“L’orto fascista” Romanzo / 3

Questo romanzo è pura opera di fantasia. I luoghi citati appartengono solo alla geografia dell’invenzione letteraria. Nomi, personaggi, fatti e avvenimenti sono invenzioni dell’autore e hanno soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

***

VI

 

Quell’anno la famiglia di Ernesto non aveva trascorso l’abituale vacanza al mare. Tutti erano preoccupati per le vicende politiche e della guerra in corso che non lasciavano spazi a programmi festaioli. Però alla fine di agosto suo papà era riuscito a trovare qualche giorno di riposo e fu così che, in fretta e furia, la famiglia fece i bagagli per dieci giorni di vacanze in alta Val Camonica, a Pezzo, un paesino nei pressi del Passo del Tonale. Poco più di quattro case con un alberghetto dal nome pretenzioso “Alte vette” ma che era poco più di una locanda. Le camere avevano un arreda- mento approssimativo, ma la cucina era buona e il paesaggio stupendo: fitti boschi, ruscelli e pascoli pieni di vacche che attendevano l’inizio dell’autunno per scendere a valle lasciando gli alpeggi. Una mattina, all’alba, una vettura di servizio era arrivata in albergo a prendere suo papà per portarlo al Comando dei Carabinieri di Brescia. Era successo qualcosa di vera- mente grave, che però Ernesto non comprendeva completamente: il piccolo, borioso e pauroso Re d’Italia e Imperatore di Etiopia, preso dalla paura per l’imminente invasione dell’Italia da parte delle truppe americane e inglesi, aveva firmato l’armistizio con i nemici abbandonando gli alleati tedeschi. Poi, il Re Cialtrone, tremante ma abbastanza lucido da portare con sé tutti i beni possibili, compresa la sua collezione di monete dal valore inestimabile, era fuggito per mare, a bordo di un incrociatore, lasciando nei guai più assoluti i suoi sudditi, ma soprattutto i soldati che gli avevano giurato fedeltà. I generali non sapevano come comportarsi e i soldati, che si sentivano abbandonati, avevano in massa gettato le divise dandosi alla macchia.
Intanto i tedeschi, traditi dagli italiani, con le truppe inviate in Italia dopo il 25 luglio di quell’anno – quando Mussolini era stato arrestato per ordine del Re e l’al- leanza con l’Italia stava traballando – avevano occupato, con la perfetta organizzazione che possedevano, tutti i punti chiave, compreso il Comando della Legione Carabinieri di Brescia.
Molti dei soldati che avevano lasciato l’esercito avevano cercato di rientrare ai loro paesi di origine. Altri, non sapendo dove andare né a quale santo votarsi, avevano lasciato le città, dove potevano essere facilmente riconosciuti a causa della giovane età, prendendo la via delle valli e delle montagne. In Val Camonica ne erano arriva- ti parecchi. Erano stati accolti con simpatia e con amore dai contadini e dai pastori che riconoscevano in loro i figli che si trovavano al fronte o che avevano perso nel corso della guerra.
Ben presto i tedeschi emanarono una legge marziale intimando ai fuggiaschi di rientrare nei ranghi, pena la morte. Pochi risposero all’invito, preferendo rischiare la pelle in attesa dell’arrivo dei liberatori anglo-americani piuttosto che combattere agli ordini di chi ritenevano ora fosse il vero nemico. Infatti si cominciava a diffondere la voce che i tedeschi non avevano accolto a braccia aperte come avevano promesso, i soldati rientrati nelle loro caserme. Buona parte di loro, infatti, era stata avviata in campi di concentramento e di sterminio in Germania.

Anche a Breno arrivarono sei militari tedeschi, tutti uomini di una certa età tranne Bernd, un giovane che aveva fatto domanda di entrare nell’esercito tedesco non- ostante fosse riformato perché gravemente menomato alla mano destra. La perdita di tre dita, indice, medio ed anulare non gli permetteva di premere il grilletto di nessun tipo di arma da fuoco.
Erano giunti a bordo di una di quelle vetturette che ave- vano proprietà anfibie e che si arrampicavano sui sentieri montani con estrema facilità, oltre a una motocicletta munita di sidecar che nessuno in paese aveva mai visto. Si erano installati in tre camere dell’albergo Fumo in piazza del Mercato, proprio vicino alla vecchia casa dei nonni di Ernesto. A vederli sembravano dei bonaccioni, ma gli ordini che avevano ricevuto erano feroci e dove- vano essere eseguiti senza esitazione. Avevano il compito di individuare e catturare i partigiani, interrogarli anche con la tortura, e quindi passarli per le armi. Avevano l’appoggio incondizionato della Milizia Fascista, special- mente delle Brigate Muti che avevano già avuto occasione di dimostrare la loro ferocia.
Una delle prime operazioni di rastrellamento era avvenuta a Bienno, dove, con l’aiuto di quel Parroco che il Cappelletti voleva segnalare ai fascisti, erano stati accolti alcuni fuggiaschi. Si vociferava del coinvolgimento di don Pompeo, tanto amico dell’OVRA. L’intervento dei tedeschi e dei loro collaboratori della Muti era stata immediata. Furono presi degli ostaggi e minacciati di morte, ma la reazione degli abitanti del piccolo paese fu violenta, per quanto potesse esserlo la reazione di uomini e donne armati solo di attrezzi agricoli contro tedeschi e fascisti ben forniti di armi per quei tempi ritenute sofisticate. I morti furono parecchi e anche qualcuno delle Brigate Muti ci lasciò la pelle. Nel giro di pochi giorni il clima della valle era completamente cambiato: da una sonnolenta esistenza ad una situazione di guerra.
I tedeschi, con i soli due veicoli, pochi ma efficientissimi, si spostavano velocemente da una parte all’altra della valle e avevano il controllo delle principali vie di comu- nicazione. Qualche volta si inoltravano nei sentieri che salivano verso i monti per rapide incursioni.
Anche al bar Monte Grappa l’atmosfera era cambiata. Non più allegri pomeriggi e serate all’insegna del vino e delle battute salaci, ma incontri tra uomini che più non si fidavano dei vecchi amici; dove i sospetti, magari generati da una parola di troppo, rendevano tutti insicuri e timo- rosi. Persino il farmacista era sempre triste: gli avevano sequestrato il fucile da caccia proprio all’inizio della stagione venatoria e non aveva più la possibilità di raggiungere i casolari isolati per le sue avventure senza rischiare di essere intercettato dai tedeschi. L’andare e venire dal paese senza uno scopo evidente poteva portare a gravi sospetti. Il coprifuoco, imposto dai fascisti, obbligava tutti ad esse- re a casa alle nove di sera. E chi, come il Temperini, aveva un letto freddo, ne era particolarmente colpito.

 

VII

Le lezioni erano riprese nelle piccole aule della scuola di Breno, in ciascuna si accalcavano oltre trenta scolari. Alla signora maestra Lucia quell’anno toccava insegnare alla quarta classe. Erano quasi tutti maschi: le femmine avevano abbandonato la scuola in gran numero alla fine del primo ciclo. Gli scolari appartenevano a tutte le classi sociali: figli di contadini, di operai della Fonderia Tassara – l’unica grande fabbrica del paese – di qualche commerciante e di un paio di professionisti. L’unico nuovo allievo, Ernesto, veniva da Brescia: era il figlio del Comandante del Gruppo dei Reali Carabinieri della città. La sua famiglia, tranne il padre che aveva dovuto restare al suo posto di comando, si era trasferita a Breno per sfuggire ai bombardamenti, accolta nella grande casa del nonno materno, personaggio molto importante e conosciuto in tutta la Valle Camonica essendo un Generale degli Alpini in pensione.
Ernesto era un bambino molto più alto della media, magro magro. Si sentiva spaesato tra i nuovi compagni che comunicavano tra loro quasi sempre in un dialetto per lui incomprensibile. Quando poi si seppe che era nato a Bengasi, in Libia, divenne quasi un’attrattiva per tutti i bambini, guardato con rispetto ma anche con sospetto. Tutti pensavano che non fosse uno di loro. Anche la maestra aveva una sorta di riverenza nei suoi confronti: sia perché papà e nonno erano delle personalità impor- tanti, sia perché la famiglia era culturalmente avanzata ed avrebbe potuto valutare con senso critico il suo operato. D’altra parte insegnare in una classe nella quale vi erano figli di persone assolutamente analfabete e figli di famiglie acculturate non era sicuramente facile. Bisogna- va avere tatto, rispetto e pazienza con i primi rimanendo vigili affinché gli altri non si annoiassero ripetendo più volte cose, per loro, ovvie. E poi una buona maestra doveva anche fare in modo che gli scolari socializzassero tra loro, eliminando le differenze tra gli strati sociali. Bi- sogna dire che Lucia in tutto questo metteva un lodevole impegno avendo vissuto sulla propria pelle, lei, figlia di un netturbino, grandi disagi.

Quando Ernesto cominciò a stringere le prime amicizie e a frequentare i nuovi compagni anche fuori dalla scuola, si accorse di quante cose non sapesse della vita. Uno degli argomenti più trattati era il sesso. I figli dei conta- dini sapevano tutto sugli accoppiamenti degli animali, sia bovini che cani o gatti, ma anche quello che succede- va molto spesso nel letto dei loro genitori in quanto, data la ristrettezza delle loro abitazioni, a volte dormivano tutti nella stessa camera.
Lui non capiva molto bene l’importanza di questi argo- menti in quanto non si era posto mai il problema di sapere se fosse stato concepito e tanto meno come. Ma la cosa fece violentemente irruzione nei suoi pensieri quando, un sabato pomeriggio, recatosi con tutti i ragazzi del paese che avevano già ricevuto la prima comunione, a confessarsi, il vice Parroco, don Arlocchi, gli chiese se “si era toccato”. Lui ci pensò su bene, senza capire il senso della doman- da. Sapendo che non poteva mentire e che sicuramente si era toccato lavandosi le mani, la faccia, le gambe, rispose di sì. Il vecchio prete gli fece una predica conci- tata della quale lui non capì il significato, tranne che queste cose non si fanno e gli comminò, come penitenza, sette Pater, Ave e Gloria.
Ernesto uscì dalla chiesa che quasi si sentiva male. Come avrebbe potuto continuare a vivere? Fu il Mario Bertolasi a dargli il primo aiuto. Vedendolo così di cattivo umore e ben avendo sperimentato l’Arlocchi, capì subito che qualcosa era successo in confessionale. Gli si avvicinò e, senza preamboli, gli chiese:
“T’ha dumandà se te set tucà l’usel? L’ha vulu anche sapee’ come e se te ghel faseved vide?”
Il povero Arlocchi, che nonostante il suo caratteraccio, era in effetti una gran brava persona, era tacciato di tendenza alla pedofilia dagli stessi ragazzi che lo frequentavano e che lui, soprattutto in confessionale, tendeva ad abbracciare ma per puro affetto. Non si era sentito dire che avesse mai avuto altre confidenze con i bambini. L’unica cosa strana era che si infilava, sempre con qualche scusa, negli spogliatoi dell’oratorio quando, dopo qualche partita di calcio o qualche altro gioco prolungato chi, avendo a disposizione vestiti di ricambio – ed erano in pochi – li sostituiva con quelli sporchi di sudore. Di docce, a quei tempi, non si parlava neppure. Ernesto rimase alquanto imbarazzato. Ammettere di non aver capito cosa significava la domanda del prete valeva anche come ammissione di non sapere niente del proprio corpo e dei suoi stimoli. I pensieri gli frullavano in testa sconclusionatamente e lui non riusciva a dar loro un ordine logico né una priorità. Guardò con qualche riconoscenza il compagno, ma non aveva coraggio di raccogliere il suo aiuto e si allontanò senza salutarlo.

A casa disse alla mamma di avere mal di stomaco e all’ora di cena preferì andare a letto senza aver mangiato. In effetti voleva star da solo e ripensare a tutti gli eventi della giornata mettendo un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Ma non sapendo da dove cominciare ben presto si distrasse e si addormentò. La mattina dopo a scuola, durante l’intervallo, mentre mangiucchiava due fichi secchi ed una noce – la meren- da tanto invidiata da alcuni compagni che non avevano nulla – gli si avvicinò il Bertolasi che senza altri preamboli gli chiese:
“Ma tu una donna nuda l’hai mai vista?” “No” fu la secca risposta.- Ma che interesse può avere vedere una donna nuda? – pensò Ernesto che però rimase assai turbato.
Per tutto il resto della mattinata non prestò alcuna attenzione alle lezioni perché la domanda del compagno continuava a rigirargli in testa. All’uscita della scuola il Bertolasi lo raggiunse mentre svelto se ne stava tornando a casa e gli disse: “Se vuoi il Sergino ti fa vedere sua mamma” e senza attendere risposta si unì a due amici mettendosi a gioca- re a spallate.
Dopo pranzo, finiti i compiti, Ernesto scese in piazza, proprio sotto casa, dove tanti bambini si ritrovavano per giocare a pallone, con una povera palla fatta di stracci, o a “chi manda in gozza cagna. Questo gioco molto in voga in paese si praticava con delle palline di terracotta. Si faceva una piccola buca, a volte togliendo un sasso dall’acciottolato. Da un paio di metri dalla buca si lanciava la propria pallina e chi riusci- va a sistemarla più vicino alla buca stessa giocava per primo. Doveva colpire con la sua pallina quella dell’av- versario o degli avversari e ad ogni impatto contava “tre!”, “sei!”, “nove”, sino a “18”. Si doveva quindi tirare in buca la pallina. Chi riusciva faceva – non si capisce perché, se non per la rima – “pancotto”. Se si sbagliava un colpo toccava all’avversario giocare. Chi riusciva a fare “pancotto” vinceva le palline degli avversari.
Le biglie erano molto fragili e, essendo probabilmente fatte a mano, di forma molto irregolare. L’urto contro i sassi dell’acciottolato le scheggiava o, addirittura, le rompeva. Ovviamente chi rimaneva senza palline non pote-va giocare e quindi cercava di scambiare qualsiasi cosa per procurarsele.
Il Sergino, che non era un gran giocatore e di palline ne perdeva molte, aveva inventato uno scambio semplice e proficuo. Tutti i sabati pomeriggio sua madre, una gran bella signora con ampie curve, si lavava nel bagno di casa che era dotato di una delle poche vasche del paese. I bat- tenti della porta del bagno erano sovrastati da una finestrella di vetro, attraverso la quale si poteva vedere tutto quello che avveniva all’interno. Il Sergino trasportava fuori della porta una leggera scala di legno e, dietro pagamento di un determinato numero di palline, lasciava salire sulla scala, nel massimo silenzio, il pagatore a godersi lo spettacolo.

Quel giorno non gliene andava bene una: perse quattro partite di seguito e tre palline, nell’urto contro i sassi, si ruppero miseramente. Era arrabbiatissimo ed invidioso dell’Ernesto che, si vedeva, aveva una tasca piena di palline e continuava ad aumentarne il numero vincendo una partita dietro l’altra.
“Domani è sabato” disse il Sergino ad alta voce perché tutti i bambini lo sentissero. Tutti smisero di giocare e scese un gran silenzio. Ciascuno mentalmente fece il conto di quante palline potesse offrire per poter fare da spettatore. Il Bertolasi parlò per primo e disse: “E’ ora che ci venga l’Ernesto. Io penso che ti possa dare venti palline!”
Un “ohh” meravigliato uscì dalle bocche dei presenti. Venti palline erano una piccola fortuna! Il Sergino guardò l’Ernesto che era rimasto frastornato – ma ormai il destino aveva già deciso per lui – con estremo interesse e poi allungò verso di lui le due mani avvicinate a coppa. Contò le venti palline e le diede al compagno di giochi. “Alle cinque” disse il Sergino e trionfante si allontanò dal gruppo. Alle cinque meno un quarto l’Ernesto si presentò a casa dell’amico. Provava una strana sensazione: gli pareva di non essere presente totalmente con la mente e di navigare su un mare non completamente calmo che gli dava, insieme a una lieve sensazione di vertigine, un po’ di nausea. Non sapeva esattamente cosa andasse a vedere né quanto gli interessasse, ma sapeva che DOVEVA andarci. Suonò alla porta che si aprì immediatamente, come se Sergino fosse dietro la stessa in attesa. Imboccarono un lungo corridoio ed entrarono in una stanza mettendosi a giocare con delle figurine, in attesa di veder passare la mamma diretta verso il bagno che si trovava in fondo al corridoio.
Non dovettero aspettare molto. Con l’immancabile sigaretta tra le labbra, fasciata in una vestaglia rosa, la donna passò davanti alla porta senza interessarsi né del figlio né dell’ospite. Sembrava leggermente in trance, forse appena risvegliatasi da un sonnellino pomeridiano.
Entrata nel bagno la porta fu chiusa a chiave. Sergino corse a prendere una leggera scala di legno che appoggiò sulla parete a lato della porta. Chiamò a gesti l’Ernesto, si pose il dito indice sulle labbra a raccomandargli di fare silenzio e, dopo avergli indicato di salire sulla scala, se ne andò correndo senza far rumore.
Ernesto salì lentamente, quasi controvoglia, sino alla finestrella. Gli era venuta una violenta paura di andare a vedere cose “proibite”, ma soprattutto di essere scoperto. In un attimo vide la madre di Sergino raccontare alla sua come e dove l’aveva sorpreso. Sua mamma che, scoppiata in lacrime, lo guardava con dolore e disprezzo con quei suoi occhi verdi che già di solito, difficilmente, esprime- vano affetto. Ma si fece coraggio e guardò: la donna stava inginocchiata davanti allo scaldabagno. Una stufa alta circa un metro e mezzo, di forma cilindrica, ricoperta da un lungo tubo di rame che saliva a serpentina verso l’alto e dentro al quale, evidentemente, scorreva l’acqua da scaldare. La donna stava accendendo il fuoco con un pezzo di giornale e qualche ramoscello secco: aggiunse tre o quattro pezzi di legna e richiuse lo sportello. Si rialzò ed andò davanti allo specchio. Diede con le dita qualche col- petto alla capigliatura quasi a volerla aggiustare e, volgendo con malizia la testa un poco verso destra e poi verso sinistra, rimase a contemplarsi con sulle labbra un leggero sorriso di soddisfazione. E aveva ragione, pensò Erne- sto: aveva veramente un viso ben formato, occhi chiari e vivissimi, un sorriso smagliante nonostante le tante siga- rette che fumava da anni.

Poi si tolse la vestaglia, rimanendo nuda, dando le spalle alla porta. Ernesto, preso alla sprovvista, per poco non ruzzolò dalla scala ma, ripresosi, scese con lo sguardo lungo il corpo esposto totalmente alla sua vista, fermando- si a rimirare le chiappe, un po’ grosse, ma ben tornite. La sua attenzione fu immediatamente attratta da qualcosa di più interessante: i seni riflessi dallo specchio. Lei appoggiò le palme delle mani sotto di loro quasi a soppesarli, li spin- se verso l’alto e quindi uno contro l’altro. Intanto aveva cominciato a canticchiare con quella voce, leggermente rauca, che tanto arrapava gli uomini. Un leggero sorriso di soddisfazione confermò che anche questa parte del corpo riceveva l’approvazione della sua proprietaria.
Infine quel corpo nudo si voltò ed Ernesto rimase a bocca aperta quando vide una selva di peli biondi e ricci, a forma di triangolo, che scendevano da pochi centimetri sotto l’ombelico sino all’inizio delle cosce. E sotto o so- pra i peli nulla, nulla di lontanamente paragonabile a quello che aveva lui in quella posizione. Anzi, PROPRIO ASSOLUTAMENTE NULLA!
La donna fece due passi avanti e si mise a sedere sul water. Poi si udì chiaramente il rumore del liquido che usciva dal suo corpo. Aveva fatto pipì. Ma da dove era uscita? Non gli rimase che pensare che le donne fossero come le mucche, che aveva visto tante volte fare i loro bisogni, liquidi o solidi che fossero, usando sempre lo stesso buco. Ma ci avrebbe ripensato poi, adesso era troppo occu- pato a guardare quel corpo che gli veniva offerto, vera- mente in tutta la sua nudità. Lei lasciò il water, lo richiuse con la tavoletta e si avvicinò allo specchio prendendo dalla mensola un paio di pin- zette. Iniziò a togliersi qualche pelo dalle cosce e poi scese sotto le ginocchia. E poi più in basso. Ma per comodità si risedette sul water, alzò la gamba destra e appoggiò il piede sulla parte anteriore della tavoletta. E fu allora che Ernesto la vide: una ferita, aperta, rosea che iniziava da sotto i peli e finiva giù quasi all’attaccatura delle natiche. Questa volta non rimandò il proponimento di cercare di capire in un secondo momento. La cosa lo intrufolava troppo, doveva vedere bene e, se possibile, capire.

Purtroppo la depilazione della parte inferiore della gam- ba durò poco tempo, ma a lui il tempo sembrò ancora più breve.
Iniziò poi la depilazione della gamba sinistra ma, quando fu raggiunta la posizione che Ernesto tanto attendeva, dalla sua angolazione non si riusciva che a vedere la parte laterale della coscia sinistra e una chiappa. Un leggero sudore, lui che non sudava mai, cominciò a bagnargli le spalle e uno strano formicolio si fece sentire nella zona del basso ventre. Ma lui non poteva ancora capire da cosa, effettivamente, queste due sensazioni derivassero. L’acqua, finalmente calda, aveva cominciato a scendere nella vasca e quel corpo nudo, bagnato ed insaponato pareva ancora più bello. La donna si massaggiava tutto il corpo insaponandosi e traendone un evidente piacere. Alla fine uscì dalla vasca e, aiutandosi con un telo azzurro che ben si addiceva al colore dei suoi capelli, a quello dei peli e della pelle, cominciò ad asciugarsi con lenta lascivia. Prima il seno, le spalle, poi il ventre, i peli del pube e poi… e poi si dedicò alla ferita che per un mo- mento apparve ad Ernesto, leggermente aperta, rosea. Come un fiore di primavera! A questo punto non ce la fece più, scese dalla scaletta e fuggì via.

VIII

Un gigante dagli occhi verdi e dai capelli rossi, una leggenda tra i pastori dell’alta valle che lo consideravano il loro re. Uno che non sbagliava mai l’accesso a un pascolo, che non aveva mai perso una bestia in vita sua, che era capace di caricarsi in spalla un vitello, nato prematuramente, e portarlo, camminando ore e ore, alla
stalla a valle perché ricevesse le necessarie cure.
Era il padrone delle montagne che dividevano la Val Camonica dalla Val di Scalve. A lui si rivolgevano i gros- si allevatori per affidare le vacche da portare agli alpeggi, sicuri per la loro incolumità e perché fossero fatti onesti conti sul formaggio prodotto dal latte dei loro capi. Ma anche escursionisti che volevano raggiungere le alte vette che si affacciavano sulla valle, senza correre grossi rischi. Sapeva in anticipo di ore se il tempo sarebbe cambiato, conosceva le pareti ove era possibile raccogliere le stelle alpine, dove aveva fatto il nido il gallo cedrone o il for- cello, dove cacciare, d’inverno, le lepri dal mantello bianco, le grasse marmotte o quei pochi daini che erano rimasti. Sapeva cucinare i peluc raccogliendoli al momento della giusta maturazione, annegandoli nel burro di baita che ha quel poco di profumo di affumicato che esalta il palato. Peluc e polenta: un piatto da grande intenditore. La mascherpa, pur nella sua povertà, fatta da lui aveva quel qualcosa in più da essere richiesta dalle ricche famiglie del bresciano.
Uno di quei personaggi dei quali, come si dice, si è perso lo stampo. Il suo corpo emanava uno strano odore, non di sporco, ché ci teneva moltissimo alla pulizia persona- le, ma quasi di selvatico, un odore che piaceva alle donne (e molte, anche tra le così dette della buona società, se ne dovevano essere impregnate in esaltanti incontri amorosi) ma che gli permetteva anche di poter avvicinare gli animali che cacciava a distanze molto inferiori a quelle che erano consentite agli altri cacciatori.
La sua pazienza negli appostamenti era proverbiale. Riusciva a stare ore fermo alla posta in attesa che la preda, ormai sicura di non essere braccata, gli arrivasse a porta- ta di tiro, un solo tiro, che quasi sempre risultava morta- le. Vederlo tirare al gallo cedrone in volo, quando scendeva rasente le cime degli alberi dalle vette a 100 chilo- metri all’ora, era uno spettacolo che, purtroppo, era con- cesso a pochi. Lui e il suo bracco, di nome Diana, erano veramente leggendari.
Aveva più di sessant’anni ma ne dimostrava venti di me- no con quel fisico possente, ancora elastico nel camminare e nell’arrampicarsi.
Nemico da sempre dei tedeschi, o comunque di tutti quelli che parlavano quella lingua dura adatta solo al comando, che gli avevano ucciso il fratello, nei primi giorni di battaglia della guerra ’15-’18.Aveva odiato Mussolini da quando si era alleato coi cruc- chi per combattere le altre nazioni europee. L’arrivo dei militari, alleati o occupanti a seconda dei punti di vista, in paese lo aveva reso ancora più restio a venirci se non quando aveva necessità di qualcosa di urgente. E quel giorno ci stava andando per rifornirsi di sale, tabacco e fiammiferi. Sarebbe stata una visita breve dal solo tabac- caio, se non avesse fatto due incontri che gli cambiarono la vita per molto tempo.

Appena finito il viottolo che portava al Cerreto del mat Ruscun e arrivato in piazza S. Agostino, vide venirgli in- contro, uscito precipitosamente dalla farmacia, il dott. Temperini. I due, vecchi compagni di escursioni, grandi bevute e battute di caccia, neppure si salutarono. Il farmacista, quando gli arrivò a pochi metri, gli sussurrò: “Andiamo a bere un bicchiere che ho da parlarti”.
Entrarono nel bar, vuoto a quell’ora della mattina, si diressero al bancone e, fattosi dare un bicchiere di vino, si accomodarono a un tavolo d’angolo. Il farmacista entrò subito in argomento:
“Russì, così non si può andare avanti, siamo diventati tutti delle signorine. Capisci, sei tedeschi tengono in scacco tutto un paese, tutta una valle… e noi non facciamo niente. Cacciamo giù tutto come se fosse una cosa naturale. A quelli dobbiamo dare una lezione”. Il Russì lo guardava serio, continuando a muovere lo sguardo a destra ed a sinistra per controllare che nessuno li ascoltasse, ma era attento e continuava ad annuire alle parole del Temperini. “Con quella maledetta macchina corrono su e giù per la valle tutto il giorno e ci tengono tutti sotto controllo; non si può uscire dal paese perché quelli della Muti gli danno una mano e all’improvviso te li trovi davanti in qualsiasi viottolo che va verso i monti. E se ti fermano, vogliono i documenti… e perché si trova qui? e da dove viene? e cosa c’è nella borsa? e di qua e di là. Russì, son tre mesi che non scopo, non riesco più ad andare a trovare le mie ami- che! Ma non è per quello, è che se ci caghiamo tutti addosso per noi è finita. Nel ’18 avevamo conquistato un po’ di dignità, ma ora l’è finita sotto i piedi!” Il Russì stette in silenzio un paio di minuti e poi disse, sottovoce ma risoluto:
“Gli facciamo saltare in aria la macchina!” Il farmacista sgranò gli occhi, lo guardò fisso e poi, menandogli una gran botta su una coscia, si mise a ridere e a voce altissima gli disse:
“Cristo, sei sempre il migliore”, pensando scherzasse. Poi lo guardò meglio in faccia e dalla sua espressione, così dura, capì che la decisione era seria, forse maturata da tempo come se tutto fosse già programmato, qua- si già avvenuto. “Fermati al Fumo che ci mangiamo qualcosa insieme. Andiamo nella tana del lupo così nessuno dubiterà di niente. Ci vediamo a mezzogiorno” disse il farmacista diventato a sua volta teso e pensieroso. Russì fece un cenno di assenso, si alzò e, mentre il farmacista si avvicinava al banco per farsi riempire nuovamente il bicchiere, uscì dal locale. I discorsi del farmacista gli avevano risvegliato pensieri che gli giravano nel cervello da tanto tempo. Pensieri che non aveva mai elaborato ma che erano sicuramente dettati da un profondo stato di disagio e che ora lo stimolavano, fortemente, a fare qualche cosa. Adesso aveva fretta, già che era in paese, era meglio se riusciva ad incontrare le persone giuste per poter cominciare a programmare l’attentato. Come sempre quando avvistava una preda si lasciava prendere dalla smania di iniziare l’inseguimento – in questo caso la preparazione – per raggiungere lo scopo. Mentre parlava col farmacista gli era venuto in mente che un aiuto impor- tante poteva venire dal Martin Bascià, che lui conosceva come un fratello e del quale si fidava completamente.

IX

Martin Bascià era arrivato in paese intorno agli anni Trenta, ragazzo. Nessuno si era mai preso la briga di sapere da dove provenisse, al seguito di una vecchia zia che, occupato un fondaco nelle case sotto il lavatoio, vi si era installata senza mai uscire se non per fare la spesa. Da dove provenissero i soldi, che spendeva abbondantemente almeno per i generi alimentari, non si sapeva. Né si sapeva dove li custodisse. Martino era di pelle scura, neri erano gli occhi e i peli: “sembra un scurbat”, diceva qualcuno, ma altri lo chiamavano “u scaraffone”. Nessuno riuscì mai a scoprire quando e come sparì la zia. Il panettiere e il macellaio un giorno videro presentarsi, a far acquisti, il nipote che continuava a comprare la stessa quantità di cibo, come se a mangiare fossero sempre in due. Ma con il passare del tempo e dalle poche parole che i negozianti riuscivano a strappargli, si seppe che la zia non abitava più con il ragazzo. Anzi, era pro- prio sparita forse per ritornare nella patria d’origine. Nonostante il paese brulicasse di curiosi, nessuno si inte- ressò mai seriamente per chiarire la situazione. Passava il tempo, Martino cresceva, aveva sempre i soldi per paga- re e non dava fastidio a nessuno. Diventato un giovane uomo, un giorno sparì anche lui dalla circolazione per ripresentarsi, dopo qualche mese, accompagnato da tre belle ragazze che fece iscrivere all’Ufficio Anagrafe asserendo fossero sue cugine.
Nel vecchio, piccolo fondaco, al padrone del quale anche da lontano aveva continuato a pagare l’affitto, ora risiedevano in quattro.
Martino tutte le mattine si alzava all’alba e, dopo un’abbondante colazione, partiva, tirando un carretto, alla raccolta di qualsiasi cosa trovasse buttata via lungo le strade, nei cortili o nelle aie dei contadini: carta, vetro e me- talli. Tornava alla sera, prima di cena, con il carretto sempre pieno. Lo scaricava davanti al fondaco e, dopo esser- si accesa la pipa e aver preso posto su una comoda poltrona che aveva portato fuori da casa, dirigeva le tre ragazze nella suddivisione di quanto aveva raccolto.
Questo succedeva tutti i giorni della settimana, sabati e domeniche comprese. Solo al lunedì Martino trasporta- va il suo piccolo tesoro: il metallo alle ferriere Tassara; il vetro alla ditta Pontebba che poi lo rivendeva alle vetrerie; carte e cartoni giù al Lanico dove venivano ammucchiati vicino ai binari del treno, in attesa fosse raggiunto il quantitativo necessario a riempire un vagone da man- dare alle cartiere. Di soldi doveva guadagnarne abbastanza perché ci vive- vano in quattro, e ai vicini sembrava abbastanza bene. La cosa che suscitava grande invidia era che le ragazze erano sempre in preda ad una grande allegria, durante tutta la giornata o cantavano o scherzavano ridendo anche sguaiatamente. Comunque nel loro gruppo non accettavano nessuno e con i vicini scambiavano solo le parole per una civile convivenza. Non si sapeva cose succedesse alla sera nel fondaco ma, data la costante allegria delle ragazze, qualcosa doveva succedere e, sicuramente, di molto piacevole. In paese, privi di notizie certe, si cominciò a mor- morare che le tre ragazze fossero, in effetti, il piccolo harem di Martino che, nonostante le fatiche di un lavo- ro pesante, riusciva ad accontentarle tutte e tre.

Naturalmente gli uomini sbavavano, invidiosi, pensando che uno straccione come Martino era riuscito ad attuare, così sfacciatamente, il sogno nascosto di ogni uomo: far convivere sotto lo stesso tetto moglie, amante e amante di riserva. Le donne, che avrebbero dovuto sentirsi parte lesa, invece, anche sulla base di quella allegrezza che le tre concubine dimostravano tutti i giorni, parteggiavano per Martino, che un giorno divenne per tutti Martin Pa- scià, storpiato poi, per ignoranza, in Martin Bascià.
Un giorno Martino vicino al lavatoio, in un posto al ri- paro, legò un asinello. La mattina dopo arrivò con un piccolo carretto e con gli accessori per attaccarci l’asino. La ditta si ingrandiva, Martino riusciva a visitare più posti, a recarsi nei paesi vicini e, davanti al fondaco, la quantità dei materiali raccolti continuava a crescere.
Un giorno mentre si trovava a Pescarzo, una frazione di Breno, venne avvicinato da una giovane vedova che ave- va deciso, dopo la morte del marito e non avendo figli, di trasferirsi presso una sorella che risiedeva a Brescia. Aveva bisogno di guadagnare e, forse, in città avrebbe potuto trovare da lavorare, magari a fare le pulizie in qualche famiglia benestante. La donna gli offrì di ritira- re, per quattro soldi, mobili e suppellettili della casa che stava per abbandonare. Martino accettò ben volentieri e da quel giorno si trovò, oltre all’abituale raccolta, a com- merciare in mobili usati e, di rado, in pezzi di antiqua- riato. Comprò il fondaco dove abitava con le tre concubine, lo allargò; prese in affitto un magazzino dove cominciò ad accatastare i mobili che non riusciva a rivendere subito. Insomma, incominciò una attività di compra-vendita che venne conosciuta praticamente in tutta la valle.
Ora, quasi sempre, erano i venditori a cercare lui; alcune volte offrendogli persino gli arredamenti in conto vendita, permettendogli così di tenere sotto controllo una grande quantità di merce senza grossi impegni finanziari. Quando ancora era ragazzo, durante uno dei suoi giri in cerca di rottami, Martino si era avvicinato a una cascina che sembrava abbandonata, attraversando un boschetto al centro del quale vi era quello che restava di un vecchio pollaio. L’attenzione fu attratta da un grosso pezzo di ferro, ormai arrugginito, che aveva una forma strana. Il ragazzo, cercando di rivoltarlo, lo spinse col piede. Un urlo terribile percorse la valle. Martino, tra dolori indici- bili, cercava di staccarsi quella morsa di ferro che gli lacerava la gamba. Ma la tagliola per volpi era fatta in modo tale che solo un uomo robusto riuscisse ad aprirla. Guidato dalle urla del ragazzo, il Russì, che stava pascolando alcuni capi proprio sopra la cascina abbandonata, venne in suo soccorso. Aprì con grandi sforzi la tagliola, tolse la gamba di Martino, se lo caricò sulle spalle per poi adagiarlo sul carretto del ragazzo e partire verso l’ospedale di Breno. Per fortuna nessun nervo era stato leso e la gamba fu sistemata con una ottantina di punti di sutura ed ingessata. Martino, da quel giorno, ebbe per il suo soccorritore una grande riconoscenza, quasi una venera- zione. Il Russì non si limitò, infatti, al trasporto in ospedale, ma andò a visitarlo durante i tre giorni di ricovero.

 

Fu lui a trasportarlo a casa e a portargli da mangiare sino a quando il ragazzo non fu in grado di camminare. Quando Martin Bascià vide venirgli incontro l’amico Russì, gli rivolse un gran sorriso per poi abbracciarlo fraternamente apostrofandolo scherzosamente: “Vecchio orso delle montagne, è la fame di femmine che ti ha fatto scendere a valle?” e dopo avergli battuto affettuosamente la mano sulla spalla lo invitò ad entrare nel Bar Littorio per bere un aperitivo. “Sto volentieri con te, ma aperitivi niente. Se no con la mia morosa rendo poco e lei ci tiene alle mie prestazioni. Te e le tue donne come andate? Ce la fai a mettere al mondo un figlio, che sarebbe ora? Mi sa che non ci sai fare. Vedrò di trovare il tempo per darti qualche lezione e magari… una mano”. Tutti e due scoppiarono a ridere e il Russì prese l’amico per un braccio, tirandolo verso il centro del paese dov’era il tabaccaio. Con voce più bassa chiese all’amico: “Come va con i tedeschi? Ti rompono le balle anche a te? Brutti bastardi”.
“Non li posso più vedere” rispose Martin. “Tutte le volte che mi incrociano e vedono che ho il carretto pieno me lo fanno scaricare neanche nascondessi partigiani o bombe. Un po’ lo fanno per dispetto, ma soprattutto lo fanno perché ormai hanno paura di tutto e di tutti. E poi girano sempre intorno a casa mia con la speranza di incontrare una delle mie donne e vedere di combinarci qualcosa. Io un giorno gli sparo a quegli affamati. La figa se la cerchino tedesca. Potevano pensarci prima di veni- re a rompere i coglioni a noi!” “Ho un progettino per castigarli” disse il Russì, “e forse potresti darmi una mano, naturalmente se te la senti”. “Con te sempre e ovunque” gli rispose. Dal tono della voce si capiva che era veramente disposto a seguire l’ami- co in ogni avventura.

 

(continua …)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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