La realtà e le apparizioni, arrivano i “Giganti” di Lavia regista felliniano

Il mito pirandelliano in scena al Carignano sino a domenica 1 dicembre

 

 

Su quel grido lacerato – “Io ho paura! ho paura!” – si arresta lo spettacolo che Gabriele Lavia (con grande spiegamento di forze, vi concorrono la Fondazione Teatro della Toscana, il Teatro Stabile di Torino e il Teatro Biondo di Palermo) ha ricavato dall’incompiuto testo pirandelliano dei Giganti della montagna (anche a chiudere una terna di successo, dopo i Sei personaggi e L’uomo dal fiore in bocca): incompiuto sì, ma pure ricco di suggestioni e delle annotazioni che avrebbero interessato “l’azione del terzo atto (IV “momento”)” che l’autore quasi dettò al figlio Stefano “durante tutta la penultima nottata della Sua vita”, l’offerta degli ultimi “fantasmi”. Lavia, e con lui il resto della compagnia, s’atterrisce al rumore terrificante e sordo dei giganti, al prevaricare della materia sulla poesia, non cerca sviluppi, non poggia come Strehler su di un palcoscenico spoglio, ultimo brandello di autenticità, la carretta dei comici perché un sipario di ferro la schiacci: il teatro in rovina (un teatro all’italiana, in una attualità che sconcerta), su una terra sospesa, inventato nella scena di Alessandro Camera, sfatto e distrutto nei tre ordini di palchi, cancellato nei marmi e nei propri rilievi barocchi, polveroso dei calcinacci, rimane immutabile ed eterno.

Quell’archeologia teatrale è l’immagine della villa La scalogna, dove un deus ex machina, il mago Cotrone (un raisonneur tutto pirandelliano, uno fra i tanti in quel lungo ventennio fitto di titoli, ma anche un ordinatore come poteva essere il Prospero shakespeariano, ancora un mago, attraverso i panorami della propria isola), con il suo rosso copricapo alla turca, ha ospitato i suoi attori, i suoi mimi, le sue maschere (il lavoro di Andrea Viotti è una delle componenti più belle e convincenti della serata, la fantasia che viene invasa dai colori dei costumi, ricchi e abbaglianti, i grumi vivificati che si muovono attraverso la scena: come le maschere di Elena Bianchini), un trovarobato appoggiato alle pareti, le casse, un pianoforte, le quinte, teli bianchi e sipari, ombre e luci in lontananza, tutta la vita autentica del palcoscenico, una vita che può ancora mescolarsi con la favola. A fronteggiarsi con lui giunge la contessa Ilse, come un’Erinni pronta a vendicare l’opera di un poeta che la amò e che per lei compose La favola del figlio cambiato, la ricerca continua di una messinscena a causa della quale la donna ha sperperato ogni bene del consorte, un uomo avvilito e stanco che tenta ancora ad ogni istante di riconquistarla. In un mondo parallelo, fatto di sogni e visioni, di esseri che si animano, di fantocci che all’improvviso cessano di essere massa per sciogliersi e zigzagare attraverso lo spazio, spiriti dai grandi occhi e dalle movenze metalliche che s’umanizzano; e poi apparizioni, come quella dell’angelo Centuno che la Sgricia cattura al ricordo e porta in scena attraverso le parole del suo racconto. Ilse non arretra dalle sue decisioni, sorda alle parole e agli inviti di Cotrone a rappresentare il suo dramma soltanto davanti agli abitanti della villa, lei andrà nel mondo, sfidando quanti peccheranno d’insensibilità e forse di ferocia: quel galoppo che riempie la scena avanzando dalla platea, al cui interno siamo noi pubblico, corresponsabili della tragedia, la minaccia che occupa gli spazi del sogno, è il segnale dell’arrivo dei Giganti, del loro non-vivere, della rozzezza che li definisce, del deserto aspro in cui hanno ritrovato il proprio regno. Un regno opposto all’idea di Cotrone e del suo autore, alla poesia, e quel corpo di Ilse deposto sul carretto e trascinato via dagli attori, stabilito da Pirandello nelle sue ultimissime invenzioni di moribondo, sarebbe stato il marchio della sconfitta.

Lavia, attore pronto a immergersi appieno nelle parole del suo mago e regista multicolore che non disdegna di inondare questi Giganti di palpabile allegria, confinando con un mondo tutto felliniano (non a caso la musica di Antonio Di Pofi ha tanto spazio nello spettacolo, come potevano fare Rota o Piovani nei titoli del riminese), stoppa l’azione e lascia prima dei molti applausi un angolo di speranza. Governa i suoi 22 attori, una compagine come raramente se ne vedono oggi nelle nostre sale teatrali, con un carico d’invenzioni davvero invidiabili, la realtà, i sogni, le apparizioni, i movimenti, la gestualità, tutto nello svolgersi dell’azione diviene protagonista, importante, immediato. Forse non tutti i suoi compagni affondano gli artigli nelle parole dell’autore, forse il Conte di Clemente Pernarella meriterebbe maggior convinzione nei propri slanci e una più ragionata sensibilità, forse la Ilse di Federica Di Martino non riesce a recuperare tutto lo strazio che sta nel cuore di quella donna e avanza istintivamente, quasi a improbabili scatti. Ma certe figurine da presepe come la Sgricia o Mara-Mara con il suo ombrellino sempre in bella vista o Quaqueo o Milordino sono resi con una amara dolcezza che incanta: anch’essi contribuiscono all’ottima riuscita dello spettacolo. Repliche al Carignano di Torino fino a domenica 1 dicembre.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini dello spettacolo sono di Tommaso Le Pera

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