rischiano di essere uccisi e con loro il mio Parroco. No, scusami Signore, ma è troppo. Madonnina, anche tu, dai, non negarmi il tuo aiuto. – “Annetta, vai cara, adesso tu vai a casa. Io mi metto a pregare e qualche soluzione la trovo, vedrai. Se è possibile te lo faccio sapere. Non dire niente a nessuno, per ora. Un segreto tra noi due. Se lo sanno in paese chissà cosa può succedere. Prendiamo tempo sino a domani mattina. E se puoi datti malata e non frequentare più quelle belve. Va’, va’ adesso. E prega anche tu per me che ne ho bisogno”. Così dicendo l’accompagnò alla porta che poi chiuse a chiave. La prima idea sensata che venne a don Arlocchi fu quel- la di avvisare il Vescovo di Brescia. Era un atto dovuto che permetteva anche di diminuire tutte le sue responsabilità. Mettersi nelle mani di un superiore, ascoltare i consigli, eventualmente eseguire gli ordini era la cosa migliore. E poi del Vescovo si diceva un gran bene. Era ostile ai tedeschi ma era riuscito a farsi rispettare e, in alcune occasioni, anche a farsi ascoltare. Dicevano avesse salvato molte persone da morte certa. Ma queste noti- zie si bisbigliavano solo tra amici perché non si poteva dire liberamente che i tedeschi uccidessero gli italiani.
Aveva ancora davanti mezz’ora prima della chiusura del centralino. Doveva fare in fretta, perché alle 20 le linee venivano interrotte d’ufficio e le comunicazioni cessavano. Si rivestì velocemente, prese quei pochi soldi che aveva dal cassetto della scrivania e corse verso l’ufficio postale, all’interno del quale vi era un piccolo spazio con il tavolo per la centralinista e due cabine telefoniche insonorizzate alla bell’e meglio. La centralinista, che era occupata a quell’ora a soddisfare, con le poche linee esistenti, le tante richieste di utenti che volevano telefonare, per un buon cinque minuti non diede retta al prete. Poi, senza neppure salutarlo, rispose alla sua richiesta di chiamare l’Arcivescovado di Brescia dicendo che se lui non aveva il numero neppure lei lo conosceva.
“E’ una cosa estremamente urgente, cara signorina” disse con un tono di voce e un cipiglio anche a lui sconosciuto “O lo cerca lei sull’elenco o mi dà l’elenco e lo cerco io. Tutto questo con estrema sollecitudine, per favore”. La donna, che conosceva il prete come una persona timi- da e introversa, fu colpita dal suo modo di fare e capì quanto la cosa fosse grave. Dopo pochi minuti disse: “L’arcivescovado di Brescia è in linea sulla due” riferendosi alla cabina numero due. Don Arlocchi, preso sempre più dai propri pensieri, ai quali si aggiungeva il disagio di dover parlare direttamente con il suo Vescovo, non capiva. Allora la centralinista gli fece cenno con la mano e il prete entrò nella cabina.
“Scusate il disturbo. Mi spiace tanto disturbare, davvero. Ho bisogno con urgenza di conferire con sua Eccellenza il Vescovo. E’ una cosa così importante, sa? Deve proprio passarmelo”.
“Le passo il Segretario. Aspetti!” rispose una voce sgarbata ed asettica. Dopo un tempo che a don Arlocchi sembrò lunghissimo, una voce da bambino malato chiese: “Chi vuol parlare con Sua Eminenza a quest’ora? Soprattutto per quale motivo?” e ribadì “A quest’ora”. Co- me per dire: ma dovete proprio disturbare in questo momento quando stiamo andando a cena?
“Sono un prete, sa, il coadiutore del Parroco di Breno, signor Segretario mi dispiace, sa, ma devo proprio parlare con Sua Eminenza. E’ una cosa grave e riservata”.

Il Segretario, probabilmente offeso dal fatto che lo si volesse saltare per una “cosa grave e riservata” – lui che del Vescovo godeva grande fiducia – avendo anche saputo degli arresti avvenuti a Breno, perdonò il suo interlocutore. “Vedo di fare quello che posso sperando di rintracciare Sua Eminenza” come se non sapesse che il prelato si era appena accomodato a cena nella grande sala da pranzo del palazzo vescovile. “Sono il Vescovo” arrivò alle orecchie di un tremebondo don Arlocchi il suono caldo e suadente del prelato “Sia lodato Gesù Cristo. Cosa posso fare per voi, figliuolo?” A questo punto, trovandosi in comunicazione con un personaggio così importante che lui aveva solo visto, e ammirato, a distanza, e con il quale non era mai riuscito a parlare né l’unica volta che era stato in Arcivescovado, né durante le visite pastorali a Breno per la somministra- zione delle cresime – tenuto sempre a debita distanza dal Parroco che voleva, solo lui, apparire al Vescovo – il cervello del povero prete andò, letteralmente, in acqua. “Sia lodato anche Lei Santità, no, scusate, Sua Eminenza. Mi prostro e bacio l’anello a Sua Eccellenza. Mi deve tanto scusare se la disturbo. Ma sono… in ambasce, sì, credo si dica così. Insomma non so proprio come dire. Ma qui a Breno stanno succedendo cose enormi, incredibili. Sì, proprio un’Apocalisse. Il Parroco è stato arrestato dai tedeschi perché ha detto che in confessione un padre ed un figlio hanno ucciso un soldato tedesco. Non so se sa. L’attentato lo chiamano. Ma io non so, perché io so che l’attentato lo hanno fatto altri due che hanno confessato a me, e la donna… non si sapeva nulla di una donna messa incinta, con rispetto parlando, Sua Eminenza. Sa io di queste cose non so, non capisco nulla. E adesso li vogliono ammazzare, tutti e 19, perché sono 18 più il Parroco. Vogliono ammazzare a bastonate i tedeschi. Ma no, cosa dico, oh Signur aiutami tu! Sono i tedeschi che vogliono ammazzare a bastonate i 18 che sono poi 19 perché c’è anche il Parroco don Pompeo Cappelletti, che Lei Eminenza sicuramente conosce. Io non so cosa fare. Mi aiuti Sua Eccellenza, mi aiuti, la prego”.
Il Vescovo che aveva cercato più volte di fermare lo sproloquio di don Arlocchi senza riuscirvi, in un momento di pausa, che il coadiutore si era preso per tirare il fiato, riuscì a intervenire. Con un tono fermo ma dolce, come se parlasse ad un bambino, riuscì a dire:
“Si fermi, figliuolo. Glielo ordina il suo Vescovo. Non parli e mi ascolti. Io non ho capito nulla di quanto ha cercato di dirmi. Ora io le farò delle domande ben precise e lei mi risponderà con calma e con precisione. I fatti, solamente i fatti e nulla di più. Ha capito?”
“Oh Sua Eccellenza, sì, ho capito, credo di aver capito. Sa io sono un povero prete ignorante di campagna e mi confondo quando parlo con Sua Eminenza. Che poi non è che ci sono abituato, che è la prima volta. Comunque mi domandi, per favore ed io, prostrato davanti a Sua Eccellenza, cercherò di rispondere nel modo migliore”. Il Vescovo iniziò a fare semplici domande precise e a ricevere risposte semplici e coerenti. Dopo dieci minuti era riuscito a rendersi conto della situazione e, non lasciando trasparire la rabbia che lo aveva assalito per il comportamento dello Sturmbannführer, cercò, prima di sa- lutare l’Arlocchi, di rassicurarlo promettendogli che non sarebbe stato lasciato solo. Non prendesse nessuna iniziativa prima che il suo Segretario, che avrebbe raggiunto Breno con il primo treno dell’indomani mattina, non si fosse messo con lui in contatto.
Solo dopo il termine della telefonata il Vescovo si rese conto di non aver neppure chiesto il nome al suo inter- locutore.

 

XLII

“Quel don Cappelletti, devo dire, non mi è mai piaciuto. Sempre sfuggente, un po’ viscido, mai un sorriso, con quel suo tono di voce monocorde…” stava dicendo al suo Segretario, dopo una parca cena consumata velocemente. “Ma, devo ammettere, una persona decisamente furba. Ha messo in scacco i tedeschi. O quanto racconta è vero e allora non possono né costringerlo a parlare, né possono uccidere degli uomini per pura vendetta e non quale ritorsione, trattandosi di un comune delitto, o si è inventato una grossa menzogna. Ma anche qui i tedeschi non possono fare nulla contro la popolazione. Si verrebbero a conoscere le parole del Parroco, i tedeschi sarebbero anche accusati di stupro e, dal punto di vista strettamente politico subirebbero una grande debacle. Sicuramente anche i fascisti non sarebbero d’accordo e la frattura già esistente tra loro e gli alleati tedeschi si amplierebbe a dismisura”.
“Don Mandelli, desidero che lei vada domani mattina a Breno, prima possibile. Non in auto perché apparirebbe una visita ufficiale. Può prendere il primo treno. La dispenso, data la gravità del fatto, di dire messa. Arrivato lassù contatti quel buon uomo del coadiutore”. “Si chiama don Arlocchi, Eminenza” lo interruppe il Segretario.
“Ecco, bene contatti don Arlocchi e poi, con le sue riconosciute abituali cautele, si informi presso la popolazio- ne. Quali sono state le reazioni agli arresti, quali i pensieri su don Cappelletti… beh, lei sa bene come fare in questi casi. Più si sa e meglio è. Rimanga a Breno tutte le ore necessarie, ma se ritiene vi sia qualcosa che devo sapere mi telefoni immediatamente. Mi pare io non ab- bia impegni fuori dall’Arcivescovado domani. Controlli, per favore. Anzi, mi lasci la lista delle cose che devo fare e delle persone che devo incontrare. A meno che la situa- zione di Breno si aggravi e allora saltino tutti i programmi. Un’ultima cosa, amico mio. Io intendo incontrare questa sera stessa il Comandante della Gendarmeria tedesca per riuscire a capire se e quali decisioni hanno preso. Lei mi accompagnerebbe? So che è molto stanco e che domani mattina dovrà alzarsi all’alba, ma abbiamo dedicato la vita a Dio e, quando è necessario, non possiamo risparmiarci”.
“Sempre a Sua disposizione, Eminenza. E’ solo un gran- de piacere poter collaborare con Lei e soddisfare i suoi desideri”.
“Ecco, bravo, troppo buono. Chiami i tedeschi, chieda del Colonnello Von Prisch e, se glielo passano, gli dica che voglio, meglio desidero, incontrarlo. Se è così gentile, olio, mi raccomando olio, di accettare ci andiamo subito e lei viene con me. Voglio un testimone… anzi, prenda appunti di quello che dirò. Potrebbe sempre servire a rinfrescarmi la memoria in caso di necessità”.
Quando la telefonata giunse al Comando tedesco, il Colonnello Von Prisch era in una concitatissima riunione iniziata alle 18 quando era giunta da Breno, portata da un motociclista, la dettagliata relazione dello Sturmbannführer. Von Prisch si era reso subito conto della gravità della situazione e aveva convocato nel suo ufficio il capo locale delle SS, il responsabile della polizia politica e i suoi collaboratori diretti.

La situazione in Italia era sempre più complicata. Il nu- mero dei partigiani aumentava di giorno in giorno, la popolazione italiana era sempre più ostile e gli alleati an- glo-americani, anche se bloccati temporaneamente all’al- tezza di Cassino, non erano sicuramente intenzionati a diminuire i loro sforzi di raggiungere velocemente il nord. Von Prisch, come tanti degli ufficiali tedeschi, aveva capito che la guerra per loro era persa e che bisognava pensare al dopo, evitando di creare nuovi motivi di rea- zione da parte della popolazione italiana.
Mettersi apertamente contro il Vaticano, poi, pretendendo da un sacerdote di tradire il suo mandato in un momento così delicato, sarebbe stato un nuovo passo falso. Chiaramente le SS, tanto invaghite del loro Führer da non capire che ormai erano pura follia le sue azioni asse- tate di sangue, pretendevano che venisse compiuta un’a- zione punitiva nei confronti degli arrestati. Anche senza una prova della loro colpevolezza. Per fortuna il peso del pensiero delle SS nei comandi militari diminuiva conti- nuamente. Venivano considerati dei rompiballe, anche se dei temibili rompiballe. All’arrivo del Vescovo il colonnello fece uscire tutti dal suo ufficio. Spalancò le due finestre per liberare la stanza dal fumo dei sigari e delle troppe sigarette che i mili- tari avevano nervosamente fumato nel corso delle 3 ore di riunione. Fece accomodare il prelato su una delle due comode poltrone Frau che si era portato con sé nel corso dei numerosi spostamenti e alle quali non voleva rinunciare per nessuna ragione. Quando vi si sedeva a riposa- re – e la cosa avveniva sempre più raramente – si sentiva un po’ a casa sua. Gli erano state, infatti, regalate da frau Angela, la sua adorata moglie che non vedeva ormai da oltre un anno, per arredare il suo vero primo ufficio a Karlsruhe quando, promosso al grado di Haupmann, era stato mandato a comandare quel distretto.Prese posto nell’altra lasciando che il Segretario usasse una sedia alle spalle del Vescovo.

Dopo i primi convenevoli, il colonnello si alzò, prese una scatola di sigari – conosceva l’unica debolezza del Ve- scovo – la porse all’ospite che, con un ampio sorriso, di- mostrò la sua riconoscenza. Ignorando poi il Segretario, ne scelse a sua volta uno e si rimise a sedere.Sembrava un normale incontro tra amici. Mancava solo un bicchiere di un buon vino d’annata o un sorso di brandy per renderlo più piacevole. Ma il colonnello era diventato drasticamente astemio dopo che il padre, alcoolizzato, era morto di cirrosi epatica. Due uomini di azione, come erano i nostri, non potevano perdersi in lunghi convenevoli. Il primo a introdurre lo scontato argomento fu il Vescovo.Con parole durissime condannò il modo di agire di questi giovani ufficiali.“Non dico solo tedeschi sa, caro colonnello. I giovani d’oggi sono tutti cresciuti nutrendosi di materialismo e la parte spirituale dell’esistenza, che dovrebbe essere la predominante, è misconosciuta, dimenticata e calpestata”. Tornando ai fatti specifici, dichiarò inaccettabile che un sacerdote fosse stato incarcerato unicamente perché si rifiutava, secondo le regole canoniche, di infrangere il segreto della confessione.
“Non ho ancora riferito nulla alla Santa Sede ma sarò costretto a farlo se niente avverrà entro 24 ore. Non vuo- le essere un ricatto, caro colonnello, ma anch’io ho dei superiori ai quali sono tenuto a riferire”. Con grande meraviglia del Vescovo e del suo Segretario la risposta di Von Prisch fu pronta e chiara. Riteneva il giudi- zio del Vescovo sui giovani un po’ troppo severo ma condivideva la preoccupazione che le nuove generazioni non crescessero più con quei principi e quella cultura che erano sempre stati il vanto di nazioni come l’Italia e la Germania. “Mala tempora currunt” continuò il colonnello, “e quando è in pericolo la sopravvivenza, la parte spirituale della vita, inevitabilmente, passa in secondo piano”. Al colonnello, che parlava un italiano fluente, piaceva mettere in evidenza la sua cultura e, quando aveva avuto occasione di incontrare il Vescovo, gli aveva confessato, un po’ vantandosene, un po’, da uomo di preparazione militare, vergognandosene, di aver effettuato profondi studi di filosofia all’università di Bamberg.“Ma veniamo ai fatti di oggi” proseguì il Colonnello. “Io sono d’accordo con Lei che la cosa è stata mal gestita, lo stavo proprio sostenendo poco fa con i miei aiutanti. Sono lieto della sua visita perché ho l’occasione per chiederLe di collaborare perché tutto venga messo a tacere. Noi rilasceremo gli uomini arrestati e il suo sacerdote. Il suo sacerdote non comunicherà a nessuno quanto ha saputo in confessione. Lei quindi non ha saputo nulla e tanto meno il Vaticano. Affossiamo tutto”.
“Mi sembra un accordo ragionevole, signor colonnello” rispose il Vescovo che non aveva sperato tanto e cercava di nascondere la gioia che lo aveva invaso.
“E come faccio ad essere sicuro che verrà rispettato?” “Promissio boni viri est obbligatio, ammesso che Lei mi ritenga un uomo onesto”.
“Certo, lo penso. Anzi ne sono sicuro” rispose il Vescovo. “Abbia la compiacenza di attendermi un attimo. Ho un motociclista che deve rientrare a Breno e devo comunicargli le nostre decisioni. Poi finiremo, in santa pace – mi passerà questo termine signor Vescovo – i nostri sigari”. “Sa, quasi quasi gli chiedevo se il motociclista non potesse dare a lei un passaggio sino a Breno. Poi mi è sembra- to sconveniente, non per lei, ma per il colonnello” disse il Vescovo, che era preso da un’incontrollabile allegria dopo la tensione di tutte le ore precedenti, mentre lui e il suo Segretario rientravano in arcivescovado. Il Segretario non capì lo scherzo e rimase in silenzio a testa bassa. “Domani mattina però, la prego, vada ugualmente a Breno. Magari non con il primo treno, ma presto comunque, per controllare che tutto si risolva, effettiva- mente, nel migliore dei modi. Mi spiace di non poter avvisare io il povero don… come si chiama, ah sì, Arlocchi, ma se il motociclista arriva per tempo e l’ordine viene eseguito subito, in paese si farà sicuramente festa e anche lui vi parteciperà”.

(continua…)

 

 

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