Arles 23 gennaio 1889 “Caro Theo, […] Hai ragione che la partenza di Gauguin è terribile, e ci fa ricominciare da capo proprio quando abbiamo creato e ammobiliato una casa per ospitare gli amici nei giorni cattivi. Ma intanto teniamoci i mobili lo stesso. E anche se oggi tutti avranno paura di me, col tempo ciò scomparirà. Tutti siamo mortali e soggetti a tutte le malattie possibili. Che ci possiamo noi se queste ultime non sono sempre di tipo piacevole. La miglior cosa è cercare di guarirle. Io pure ho dei rimorsi pensando alla pena che da parte mia ho causato, seppure involontariamente, a Gauguin”.
All’inizio del 1888 Vincent Van Gogh si era trasferito in Provenza per cercare quella luce e quei colori del Sud che avrebbero prima ripulito dalle tinte scure e cupe della nativa Olanda e, poi, incendiato la sua tavolozza negli ultimi due anni della sua esistenza e gli avrebbero consentito di creare capolavori immortali.
La ricerca ossessiva del colore e della luce era accompagnata dal desiderio, quasi un bisogno, una necessità profondamente radicata dentro di sé, di creare ad Arles una comunità di pittori che si sostenessero e si aiutassero, condividendo il difficile percorso artistico, un gruppo costituito da anime che facevano dell’arte la propria ragione di vita.
Gauguin avrebbe dovuto essere il primo adepto di quella comunità, il primo ospite, l’artista al quale Vincent guardava e che, in una sorta di esaltazione, aveva idealizzato, collocandolo su un piedistallo, come del resto, in passato, aveva già fatto con altri personaggi che, per brevi periodi, aveva considerato suoi maestri, sue guide lungo il difficile cammino della vita.
Per Gauguin Van Gogh aveva preparato una casa, la “Maison jaune” un rifugio, una stanza, per lui aveva cercato i mobili migliori e in lui aveva riposto le proprie speranze di condividere un percorso artistico in quella Provenza che tanto lo affascinava e che con il suo calore, la sua luce abbacinante, il mistral violento e frequente sollecitava i suoi nervi già fragili.
Gauguin giunse in Provenza il 29 ottobre 1888, spinto più dal sostegno economico assegnatogli dal fratello di Vincent, Theo, che da un effettivo desiderio di diventare il primo membro della comunità di artisti, e definì Arles “il luogo più sporco del Mezzogiorno”, mal adattandosi fin dall’inizio alla vita disordinata dell’inquilino.
Altri desideri si stavano, infatti, facendo strada nella mente di Gauguin, quelli di luoghi lontani e misteriosi dove creare una pittura nuova e primitiva.
Nel 1891 annuncerà all’amico Odillon Redon di avere “deciso di andare a Tahiti per finire là la mia esistenza. Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio, e spero di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio. Per far questo mi occorre la calma: che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui”.
Già nel dicembre 1889 il sogno di Van Gogh naufragava: iniziavano i primi scontri tra i due artisti, si susseguivano litigi violenti e furibondi che culminarono nell’episodio del taglio dell’orecchio.
Il 23 dicembre, dopo un violentissimo scontro Vincent rincorse per strada Gauguin con un rasoio e, successivamente, si tagliò il lobo dell’orecchio sinistro, portandolo, poi, in dono a Rachel, la prostituta di un bordello che i due artisti frequentavano.
Gauguin lasciò la Provenza e Van Gogh, dopo una breve degenza nell’ospedale di Arles, tornò a casa, pieno di energia creativa e di desiderio di riprendere a dipingere.
Tuttavia, trenta abitanti di Arles, per paura e pregiudizi nei confronti dell’artista strano, eccentrico, sicuramente “diverso”, firmarono una petizione per chiederne l’allontanamento.
La petizione non andò a buon fine, ma fu Vincent stesso a chiedere di essere ricoverato e l’8 maggio 1889 entrò volontariamente nella Maison de Santé di Saint-Rémy-de-Provence.
In 53 settimane di ricovero a Saint-Rémy Van Gogh realizzò circa 140 tele, continuando a domandare incessantemente al fratello Theo il materiale per dipingere.
“Mandami, ti prego, trentatré tubetti di colore, bianco, rosso lacca, verde smeraldo, arancione, cobalto, malachite, cromo e blu oltremare”: i colori violenti, quelli degli ultimi capitoli della sua vita.
L’arte continuava a rappresentare per l’artista olandese, prigioniero nel manicomio, uno strumento di evasione, il modo per impossessarsi delle ali della libertà e superare le pareti, i muri dell’orto conclusus, i viali del luogo nel quale volontariamente si era rinchiuso per sfuggire ai pregiudizi della gente, alle malignità di una società prevenuta e bigotta, in un ultimo estremo tentativo di guarire, circa un anno prima di diventare quello che Antonin Artaud, nel suo bellissimo saggio, definirà il “suicidato dalla società”.
Le opere del periodo di Saint-Rémy sono di dolorosa e sconvolgente bellezza e preludono ai capolavori-testamento degli ultimi mesi ad Auvers sur Oise, a quel “Campo di grano con volo di corvi” nel quale ogni luce è scomparsa per lasciare il posto all’oscurità definitiva.
La realtà inizia a piegarsi a deformarsi, in un visionario anticipo di quelle che saranno le opere di Chaim Soutine, di Edvard Munch, di Oskar Kokoschka, di Egon Schiele e dei grandi maestri dell’Espressionismo.
Gli alberi si protendono, enormi, nodosi, cupi e terrificanti verso cieli blu cobalto, la pittura si fa materica, risultato di un colore schiacciato dal tubetto direttamente sulla tela, diventa viva, avvolge, cattura, imprigiona lo sguardo.
A Saint-Rémy le stelle, punti luminosi e benigni nella “Notte Stellata sul Rodano” di pochi mesi prima, si trasformano in spirali travolgenti, vortici e controvortici che lacerano il cielo e che sembrano avvolgere l’albero in primo piano, un cipresso, la pianta dei cimiteri, un simbolo forse della morte imminente, come simbolo della morte è la luna, una falce fredda e lontana.
Il 9 maggio 1889 da Saint-Remy Vicent scriveva al fratello Theo “Quando sono colto dal mio “terribile bisogno di religione”, vado fuori di notte a dipingere le stelle… e sogno sempre un quadro così, come con un gruppo di amici vivi”.
Nel maggio 1890, ad Auvers sur Oise, Van Gogh dipingeva un’altra notte stellata, una variazione del dipinto di Saint-Rémy “Cipresso su un cielo stellato” e ne inviava una descrizione, accompagnata da uno schizzo a Gauguin: “Un cipresso con una stella, un’ultima prova – un cielo notturno con una luna che non emana luce: nient’altro che una piccola mezza luna che sorge dall’ombra scura della terra. Una stella esageratamente luminosa – se vuoi – un barlume di rosa pallido e di verde nel cielo blu oltremare percorso da nubi. In basso una strada fiancheggiata da alte canne gialle che si stagliano contro il blu chiaro delle Alpilles; un vecchio casolare con le finestre illuminate arancione e un altissimo cipresso molto diritto e molto cupo. Sulla strada una carretta gialla tirata da un cavallo bianco e infine due persone che camminano”.
Le stelle che ad Arles erano punti luminosi, inaccessibili, a Saint-Rémy e ad Auvers sur Oise si trasformano in stelle comete, più vicine, più semplici da afferrare e da raggiungere perché quella morte che consente di andare in una stella è ormai dietro l’angolo.
Barbara Castellaro
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