CINQUE ATTORI, UNO SPETTACOLO, DIECI REPLICE. DRAMMATURGIA DIVIREN BELTRAMO
Di Alessia Savoini
Io ne esco, primo spettacolo teatrale post pandemia con cui debutta il Cap10100, un’esperienza visiva in replica per dieci giorni, dal 27 maggio al 5 giugno 2021, con la prestigiosa regia di Viren Beltramo, attrice, formatrice e organizzatrice teatrale, presidente dell’associazione culturale Compagnia GenoveseBeltramo.
Sul palco di uno spazio culturale che non si è lasciato indebolire dagli effetti della pandemia, ma che anzi ha stravolto questa nuova normalità con innovazione e inclinazione all’arte e all’incontro, cinque attori coinvolti nella drammaturgia e nell’intreccio di tre opere del grande Eugenio Ionesco – Il rinoceronte, il pedone dell’aria, il ré muore -, porteranno in scena la rivisitazione originale di queste piéces teatrali, attraverso lo sguardo di VirenBeltramo, che ci guiderà in un’esperienza nuova e toccante.
In questo tipo di teatro e nella rappresentazione che ne hai costruito, esiste ancora un’identificazione tra la narrazione e il pubblico (che è un nuovo pubblico), o i dettami di questo momento storico hanno stravolto i canoni di fare teatro? Le persone che verranno a vedere lo spettacolo sono sature di un lungo periodo di silenzio, isolate dal palco.
L’idea di questo spettacolo nasce prima del tempo della pandemia, anche se l’allestimento ha preso forma nei postumi del lockdown. È nato da un amore per il teatro e per la scrittura di Ionesco, mi sono sempre trovata nelle sue parole e, riletto alla luce di quello che ci sta succedendo, così come lo è stato alla luce di quanto mi stava succedendo due anni fa, va a costituire una sorta di ancora, uno stimolo, che si snoda attraverso un’opera di innamoramento della parola. Ionesco parla di virus, di vaccini, della paura di ammalarsi, della diversità, della disumanizzazione, sono tutte tematiche che questa pandemia ha fatto esplodere e quindi credo che le persone si possano riconoscere quanto noi, quanto me. Sono parole, le sue, di cui mi sono presa una libertà, con la scusa di amarlo l’ho un po’ stravolto, l’ho decostruito e ricostruito per costruire una nuova storia, perché io avevo bisogno di una storia.
Il nuovo pubblico. Io ne esco suggerisce l’invito a un’azione, quasi liberatoria. Non vi è epicità nella presa di posizione, quanto un ricollocamento della coscienza, individuale e quindi collettiva, della dimensione dell’uomo nella sua normalità. Qual è la spinta e quale la responsabilità che vuoi trasmettere in e con questo spettacolo, qual è la sua potenzialità trasformativa?
Io ne esco vuole essere uno specchio, come spesso il teatro si trova a essere. Vedere persone dal vivo che vivono delle esperienze che automaticamente ti contagiano nell’esperienza, fa sì che tu ne esca trasformato. Credo che chi si lascerà attraversare dallo spettacolo ne potrà uscire meno solo, perché questo è il viaggio di un essere umano che si torva più volte a fare una scelta e a decidere da che parte stare e che poi sceglie fondamentalmente la vita, sceglie di non accontentarsi. Credo sia un messaggiotrasversale a tutte le generazioni più che per il nuovo pubblico, perché ne ha bisogno il giovane come il meno giovane, sia nella sensazione di sciogliersi dalla solitudine sia nella volontà di essere contagiato da questa voglia di prendere coraggio. In questo momento soprattutto in cui ci sentiamo così isolati. Spero che alla fine le persone si sentiranno parte di qualcosa. E questo è proprio il potere del teatro dal vivo.
Quale posizione occupa il teatro in una società sempre più localizzata in una dimensione virtuale? Molti lavori hanno adottato la forma di smart working, il contatto umano e la soglia di separazione tra lo spazio personale e il mondo esterno si sono molto assottigliati e spesso nullificati. Nel mondo dell’arte del corpo, della vibrazione e del contatto visivo e sonoro, quali evoluzioni possibili e di valore vedi concrete in questo nuovo modo di viversi normali?
Finché si poteva abbiamo lavorato dal vivo, con l’uso della mascherina. Non abbiamo fatto laboratori online, solo un unico spettacolo in streaming lo scorso mese, ma perché ci è stato chiesto da amici, abbiamo evitato il più possibile di fare teatro virtuale, per me la parola teatro-in-streaming non ha senso, ma questo non vuol dire che chi l’ha fatto non abbia realizzato qualcosa di vero, è che per me non è teatro, poi noi facciamo cinema, il video lo amiamo e lo affrontiamo, ma è un altro strumento di comunicazione. Abbiamo percorso anche la realtà virtuale in questa pandemia, è una cosa ancora più distante, all’ennesima potenza del digitale, ma non è teatro. Il teatro è solo dal vivo. Tutto il resto sono altre cose, sono ibridi, sono sperimentazioni, sono tentativi, dignitosi di sopravvivenza. Ma il teatro non è morto e ha resistito per ora, vive da ben prima di noi e ci supererà tutti.
Eugenio Ionesco ha vissuto un tempo di transizione, il passaggio dalla Romania a Parigi, portando nelle sue rappresentazioni il limite della lingua che aveva sentito proprio. Delle tre opere che hai scelto, qual è la linea che le lega in una narrazione unica e in che modo la tua rielaborazione ha toccato l’ordinario? Quale aspetto hai toccato, smascherato, per ri-rappresentarlo?
Sono tre opere collegate per appartenenza, fanno parte di quello che viene definito ciclo Bérenger, nome del personaggio che incarna l’alter ego dell’autore. Nel mio caso, la storia del rinoceronte è il collante generale, al cui interno sono inseriti il pedone, che per me è il viaggio che più si avvicina alla spiritualità, quell’esperienza grazie alla quale si cominciano a vedere le cose in modo nuovo, e il ré muore, che nel nostro caso serve per accedere agli inferi, alle paure, all’incubo, all’ultima manifestazione di paura prima di fare la scelta finale. Poi non voglio rivelare troppo, ho rappresentato delle scelte che vorrei scoprisse il pubblico mentre guarda lo spettacolo.
Per quanto riguarda la rielaborazione, ho messo in relazione quello che per me è il teatro, rispettando Ionesco e omaggiandolo, creando due dimensioni: la dimensione dove è il pubblico (poi capirete perché) e la dimensione del palco, che hanno due linguaggi diversi, due modi di gestire il caos diversi, di gestire la paura, di manifestarla. Sicuramente il mio focus è molto incentrato sulla paura, sulla relazione con la paura e sulla scelta. Decidere da che parte stare. Credo sia un momento storico in cui uno questo sforzo lo si debba fare.
La dimensione del pubblico dovrà fronteggiarsi con una nuova modalità di essere spettatore: guardare uno spettacolo con la mascherina, distanziato nel suo insieme, già questo è una forma di isolamento, chi assiste è questa volta ancora più incanalato dentro sé. Si crea una separazione più sentita. Forse il teatro intraprenderà nuovi sviluppi, come compagniaavete pensato a nuove formule e forme nel vostro modo di fare teatro?
Io credo che le persone siano sature di sentir parlare di virus e mascherine, per cui l’ultima cosa di cui vogliono sentire qualcosa è la pandemia, io non tradurrei per ora questa realtà che ci appartiene, soprattutto in questo momento, lascerei passare del tempo prima di raccontarla, perché ancora la stiamo vivendo, ancora stiamo cercando di capire cosa ci sta succedendo, quindi anzi, proteggerei tutto quello che è stato fatto. Noi siamo una generazione di mezzo, proteggere quello che abbiamo è un obbligo morale per le generazioni a venire. Chi è stato prima di noi ci sta lasciando un’eredità e ne ho sempre avvertito molto forte la responsabilità, ora più che mai, perché sono tantissime le persone ad avere perso ciò che non era basato su fondamenta sufficientemente forti dal punto di vista economico, politico, e per me questa è una responsabilità, prima che di artista, di essere umano. Sono così contenta di accogliere un pubblico dal vero, che anche se sono separati da un metro cercheremo di colmare questa distanza con tutta la nostra energia. Mi auguro che il desiderio per questa stanca arte sia forte e sufficiente a mantenerci in vita.
Fare produzione è stata la nostra scelta, in questo periodo ci siamo resi conto di cosa era in nostro potere, abbiamo potuto creare reti, aprirci, metterci in contatto con tutte le altre realtà che vogliono collaborare, per creare insieme e farci trovare pronti quando il pubblico avrebbe potuto goderne di nuovo. Questo è quello che abbiamo fatto in pandemia e che stiamo continuando a fare.
Siamo in un momento di ri-apertura. Apertura e chiusura sono gli estremi necessari alla creazione, il presupposto è il vuoto come condizione indispensabile all’artista per la produzione dell’espressione. Il vuoto a cui segue il rifiuto del vuoto stesso. E in mezzo a questa concatenazione, vi è il momento creativo. Il tuo spettacolo, come hai dichiarato all’inizio, nasce da un’idea precedente alla chiusura, mentre la sua realizzazione è avvenuta nella fase di riapertura. C’è stato, in questo intramezzo, un’evoluzione, un cambiamento, un’infiltrazione che ha cambiato il modo di produrre e di vedere questo spettacolo?
Sì ed è stato il tempo. Non abbiamo mai avuto il tempo di dedicare così tanto tempo. Concretamente, questo periodo difficile ci ha portato quel che nell’ordinarietà in cui eravamo immersi prima era spesso solo un ritaglio, e abbiamo cercato di valorizzarlo il più possibile. Tutti siamo stati coinvolti in un processo di approfondimento, abbiamo avuto il tempo di interrogarci, perché meno presi dal vortice. Abbiamo perso tutto,ma nel perdere tutto abbiamo guadagnato questa cosa preziosa chiamata tempo e abbiamo cercato di farlo fruttare.
Questo periodo storico si è declinato in una plurima dimensione del conflitto. Mentre Ionesco lo ha affrontato dal punto di vista linguistico, da una lingua a un’altra lingua, noi ne abbiamo vissuto uno tra corpo e corpo. Chi recita porta una realtà del suo ordinario e, per quanto il tuo spettacolo vuole essere un omaggio alla scrittura e al teatro di Ionesco, c’è qualcosa di imprescindibilmente tuo e del tuo tempo. Qual è stato il tuo conflitto?
Io mi sono focalizzata più sui parallelismi che sul conflitto, ho fatto un altro tipo di percorso, ho cercato tutto ciò che in luirisuonava come punto in comune con la nostra realtà, seppur lui scrisse dopo una guerra, figlio di una delle cose più truci che ha vissuto la nostra umanità. Forse il conflitto è talmente quotidiano, quello che viviamo, che per me questo spettacolo è statoun’ancora, un’esigenza, l’ho creato e ci ho dato energia perché in un momento di tensione costante della vita quotidiana di ciascuno, nel fare qualsiasi cosa, non avevo questa necessità di esplorare un travaglio. È un viaggio sulle domande che uno si fa, per cui il conflitto è intrinseco all’opera stessa, ma non ho dato energia a questa dimensione. Per me il conflitto fa parte della vitalità, è un motore, io adoro la possibilità, il privilegio che si ha all’esterno di vedere due piani che vivono in parallelo, nello spettacolo succede spesso, puoi vederlo come un conflitto o puoi vederne la tessitura comune, ci sono entrambe le cose. Io tendo più all’armonia e forse lo spettacolo questa cosa la rispecchia.
Ionesco dice che <<il teatro è al rivelazione di qualcosa che era nascosto>>. Si porta sempre in scena l’uomo, quando ci si espone si mostra una parte che era stata nascosta. È una scelta tra ciò che riveli e ciò che decidi di tenere nascosto.
A me spaventa sempre dover spiegare, soprattutto Ionesco, perché spiegando si incorre nel pericolo di porre dei limiti. Sono moltovisiva, ho creato immagini. Figlia di un pittore, sono cresciuta con l’arte visiva, alla domanda che ponevo innanzi all’arte astratta di mio padre “cos’è?” lui rispondeva “quello che vedi”. Se ti dico cosa vedo io, tu che stavi vedendo qualcos’altro cadi nella preclusione della possibilità di vederlo.
Io ne esco. Critica sociale o dramma interiore?
Abbiamo tentato di fare quello che non siamo soliti fare. Non vuole essere una presa di posizione politica, ma una necessità di uscire dall’angoscia, da questo stato che questo periodo ci ha fagocitato.
Il rinoceronte di Ionesco andò in scena per la prima volta in Francia nel 1960. La sua era una denuncia alle ideologie totalitarie, che producono massificazioni e conformismo. Gli abitanti de Il rinoceronte si abbandonano passivamente alla metamorfosi da uomo ad animale. Qual è il rischio della nostra perdita? Quale soglia implica questa deriva?
Il pericolo è la disumanizzazione, che è intrinseca all’opera del rinoceronte. Abbiamo una costante necessità di identificare cosa sono le emozioni positive e cosa sono quelle negative, volendo a tutti i costi escludere quelle negative, manifestando sempre quelle positive e dichiarandole sui social, pensiamo che questo ci salvi, ci protegga e ci elevi, ma in realtà non è così, perché l’essere umano si unisce e cresce attraverso il dolore. Nel nostro caso credo che il pericolo sia una ricerca di sicurezza, abbiamo bisogno di essere rassicurati perché siamo spaventati, abbiamo mille motivi per esserlo.
Credo che il male, la violenza, sia una condizione naturale e il bene, il positivo, sia una chiave di lettura, una tendenza che si va a ricercare. Attribuendo quindi alla violenza un connotato naturale, è come se il teatro assumesse questa forza violenta, ha il potere di travolgere, finito lo spettacolo si torna a casa con una domanda o con una risposta e se è così è perché qualcosa si è smosso. E affinché qualcosa venga mossa, il teatro agisce una piccola violenza sul suo pubblico. Io ne escopuò reputarsi un atto violento?
Io spero che sia l’atto violento più efficace. Perché in questo momento l’atto violento con più risonanza è la delicatezza, siamo anestetizzati dalla violenza. Quello che vediamo non ci tocca più, non abbiamo bisogno di schiaffi, di parole pesanti… Nello spettacolo sono presenti queste componenti, ma sono impotenti in questo momento. Una persona che ti vuole parlare davvero, che ti vuole sfiorare davvero, questa è forse la cosa più violenta in questo momento.
Nel teatro di Ionesco è predominante l’aspetto del surreale. Nel tuo spettacolo, come hai affrontato questa soglia?
Il rapporto con il surreale nella nostra compagnia è sempre stato presente, spesso le nostre opere sono originali del tutto. Ionesco è una figura a cui noi ci siamo ispirati spesso e questa volta abbiamo provato a usare le sue di parole, in un linguaggio che anche se è nuovo, perché la regia spetta a me, quindi rivisitato sotto la mia visione, è in linea con il nostro modo di fare teatro. Ho lavorato sull’incastro di queste tre opere, poi ho scelto le persone, con un lungo lavoro di selezione, cercavo attori che mi piacessero. Vedere ad esempio Lidia Ferrari, una nostra ex allieva che si è staccata da noi e ha fatto altre esperienze, lavorando anche in Francia, superare tutti i livelli di selezione, è stato molto bello e gratificante. L’obiettivo è stato anche quelli di trovare persone che condividessero lo stesso desiderio e che fossero in grado di tradurre la mia visione, che è fatta di un aspetto fisico, sono tutti attori che hanno un grandissimo rapporto con il loro corpo, con la propria voce e che non sono attori marionette: quando abbiamo iniziato a lavorare, oltre a esplorarci reciprocamente, una volta che ho dato loro il testo e un reticolato, avevo davanti a me attori attivi, capaci di spazio sulla scena. Mi piace che le persone che abitano le immagini siano vere e vive e per esserlo devono essere attori molto percettivi, che sappiano sostenere questa verità e sono molto fiera di loro.
Regista donna. In questi tempi di rivoluzione e rivendicazione, la tua posizione potrà produrre una risonanza. Ma specificare che la regia è femminile può essere sia un atto di rivendicazione sia un sottolineare che tutt’oggi si debba ancora specificare che una donna può farlo.
Conosco uomini, a cui tra l’altro voglio anche bene, che dicono “a me piace la mia donna perché sa stare al suo posto”. Quando ho sentito questa frase, mi sono detta “adesso credo che cambierò posto. Continuamente.”
Per prenotare il tuo biglietto, cliccare il seguente link -> https://tinyurl.com/IoNeEsco
Dal 27 maggio al 5 giugno, presso il Cap10100, corso Moncalieri, 18, Torino
Per informazioni relative all’evento -> https://www.facebook.com/events/855651021696427?acontext=%7B%22event_action_history%22%3A[%7B%22mechanism%22%3A%22your_upcoming_events_unit%22%2C%22surface%22%3A%22bookmark%22%7D]%2C%22ref_notif_type%22%3Anull%7D
Coreografie: Valentina Gallo
Aiuto regia: Fabio Regis
Visione musicale: Leonardo Aloi
Scenografie: Massimo Voghera
Supervisione costumi: Giovanna Fiorentini
Supervisione illuminotecnica: Liliana Iadeluca
Realizzati dagli studenti dell’Accademia Albertina di belle arti di Torino:
Niccolò Bianchi – Giulia Bussetti – Veronica Cicirello – Maria Teresa Desario – Agnese Falcarin – Asja Lanzetti – Sara Marenco– Cristina Sabato – Valeria Sapiere – Chiara Tommasini – Mengran Zhang
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