Gli orologi cosmici di Miss Bell

Temevo di essere un po’ provinciale, non abbastanza intelligente per Cambridge. Ero sicura che prima o poi mi avrebbero scoperta e cacciata da questa grande università. Ma fino a quel momento avrei lavorato sodo per dare il meglio di me”; una delle frasi più emozionanti e uno degli insegnamenti più significativi di Jocelyn Bell si riassume certamente in questa frase, che lei pronuncia quando ha già trascinato il pubblico nell’appassionante cavalcata attraverso la pioneristica radioastronomia degli anni Sessanta. E invece la ragazza di allora, venuta dal profondo dell’Ulster, nell’Irlanda del Nord, e infine dottoranda a Cambridge – dove però, nota con squisito humour britannico, si usavano ancora le valvole mentre “giù al Nord”, in Scozia, dove aveva conseguito i precedenti titoli accademici, già si usavano i transistor – era destinata ad entrare nella storia dell’astrofisica. Nel 1968, infatti, nel brusio cosmico e terrestre di segnali radio (e pensate quello che si vede ora, nell’era dei cellulari e delle telecomunicazioni globali), quasi annegati nel rumore di fondo e incisi su chilometri e chilometri di carta millimetrata, la giovane ricercatrice scopre dei deboli segnali di periodicità piccolissima, che sembrano provenire sempre dalla stessa posizione del cielo.

Non sono segnali umani, proprio per via della loro dipendenza dal tempo siderale, quattro minuti più breve del periodo di rotazione terrestre, e non sono neanche, purtroppo o per fortuna, segnali di piccoli omini verdi, visto che non sembrano subire lo spostamento Doppler che un pianeta in orbita attorno ad una stella subirebbe durante la sua rivoluzione.La risposta è rivoluzionaria: Jocelyn Bell ha individuato la prima prova di un segnale proveniente da un oggetto misterioso ed estremo, una stella di neutroni il cui campo magnetico, disallineato rispetto all’asse di rotazione dell’oggetto, è puntato verso di noi.Come un faro nel cielo, che ruota senza sosta, quando uno dei due poli della stella è rivolto verso la terra, le onde radio irraggiate dagli elettroni accelerati nei potentissimi campi magnetici della stella (si consideri che, se un magnete industriale arriva al massimo a 10 Tesla, la stella di neutroni arriva a qualche centinaio di milioni di Tesla) partono per un lungo viaggio nelle profondità del cosmo e arrivano finalmente a noi dopo viaggi di chissà quante migliaia di anni luce. Esperimento e teoria, ancora una volta, mostrano in queste circostanze la forza della loro sinergia: che le stelle di neutroni potessero esistere, era già stato da lungo tempo predetto, almeno da quando la relatività generale si era affacciata al mondo grazie al genio di Einstein.

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La ricetta è questa: prendete una stella di qualche decina di masse solari, un autentico mostro, ma se alzate gli occhi al cielo ne vedrete almeno un paio, famosissime, Betelgeuse e Bellatrix nella costellazione di Orione che, proprio in questo periodo, si alza nel cielo ed Antares nella costellazione dello Scorpione, che invece ci ha lasciato nel primo autunno. Quando, dopo qualche centinaio di milioni di anni di vita, una stella siffatta esploderà, spargerà nel cosmo buona parte degli elementi che il suo nucleo tumultuoso ha sintetizzato e che noi tutti conosciamo così bene, il ferro, l’oro, l’uranio, il calcio, l’ossigeno, mentre il suo nucleo di ferro e silicio sarà così pesante da andare incontro a trasformazioni qui sulla Terra inimmaginabili; durante il collasso, la materia di cui è fatta si trasforma principalmente in neutroni, impacchettati e sottoposti ad una pressione tale da avere la stessa densità di un singolo nucleo atomico, oppure, per farvi un’idea e non lamentarvi più del sovraffollamento in metropolitana, di tutta l’umanità compressa in un ditale da cucito, diventando un gas degenere, l’unico stato della materia che riesce, purché la massa complessiva del nucleo stesso non sia maggiore di due, massimo tre masse solari (e già questi sono valori eclatanti, il nucleo di una stella che da solo è due o tre volte più pesante dell’intero sole), a raggiungere l’equilibrio con la forza di gravità.Se anche questo limite è superato, si entra nel regno di altri oggetti astrofisici “mitici”, tanto per la scienza come per la fantascienza, i buchi neri.Quindi, che le stelle di neutroni potessero esistere era ragionevole pensarlo: il problema era dimostrarlo, considerato che si tratta di oggetti del raggio di venti chilometri (sic!), che non emettono praticamente luce visibile e non hanno fonti di energia interne; sono stelle, ma non brillano, sono stelle ma probabilmente non sono neppure palle di gas, bensì di materia ferrosa solida in superficie. Ci restano due speranze: gli effetti dei campi gravitazionali estremi che, però, cinquant’anni fa la tecnologia non era ancora in grado di rivelare, e il ricco contenuto in ferro, che genera correnti elettriche superficiali ed i potenti campi magnetici responsabili della radiazione emessa dagli elettroni. Jocelyn Bell stana proprio questo segnale, un segnale estremamente regolare, perché la stella, così compatta, ruota a grandissima velocità, in qualche millisecondo in media, al massimo in un secondo, e perde la propria energia rotazionale su tempi lunghissimi; potremmo osservare per anni e secoli una stella di neutroni e il suo segnale si presenterebbe a lungo puntuale all’appuntamento e, solo con misure di altissima precisione, potremmo dimostrare che anche lei, un po’ alla volta, come la pendola della nonna, “si stanca” e rallenta fino a fermarsi, chissà quando, in qualche milione di anni; ecco perché un giornalista del Daily Telegraph suggerisce il nome, che subito funziona, di Pulsating Star, Pulsar per gli amici.

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Più o meno negli stessi anni, si può dire solo qualche metro di lunghezza d’onda più in là, le antenne dei, curioso cortocircuito della storia, Bell Laboratories, compagnia telefonica americana, scopriranno un altro brusio significativo, questa volta nelle microonde: la radiazione di fondo, non più un segnale pulsato e regolare, bensì un segnale elettromagnetico uniforme che proviene dalle profondità del tempo, appena trecentomila anni dopo il Big Bang, ma questa è un’altra storia. Ci si domanderà se Jocelyn Bell abbia vinto il premio Nobel per questo premio, e la risposta è no: lo vinse il suo supervisore ed altri radioastronomi con cui lei ebbe a collaborare. Vi fu chi recriminò rumorosamente per quella che potrebbe apparire un’ingiustizia, ma lei stessa ha smorzato i toni negli anni visto che, effettivamente, il vero cacciatore di pulsar era stato il suo professore ed a lui si doveva il merito dell’avvio della grande campagna radioastronomica; lei era stata nel momento giusto, al posto giusto, anche se dobbiamo riconoscere a lei si deve l’acume e la caparbietà nello scoprire e nell’escludere, metodica come l’altro suddito di Sua Maestà Britannica, Sherlock Holmes, ogni possibile sorgente che non fossero la prima e poi, dopo una nuova ricerca nella mole di dati accumulati, la seconda e la terza stella di neutroni, che si nascondevano in quel segnale. Torto o non torto, a cinquant’anni dalla scoperta, Jocelyn Bell ha ottenuto comunque un grande premio, quello che l’Osservatorio Astronomico, il dipartimento di Fisica e il Museo dell’astronomia hanno voluto celebrare venerdì al Piccolo Regio: l’americano e ricchissimo Breakthrough Prize, che ne commemora la scoperta, capace di scompaginare il mondo, questa più o meno la difficile traduzione della parola breakthrough, e cinquant’anni di illustre carriera. E, anche in questo caso, Jocelyn Bell si è mostrata rivoluzionaria, destinando quasi tre milioni di dollari alla creazione di borse di studio per donne, minoranze e studenti svantaggiati in genere, perché possano perseguire le proprie idee e i propri sogni, un tema straordinariamente attuale, che dimostra come la scienza sappia essere fonte di pace e progresso, riallacciandosi, ancora una volta, con la radioastronomia che le ha dato la fama, nata dalla riconversione dei radar nelle macerie dell’Europa della seconda guerra mondiale.

Andrea Rubiola

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