Le prime immagini del 37° TFF
Organizzazione e dis/organizzazione, due parole su cui riflettere. Ne va dell’onore del TFF che continua a richiamare pubblico, a riempire le sale, a raccogliere proseliti. La pioggia di questo fine settimana certo non ha aiutato, ti ha fatto vedere con un occhio ancora più grigio ogni cosa, ha un po’ deturpato interesse e divertimento: ma certamente le lunghe code per i primi biglietti negli unici due gazebo della città, il dover sostare per qualcuno, in attesa di questo o quel film, all’aperto, sotto gli scrosci, mentre i più che affabili volontari ti invitano a raggrupparti di qua o di là per non cadere improvvisamente in bocca al tram che transiterà davanti agli ingressi del Reposi o mentre tu rischi di vederti infilare in un occhio una stecca d’ombrello, le proiezioni come ogni anno insufficienti per alcuni titoli, il rischio di sopportare simili code per poi sentirti rifiutare un accredito o un biglietto azzurro, per cui hai in precedenza sborsato denaro, causa la mancanza di sufficienti posti in sala. C’è di peggio al mondo, lo capiamo benissimo, ma per lavoro o per spontanea partecipazione vorremmo che in questi giorni la macchina del festival fosse oliata a dovere. Ripensata a priori e più a fondo da chi ne ha il dovere. Se è vero, come è candidamente vero, che il TFF continua a crescere, sarà più che necessario rivedere ogni luogo d’incontro, ogni proiezione, ogni tempistica (inutile appiccicare con brevissimi intervalli film a film, con i rischi di partecipazione che questo comporta) dell’intera ragnatela di titoli quotidiana. Altrimenti in qualcuno, come è successo in questi giorni, si insinuano la stanchezza e la rabbia per tutto il tempo speso male.
***
Per quanto riguarda il concorso ufficiale, ci sarà tempo di fare chiacchierate o approfondire quanto ci viene offerto sulla famiglia e il suo dilaniarsi, la coppia, le aspirazioni di una gioventù già disgregata, gli amori e gli affanni, la solitudine e la ricerca di nuove relazioni, le speranze che di tanto in tanto s’affacciano, i sogni più candidi o strambi. Dal Cile, opera prima del giovane Jorge Riquelme Serrano, è arrivato il debole Algunas bestias, la riunione di sei esseri appartenenti allo stesso nucleo familiare e a tre generazioni diverse, i due nonni, il padre e la madre, i due figli. Una riunione di cui i primi sono all’oscuro, lo scopo inventato dalla figlia e dal genero è quello di spillare un po’ di quattrini per dare il via ad un’operazione commerciale all’interno di quell’isola, un paradiso già di loro proprietà. I rapporti non eccellono e la convivenza non farà nulla per farli migliorare, la nonna ancora in fregola cercherà rapide liaison con il timido aiutante o cercherà di sbranare la nipote che s’è appropriata del suo rossetto, il padre troverà protezione nell’alcol, la nipote diverrà la preda notturna di un nonno che da troppo tempo non vede un giovane corpo femminile. Poi risalgono sulla barca che li ha portati là e se ne ritornano in silenzio alle loro case. Estremo, tutto alloggiato dalle parti della sgradevolezza, urlato per gran parte, inutilmente, vorrebbe avere la pretesa di analizzare senza se e senza ma i sei caratteri: al contrario non approda a nulla, distrugge quel poco che si ritrova tra le mani, tutto con momenti lunghi e ripetitivi.
Anche Le rêve de Noura della belga/tunisina Hinde Boujemaa non soddisfa appieno, forse abbiamo già visto troppe volte la storia della donna musulmana che, il marito in carcere (e all’uscita non aspira certo a mutare d’abitudini), continua ad allevare i suoi figli, tenta di rifarsi una vita con un altro uomo, chiede l’aiuto dei servizi sociali e di avvocati per il divorzio, per non essere incriminata e farsi cinque anni di carcere come adultera. Sopporta a testa alta l’aggressività dell’uomo, lo riaccoglie in casa, vive nel suo dramma, si trova a confrontarsi con gli atteggiamenti sbagliati dell’altro uomo. Il film è percorso da sensazioni, da attimi che raramente prendono corpo come di rado la protagonista ha la forza per esprimere la lotta di ogni giorno. Al contrario, il buffo viso, gli abiti maschili di una taglia più grande che indossa, l’arruffato groviglio di capelli, le movenze scomposte, tutto ci spinge a ricordare (e la giuria della Comencini farà la stessa cosa?) la prova di Roberta Colindrez al centro di Ms. White Light dello statunitense Paul Shoulberg, perfetto sceneggiatore e regista.
Parlare della morte, accompagnare passo dopo passo quanti la stanno affrontando, malati terminali arrivati agli ultimi attimi, questo è il lavoro di Lex con suo padre Gary, a capo entrambi di una sbiadita agenzia. Un lavoro che svolge bene, con le parole appropriate, un incontro pieno di buoni sentimenti con chi soffre: non così con quanti l’avvicinano nel mondo esterno, difficoltà di rapportarsi di fronte ad ogni incomprensione. Le cose sono destinate a cambiare allorché è Valerie, sul letto di morte e con la morfina che tenta di annullarle i dolori, ancora con tutta la voglia di farsi beffe di quell’ultimo appuntamento, a ingaggiarla, a cercare un po’ di giorni ancora con qualche brandello d’allegria, in sua compagnia come in quella del giovane Spencer. Lex dovrà fare i conti anche con il proprio passato, con le ragioni che le hanno fatto amare quel suo lavoro. Un’opera leggera e umanamente profonda al tempo stesso, dove i sorrisi e la disperazione sono la vita stessa, un’opera che poteva con brutte conseguenze virare verso il drammatico soltanto ma che Shoulberg governa con destrezza, con l’intelligente alternanza dei colori bui e delle tante note buffe dell’esistenza di Lex.
Elio Rabbione
Nelle immagini, nell’ordine, scene tratte da “Algunas Bestias”, “Le rêve de Noura” e “Ms. White Light”
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE