Trieste, ricca di storia sul crinale carsico e crocevia di frontiere contese, è la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropea. Una città “luogo dei luoghi”, protagonista dei racconti “I fantasmi di Trieste”(Bottega Errante Edizioni, 2018). L’autore, Dušan Jelinčič, giornalista della RAI e alpinista, uno degli scrittori italiani di lingua slovena più autorevoli e apprezzati, traccia una personale mappa della memoria che si intreccia con vicende misteriose e “fantasmi”. Come ogni città con un passato importante, complesso e sofferto, Trieste si porta addosso i segni di ferite mai rimarginate e di irrisolti conflitti. I luoghi di questo percorso con ampi tratti autobiografici – Jelinčič a Trieste ci è nato e vive in una casa del primo Carso, ai bordi dell’altipiano affacciato sul golfo che si apre davanti al porto e alla piazza Unità d’Italia – s’intrecciano con le persone, i protagonisti di queste storie.
Nei racconti prendono corpo immagini della città vecchia, del tram di Opicina – che sale fino all’omonima frazione sull’altipiano del Carso – e dei rioni di San Giacomo, San Giovanni e San Giusto. Si sente quasi l’odore salmastro del mare e il fischiare della bora, si possono immaginare le onde che s’infrangono sul molo Audace dove nel 1914 ( quando si chiamava ancora molo San Carlo) attraccò la corazzata “Viribus Unitis”,nave ammiraglia della marina Imperiale con a bordo le salme dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, uccisi nell’attentato di Sarajevo. Sullo stesso molo, quattro anni più tardi, giunse il cacciatorpediniere “Audace” della marina italiana. Era il 3 novembre del 1918, finiva la prima guerra mondiale e la nave che diede il nuovo nome a quella lingua di terrà in mezzo al mare, vi sbarcò un battaglione di bersaglieri. Oltre al paesaggio fisico ci sono i luoghi dell’anima e le storie di personaggi veri, come nel caso di Diego de Henriquez che morì la sera del 2 maggio del 1974 nell’incendio del suo magazzino, dove dormiva solitamente coricato dentro una bara di legno, portando con se i suoi segreti. Un personaggio straordinariamente singolare, triestino erede di una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola, raccoglitore di ogni genere di materiale bellico e ideatore del Civico Museo della Guerra per la Pace. La sua morte lasciò molti dubbi e forse, come fa supporre il racconto di Jelinčič. Diego de Henriquez ricopiò in due dei suoi diari, prima che venissero cancellate, le scritte lasciate dai prigionieri nelle celle della Risiera di San Sabba, lo stabilimento per la pilatura del riso che i nazisti trasformarono in lager. Morì a causa di questo,vittima di un incendio doloso? Cercando tra le voci e le scritte dei morti della Risiera venne a conoscenza di verità scomode sull’unico campo di sterminio in Italia?Cosa aveva scoperto?I nomi dei collaborazionisti triestini,qualcuno divenuto poi una figura rispettata della comunità locale? Aveva dato un volto a chi, denunciando i suoi concittadini di religione ebraica, aveva contribuito a toglierli di mezzo, arricchendosi? Volti che riappaiono, come fantasmi, assumendo le sembianze in un altro racconto di un anziano seduto sul tram di Opicina che assomiglia come una goccia d’acqua ad un volto che si intravede in una foto di cinquant’anni prima accanto a Odilo Globocnik,il nazista calato a Trieste per fare della Risiera un luogo di morte. Jelinčič, nei suoi racconti parla anche delle sfide calcistiche allo stadio Grezar, intitolato al mediano triestino che perì con tutto il resto della squadra del Grande Torino nella tragedia di Superga, del vecchio bagno asburgico “La lanterna”, più noto come “El Pedocin” ( il piccolo pidocchio) dove un muro lungo 74 metri e alto tre divide tra uomini e donne la spiaggia di ciottoli bianchi. E’ lì che l’autore, in gioventù, fece l’amara scoperta di essere considerato con disprezzo uno “sciavo”, in quanto sloveno di Trieste. Ci sono poi le storie dove il protagonista è James Joyce, che visse a lungo in città, completando la raccolta di racconti Gente di Dublino, diverse poesie oltre al dramma Esuli e ai primi tre capitoli de l’Ulisse, il libro che gli diede fama internazionale. In uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano, un monumento in bronzo raffigura lo scrittore irlandese mentre cammina, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “la mia anima è a Trieste”. Joyce, parafrasando Dušan Jelinčič, fa parte dei “fantasmi gentili”, come lo psichiatra Franco Basaglia che iniziò dal San Giovanni di Trieste la rivoluzione che portò all’abolizione degli ospedali psichiatrici con la legge 180. “La libertà è terapeutica”, venne scritto sui muri bianchi di quella “città dei matti” che rinchiudeva dietro le sbarre, con un “fine pena mai” chi era segnato dalla malattia. Grazie a Basaglia Trieste diventò la città del riscatto di tante persone, come nel caso di Olga, una “ex matta” che racconta la sua storia all’autore. I ricordi vagano e s’imbattono in Julius Kugy, l’alpinista che aveva cercato ovunque sulle alpi Giulie la Scabiosa Trenta, rarissimo fiore delle alpi slovene. Guardando l’immagine della piantina incollata su una pergamena ingiallita, la descrisse così: “..ecco la graziosa creatura di luce, sul calice d’argento finemente merlettato, vestita di bianco splendente, trapunta di tenere antere d’oro! Non era ormai una piantina, era una piccola principessa del paese dei sogni”. Kugy si era fatto costruire un organo che suonava personalmente nella chiesa di via Giustinelli. Una chiesa di proprietà della comunità armena, data in affitto ai cattolici di lingua tedesca e oggi semi abbandonata, esempio di degrado e incuria. In fondo è proprio Trieste,città di grande tradizione europea e crogiuolo di etnie, ricca di contraddizioni e oscuri sensi di colpa che si racconta in questo libro. E Dušan Jelinčič, con la sua scrittura coinvolgente, ne amplifica la voce.
Marco Travaglini