PIANETA CINEMA
A cura di Elio Rabbione
Un’opera mancata, dai toni lugubri e dai trucchi eccessivi
Al termine della proiezione del Pinocchio di Matteo Garrone (quanto al confronto grande, diciamolo subito, con quel precedente Racconto dei racconti, visivamente entusiasmante, narrativamente perfetto), la prima domanda che ti fai è a chi sia rivolto il film, a chi è dedicato. E ti rispondi: non ai bambini, che certo s’intimoriscono ai toni lugubri della vicenda, alle tinte spesso scure, forse anche a certi trucchi animaleschi che confinano con il babau, a certa noia che t’assale in non pochi tratti; e non agli adulti, cui viene infelicemente sottratto il senso dello spettacolo, il guizzo del divertimento, il piacere del sorriso e salendo più su della risata, il palpito della sorpresa. Perché anche quando l’accoppiata di sceneggiatori Garrone e Massimo Ceccherini (il secondo a firmare come cosceneggiatore? perché? in che modo? per quale manna dal cielo: pronto pure a gonfiarsi inverosimilmente il ruolo della Volpe, un make up tenuto bene a bada, unghie lunghe e luride, una forestucola di capelli arruffati, un paio di baffi striminziti, tenendosi quello del Gatto – Rocco Papaleo – tre passi indietro a ripetere stancamente le sue battute) s’inventa un’andata di Geppetto nella misera trattoria a ricevere per pietà un misero pasto caldo, nel momento stesso in cui cercherebbe un piccolo lavoro, un tavolo, una sedia o una porta da aggiustare, ogni battuta, ogni movimento del parolaio Benigni diventa piano, ripetitivo, inconcludente, di troppo.
Benigni che nella parte centrale (per grande fortuna) sparisce per lasciare il posto al burattino di legno e alle sue tante avventure – calate in un’Italia ottocentesca di borghi con quattro case, di povertà, di distese di grano, di bettole scalcinate, di aie, di gente che vuol fregarti e che ti frega, di una giustizia che è tutta un teatrino, di un mare che sputa mostri -, il teatrino e Mangiafuoco (uno dei tanti luoghi bui con Proietti inutilizzato tra lacrime e perdoni, l’incontro con il Gatto e la Volpe che s’è detto e il campo dei miracoli, le cinque monete da seppellire e il raggiro, la Fatina azzurra che più anonima non si sarebbe potuta scegliere, quasi da dar ragione a Pinocchio a fuggire da lei, il tribunale, Lucignolo e il paese dei balocchi buttati via con quattro pennellate e così sia, la trasformazione in ciuco, la pancia della balena e il ritrovamento del padre seppellito dentro, la resurrezione a bambino vero e pieno di buoni propositi. Un lentissimo srotolarsi di episodi che tutti conosciamo (qualcuno per durata o economia è stato abolito), fedelissimi all’opera di Carlo Lorenzini ovvero Collodi ma senza che nessuno si sollevi dalla freddezza dei toni e ti afferri, ti faccia per un attimo soltanto tornare bambino (anche questo potrebbe essere un bel risultato), faccia sì che tu t’abbandoni al percorso di vita del povero burattino. E credo che questa negazione sia in gran parte dovuta proprio là dove regista e produttori più hanno creduto, spendendo ore di lavoro e quattrini (e allora pensate al candore di Comencini e Manfredi e dell’impareggiabile Andrea Balestri nello sceneggiato televisivo datato 1972), voglio dire in zona trucco: perché tutto quel posticcio, quel carnevale di piume, quelle barbe e quei baffi, quelle squame, quella patina fintolegno che ricopre il viso del piccolo Federico Ielapi impediscono ai sentimenti, alle emozioni di venir fuori, di prendere spazio, di essere lo scheletro del film. Che è un’opera mancata, destinata all’indignazione di chi guarda, all’occhiata all’orologio, alla pazienza, alla definitiva indifferenza verso una delle più belle figure della letteratura infantile. Con buona pace della Poesia, incredibilmente spazzata via.
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